PASSAGGIO A LIVELLO
Riforme: resistenze nobili e meno nobili
Ubaldo Pacella
La modifica dello status quo in politica e non solo, costituisce in Italia una novità davvero insopportabile per troppi noti. Il nostro è un Paese in cui tutto è apparentemente mobile e possibile, tranne operare modifiche reali: di fronte a queste c’è la granitica certezza che si salvino interessi, culture, resistenze trasversali nell’illuminante versione di Tomasi di Lampedusa.
Voglio essere esplicito in un’intricata ragnatela, molto apparente, costruita con un gioco di specchi dal vago sapore illuminista attraverso il quale rifulgono i principi teorici, mentre restano nascoste nell’ombra le motivazioni indicibili, o che comunque vanno celate al popolo minuto.

Non intendo in alcun modo entrare nel sofisticato dibattito costituzionale sulla modifica dell’ordinamento del Senato, non solo per le mie modeste competenze, ma perché l’attenzione si concentri sui modi e sui comportamenti politici. Convinto come sono che sia sempre possibile trovare soluzioni di alto profilo, qualora vi sia la libertà di spirito di raggiungere una convergenza, mettendo in gioco principi e privilegi personali.
Nutro una stima rispettosa per gli addetti ai lavori, nonostante cravatte verdi e assenza di calzini, per esprimere giudizi di merito. Sono al contempo attento osservatore della politica italiana per non capire che attorno alla revisione costituzionale oggi in atto si gioca una partita politica, direi definitiva se non mortale, per alcuni gruppi dirigenti, almeno quelli che hanno scandito gli ultimi vent’anni della vita pubblica di questo Paese, con risultati così trasversalmente mediocri, anzi tragici, tali da far dire con inusitata spigolosità al Presidente Giorgio Napolitano, che “senza dare lavoro ai giovani l’Italia è finita”.
Il nostro Paese ha bisogno, proprio di questo, di voltare pagina in maniera drastica e radicale, di abbandonare ogni traccia dei costumi del passato, anche a costo di mettere a rischio principi teorici dietro ai quali si nascondono interessi indicibili o gerontocrazie francamente indigeribili.
Nutro seri dubbi sul fatto che il “renzismo” possa produrre gli effetti agognati da milioni di cittadini. Resto tuttavia convinto, a ragione della palude che ovunque ne imprigiona e ne imbriglia i movimenti, che si debba modernizzare il Paese a qualsiasi costo e con ogni mezzo. È una rivoluzione copernicana senza spargimento di sangue. Un richiamo ai doveri e alle esigenze del popolo sovrano deve far breccia in quel manipolo di oppositori trasversali che, giocando a rimpiattino con le sorti della Repubblica, punta solo a mantenere un proprio ruolo nell’agone della politica, giacché nei propri partiti da lungo tempo le loro idee sono state accantonate. Penso sinceramente che le sorti delle future generazioni non possano essere affidate alla sottile dottrina parlamentare di alcuni noti giornalisti di cui i mass media hanno fatto a meno senza grande danno per l’informazione e per le proprie testate. Sono convinto che la qualità delle notizie è invero in Italia assai scadente, del tutto in linea con i risultati della politica della quale si fa corifeo.
Il disegno di legge costituzionale di modifica del Titolo V, che prevede anche un nuovo assetto del Senato, è stato profondamente rivisitato dal lavoro della commissione affari costituzionali. Questo dimostra che la condivisione di alcuni obiettivi finali e il lavoro comune possono realizzare non solo utili convergenze istituzionali ma riforme meno pasticciate, per il bene di tutta la collettività. Un assunto questo che vale per ogni aspetto della vita pratica e civile dell’Italia. Abbandoniamo i vessilli ideologici che oggi appaiono consunte bandiere di mille sconfitte economiche e sociali, prima ancora che politiche. Nessuno può vantarsi di uno Stato in condizioni comatose, dove nulla funziona e tutto deve essere drasticamente rivitalizzato.
Vorrei che i politici cui oggi è affidato questo compito d’immane portata e di rilievo storico mettessero al centro della loro riflessione, non le teorie, bensì il raggiungimento di servizi efficaci al cittadino a basso costo, senza sprechi, lontani da lottizzazioni, liberi da condizionamenti di parte e da ruberie diffuse.
Gli italiani sono allo stremo della pazienza per il peggioramento della qualità della vita a tutti i livelli, per le angosce che attraversano ogni famiglia nell’incapacità di dare risposte esaurienti ai figli che li guardano negli occhi chiedendo implicitamente perché i loro padri li stanno condannando alla disoccupazione, all’inattività, con risvolti psicologici gravissimi e ormai censiti.
Questa condizione determina una rivolta interiore tale che non si chiede di operare trasformazioni positive, ci si accontenta di cambiare e di decidere, anche male, anzi malissimo purché si decida rapidamente e si realizzino le cose promesse. È una sindrome preoccupante ma che va considerata in ogni sua sfaccettatura: c’è tempo per rimediare se oggi si agisce, restare fermi è fallimento assicurato.
Ciò che resta di un gruppo dirigente scosso e frustrato non può che prendere in considerazione questo grido disperato che gli italiani rivolgono loro: agite, cambiate, metteteci in condizioni di lavorare ad ogni costo, con ogni mezzo!
 È una logica sottile che tiene insieme tutte le azioni della politica, dalla riforma costituzionale alle leggi economiche, dalla revisione della spesa all’abbattimento delle tasse, dalla trasformazione di tutta la Pubblica Amministrazione e di chi vi lavora in funzione dei risultati economici e dei servizi certi al cittadino.
Una rivoluzione necessaria senza le parole e gli entusiasmi del vecchio ’68 che nulla di nuovo ha prodotto se non avvicendare una classe dirigente con i rivoluzionari di allora, comodamente seduti nei salotti della politica e nelle poltrone dirigenziali, dimentichi di ideali e valori disconosciuti da ogni azione quotidiana.
Questa trasformazione coinvolge direttamente la magistratura. L’unica vera intangibile casta che oggi determina come una sorta di primo motore immobile il corso della quotidianità del nostro Paese. La filosofia ispiratrice del sistema giudiziario italiano è intrinsecamente ingiusta: persegue un’idea assoluta che l’uomo non può raggiungere. La società si organizza con regole - in Italia ve n’è una sovrabbondante produzione di pari passo con il loro mancato rispetto - certe, rapide, capaci di favorire al massimo la convivenza civile. Quest’orientamento di elevato valore pragmatico impegnerebbe l’intero sistema giudiziario a fare molto presto, sufficientemente bene, premiando comunque la rapidità e l’efficacia rispetto alla pura dottrina giurisprudenziale. Ne deriva un rovesciamento epocale cui tutti dovrebbero conformarsi. Un sistema integrato di regole capace di scoraggiare l’abnorme ricorso al giudizio di magistrati come stabilito, tra l’altro, già in epoca medioevale in alcuni ducati italiani. La magistratura civile e penale dovrebbe giudicare solo pochi casi di grande valore civile ed economico, lasciando tutto il resto ad un sistema arbitrale rapido anche se modestamente efficace. Comprendo bene che tutto ciò sarebbe fortissimamente avversato dal nugolo di avvocati presenti nel nostro Paese, ricordo sommessamente che sono il triplo o il quadruplo della media degli altri Paesi avanzati, nonché dei magistrati forgiati nei decenni ad un’interpretazione causidica delle leggi, ad ogni formalismo, troppo spesso dimenticando l’effettività delle proprie decisioni e del valore che esse assumono, in tempi corretti, verso l’intera collettività nazionale.
La chiusura al cambiamento è del tutto naturale in chi è chiamato ad una tutela delle leggi, come fissazione di procedure e di idee comunque volte al passato.  Dovremmo tuttavia riflettere su quali immensi costi economici e sociali la nostra ingiusta giustizia produce. Resto sconcertato nel leggere che il primo presidente della Corte di Cassazione Giorgio Santacroce prenda carta e penna per dire alle commissioni parlamentari che i provvedimenti del governo rischiano di “decapitare” la Corte di Cassazione poiché prevedono che al 31 dicembre 2015 i giudici ultrasettantenni cessino dall’incarico. Il tutto motivato dal fatto che il CSM non sarebbe in grado in 18 mesi di nominare 39 nuovi giudici. Una modalità da Ancien Régime che lascia sbigottiti e stupefatti perché nulla potrebbe funzionare con queste regole nella vita civile, non dico nel privato o nei rapporti di lavoro ma nella stessa burocrazia pubblica. Oggi si sostituiscono interi vertici aziendali in termini di ore, esistono banche dati nazionali e internazionali con curricula super specializzati. È mai possibile che oggi il CSM non disponga su oltre 7500 magistrati in servizio di un gruppo di giudici formati in grado di essere nominati nel giro di qualche giorno? Se così fosse viene da dire al normale cittadino: Abolite il CSM!
Tutti dobbiamo capire, in primis la classe politica, che oggi sono indispensabili decisioni rapide, innovative e un totale rovesciamento di un sistema che ha condannato il paese al fallimento sociale, economico e civile. O stabiliamo nuove regole fondamentali o, come ha richiamato il presidente Napolitano, l’Italia è finita. Ciascuno si assuma con chiarezza e in modo trasparente le proprie responsabilità, non abbiamo bisogno di finte battaglie di bandiera, di opposizione da avanspettacolo, di titoli strappati a furia di dichiarazioni roboanti seguite dal nulla. Abbiamo bisogno di una dirigenza che si rimbocchi le maniche e abbandoni ogni precedente certezza, perché solo un vento nuovo può far salpare la sbilenca barca italiana verso un lido che assicuri il futuro alle generazioni più giovani e la sopravvivenza a quelle più mature.
La democrazia negli anni 2000 in Europa poggia su basi intrinsecamente diverse da quelle del secondo dopoguerra. L’appartenenza alla UE, il ruolo maturo delle opinioni pubbliche, una pervasiva diffusione delle informazioni a livello globale finiscono per sostituire i pesi e contrappesi formali che con grande acume i padri costituenti fissarono tra il 1946 e il 1948. Sono 70 anni di grandi trasformazioni internazionali. Oggi la solidità di una democrazia come quella italiana si regge sulla combinazione di questi fattori più che su una serie di norme e di poteri che finiscono per ostacolarsi l’uno con l’altro pregiudicando il funzionamento della società e minando alla base l’autenticità di una democrazia popolare. Non le norme, ma i cittadini con la loro coscienza e consapevolezza sono il presidio delle istituzioni.

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