Brutte maschere
Diliberto è un vanitoso impastato di soviettismo, ma non c’entra niente con terroristi e violenti
Luigi Manconi
Non condivido alcunché della cultura politica di Oliviero Diliberto e del suo partito, il PdCi. Un impasto di soviettismo autoritario, moderatismo burocratico, concezione disciplinare dei movimenti collettivi e della soggettività politica. il tutto sorretto da uno stile autocompiaciuto, che scivola agevolmente nella mondanità del linguaggio. Manifestazione di quest’ultimo atteggiamento sono alcune espressioni retoriche quali: “se ci si può ancora dire comunisti in questo paese” oppure: “se c’è ancora qualcuno di sinistra in Italia”, e altre ancora, proprie di un alternativismo autorassicurante. Sullo sfondo persino le tracce di alcune remote civetterie togliattiane: quasi si fosse all’epoca in cui la militanza culturale e politica di Concetto Marchesi suscitava fierezza nel PCI e stupefatto orrore nei suoi avversari.  Ne risulta una versione del comunismo come cultura d’ordine, non aliena da qualche tentazione reazionaria, di tipo anti-garantista e illiberale. Tutto ciò per dire quanto mi sia simpatico e affine il partito che ha per segretario Oliviero Diliberto. Ma, precisato questo, trovo che quella condotta nei suoi confronti sia stata qualcosa di molto simile a una campagna diffamatoria, che rivela l’ignominia –non esagero- dei suoi autori. Va da se, infatti, che  Diliberto non ha, non dico alcuna tendenza, ma nemmeno la più piccola indulgenza verso il terrorismo politico; non coltiva alcuna simpatia verso i movimenti sociali che presentino tratti illegali;  ne alcun compiacimento verso il ribellismo, il sovversivismo, lo spontaneismo sociale. Dunque non è pensabile alcun ammiccamento, e tanto meno complicità, verso l’insorgenza movimentista: figuriamoci quando minaccia sfracelli o il ricorso alla forza fisica nei confronti degli avversari o, infine, ne auspica la fine violenta. Pertanto, l’episodio della foto accanto alla donna che indossa la t-shirt con la scritta: “ la Fornero al cimitero”, è né più ne meno che un infortunio. Neppure così tanto rovinoso, se non fosse stato gestito nel più goffo e pasticciato dei modi. Una successione di versioni contraddittorie, ma –soprattutto- un atteggiamento elusivo, che si nega e nega l’unica semplice, semplicissima scelta: quella di chiedere scusa per una offesa non voluta. E, invece, ho sentito con le mie orecchie Diliberto, nel corso della trasmissione radiofonica La Zanzara, dire di aver trovato la Fornero “nervosa” e di essersi stupito che il ministro, prima di reagire con parole aspre, non gli avesse fatto “una telefonata”. Dietro un tale puerile atteggiamento, emergono quei difetti propri della politica politicante, più volte qui sottolineati. Innanzitutto, l’incapacità di chiedere scusa, di riconoscere un errore, di ammettere una defaiance. Dietro c’è la difficoltà a comprendere come l’ammissione di una debolezza possa essere –è ovvio, ma evidentemente non per tutti- un’affermazione di forza; e il domandare scusa, oltre che una manifestazione di lealtà, un segno di equilibrio e di sicurezza di se. Non solo: quella inflessibilità, contrabbandata per rigore, e quella durezza, presentata come serietà, costituiscono palesemente una maschera pubblica, quasi l’iconizzazione di virtù plumbee, che alla prova dei fatti risultano, ancor prima che grottesche, desolatamente vuote. Infine, in quel terribilismo tutto mimato e verbale si avverte l’idea che riconoscere un errore, e anche solo ammettere una gaffe un infortunio uno scarto,  possa rappresentare un cedimento di fronte al “nemico”. Ancora una volta, siamo in presenza di un episodio  –in questo caso incruento, fortunatamente- dell’infinita “guerra civile simulata”, che ben conosciamo: dove attori appassiti interpretano in maniera poco convincente sceneggiature zoppicanti. Un malinconico gioco di ruolo per giocatori che stentano a trovare un ruolo.
Il Foglio 27 marzo 2012
Brutte maschere
Diliberto è un vanitoso impastato di soviettismo, ma non c’entra niente con terroristi e violenti
Luigi Manconi
Non condivido alcunché della cultura politica di Oliviero Diliberto e del suo partito, il PdCi. Un impasto di soviettismo autoritario, moderatismo burocratico, concezione disciplinare dei movimenti collettivi e della soggettività politica. il tutto sorretto da uno stile autocompiaciuto, che scivola agevolmente nella mondanità del linguaggio.
Manifestazione di quest’ultimo atteggiamento sono alcune espressioni retoriche quali: “se ci si può ancora dire comunisti in questo paese” oppure: “se c’è ancora qualcuno di sinistra in Italia”, e altre ancora, proprie di un alternativismo autorassicurante. Sullo sfondo persino le tracce di alcune remote civetterie togliattiane: quasi si fosse all’epoca in cui la militanza culturale e politica di Concetto Marchesi suscitava fierezza nel PCI e stupefatto orrore nei suoi avversari.  Ne risulta una versione del comunismo come cultura d’ordine, non aliena da qualche tentazione reazionaria, di tipo anti-garantista e illiberale. Tutto ciò per dire quanto mi sia simpatico e affine il partito che ha per segretario Oliviero Diliberto. Ma, precisato questo, trovo che quella condotta nei suoi confronti sia stata qualcosa di molto simile a una campagna diffamatoria, che rivela l’ignominia –non esagero- dei suoi autori. Va da se, infatti, che  Diliberto non ha, non dico alcuna tendenza, ma nemmeno la più piccola indulgenza verso il terrorismo politico; non coltiva alcuna simpatia verso i movimenti sociali che presentino tratti illegali;  ne alcun compiacimento verso il ribellismo, il sovversivismo, lo spontaneismo sociale. Dunque non è pensabile alcun ammiccamento, e tanto meno complicità, verso l’insorgenza movimentista: figuriamoci quando minaccia sfracelli o il ricorso alla forza fisica nei confronti degli avversari o, infine, ne auspica la fine violenta. Pertanto, l’episodio della foto accanto alla donna che indossa la t-shirt con la scritta: “ la Fornero al cimitero”, è né più ne meno che un infortunio. Neppure così tanto rovinoso, se non fosse stato gestito nel più goffo e pasticciato dei modi. Una successione di versioni contraddittorie, ma –soprattutto- un atteggiamento elusivo, che si nega e nega l’unica semplice, semplicissima scelta: quella di chiedere scusa per una offesa non voluta. E, invece, ho sentito con le mie orecchie Diliberto, nel corso della trasmissione radiofonica La Zanzara, dire di aver trovato la Fornero “nervosa” e di essersi stupito che il ministro, prima di reagire con parole aspre, non gli avesse fatto “una telefonata”. Dietro un tale puerile atteggiamento, emergono quei difetti propri della politica politicante, più volte qui sottolineati. Innanzitutto, l’incapacità di chiedere scusa, di riconoscere un errore, di ammettere una defaiance. Dietro c’è la difficoltà a comprendere come l’ammissione di una debolezza possa essere –è ovvio, ma evidentemente non per tutti- un’affermazione di forza; e il domandare scusa, oltre che una manifestazione di lealtà, un segno di equilibrio e di sicurezza di se. Non solo: quella inflessibilità, contrabbandata per rigore, e quella durezza, presentata come serietà, costituiscono palesemente una maschera pubblica, quasi l’iconizzazione di virtù plumbee, che alla prova dei fatti risultano, ancor prima che grottesche, desolatamente vuote. Infine, in quel terribilismo tutto mimato e verbale si avverte l’idea che riconoscere un errore, e anche solo ammettere una gaffe un infortunio uno scarto,  possa rappresentare un cedimento di fronte al “nemico”. Ancora una volta, siamo in presenza di un episodio  –in questo caso incruento, fortunatamente- dell’infinita “guerra civile simulata”, che ben conosciamo: dove attori appassiti interpretano in maniera poco convincente sceneggiature zoppicanti. Un malinconico gioco di ruolo per giocatori che stentano a trovare un ruolo.
Il Foglio 27 marzo 2012
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