Politicamente correttissimo
Jus migrandi
Luigi Manconi
Facciamo un esempio. “Quando si parla di vicine sanzioni all’Iran, di nuovo Hillary Clinton riafferma il vangelo della correttezza politica promettendo che non danneggeranno la popolazione”. (Fiamma Nirenstein, Il giornale 6.1.2010)


Se la sintassi e la logica hanno un senso, da questa frase si deve dedurre che il “politicamente non corretto”,  ovvero il desiderabile (secondo la giornalista) sarebbe il “danneggiare la popolazione”. Ovviamente, la Nirenstein negherebbe una simile conclusione (e a ragione, essendo persona per bene), ma le sue parole confermano gli esiti perversi cui può portare, contro  “il vangelo della correttezza politica”, il culto della scorrettezza politica. Una sorta di tic e un tratto nevrotico della cultura egemone. La riprova è in altre due affermazioni (e in una possibile e sterminata rassegna del Foglio). La prima: “ Un pensabenista,  un ripetitore rituale del politicamente corretto, che perciò sa già tutto” (Giovanni Sartori Corriere della Sera 4.1.2010); la seconda:  “La posizione fino ad oggi dominante fra gli intellettuali liberal (e cioè politicamente corretti) è stata quella di negare l’esistenza del problema” (Angelo Panebianco – Corriere della Sera 8.1.2010). C’è, innanzitutto, una questione di stile: ma è mai possibile che, dopo due decenni di uso e abuso di una simile formula, ancora oggi qualunque argomentazione che si voglia anticonformista debba precipitare nell’evocazione del “mostro” del politicamente corretto (o, mesta alternativa, del “buonismo”)? Come non avvertire quello stesso malinconico olezzo di stantio che accompagna frasi come “è nel nostro dna” o, peggio mi sento, “senza se e senza ma”? Viene quasi la nostalgia di care e decrepite consuetudini linguistiche come “duri e puri”, se non addirittura di esauste formule come “mamma Rai”. In ogni caso, lo svillaneggiamento del politicamente corretto è tanto più molesto in quanto originato da un totale ribaltamento della realtà, che tende a tradurre in apparato storiografico per la lettura della società il motto chiagn'e fotte. Quest’ultimo è diventato l’approccio ermeneutico prevalente, del quale Giuliano Ferrara è il flessuoso e spericolato stuntmen. Vinco (meglio: stravinco) e mi piango addosso. In altre parole, chi critica il presunto dominio del politicamente corretto è la voce della scorrettezza politica che trionfa; e chi detiene l’egemonia culturale, lamenta di essere vittima dell’egemonia culturale altrui. È accaduto così che, fin dalla fine degli anni ’70 un robusto ceto intellettuale – giornalistico  e politico - abbia disegnato una rappresentazione della società italiana, dove dominerebbero i luoghi comuni di sinistra. Dunque, mentre si affermavano orientamenti collettivi connotati in senso fortemente gerarchico, il CC (il Ceto Chiagn’efottista) deprecava la “vittoria dell’egualitarismo”; mentre si diffondevano umori xenofobi, il CC inveiva contro l’ “accoglienza indiscriminata”; mentre in Italia si stentava a ottenere il riconoscimento delle garanzie individuali e delle libertà personali, il CC sbraitava contro la “retorica-dei-diritti-senza-i-doveri” e la “mistica della soggettività desiderante”. Pertanto, non stupisce che oggi, mentre in un pezzo d’Italia la criminalità organizzata e un caporalato semifeudale riducono in schiavitù migliaia di esseri umani, il pericolo vero sembrerebbe rappresentato “dagli intellettuali liberal” e “pensabenisti” che parlano di cittadinanza per gli stranieri. Insomma, mentre la mentalità corrente sembra condividere la politica in materia di immigrazione di Berlusconi&Maroni, il Ceto Chiagn’efottista maramaldeggia ardimentosamente contro i “luoghi comuni di sinistra”, ormai in rotta. Infine, nel merito. Secondo Panebianco, se il reato di clandestinità venisse dichiarato incostituzionale si negherebbe “allo Stato italiano il tratto fondante della statualità: la prerogativa del controllo territoriale”. Io che ho letto l’ottimo Relazioni Internazionali di Panebianco (Jaka Book 1992) e qualche altro testo, penso che la sovranità di uno Stato, anche in quella essenziale espressione che è il controllo del territorio, non si affidi di necessità alla tutela penale. E proprio nel diritto internazionale, la sovranità degli Stati non è affatto garantita dal ricorso alla tutela penale; e lo jus migrandi – che è tra i diritti universalmente riconosciuti – trae il suo fondamento dal diritto internazionale.
La Corte europea è ferma nel ribadire che diritti fondamentali, come quello sancito dal divieto di refoulement, non possono essere limitati neppure per ragioni  attinenti alla sovranità nazionale: quali esigenze “imperative” di sicurezza. Non sembrino, queste mie considerazioni, mera astrazione: cosa c’è di più astratto e di più ideologico cha sostituire una norma (quella che prevedeva la sola sanzione amministrativa dell’espulsione) con un’altra – il reato di clandestinità -che introduce una pena: e che, ad avviso di tutti gli operatori della giustizia e delle forze di polizia, si è già rivelata, oltre che, assai meno efficace, infinitamente più lenta e farraginosa?    
Il Foglio 12 gennaio 2010
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