L’agenda rossa
La storia italiana degli anni Settanta non è solo oscura macchinazione e nichilismo
Luigi Manconi
Ho sempre apprezzato l’aspra nitidezza e la severa sobrietà di Franco La Torre, figlio di Pio, ucciso dalla mafia esattamente trenta anni fa.
Quando Franco parla di quell’assassinio e delle responsabilità criminali e politiche che lo hanno prodotto, le sue parole esprimono una essenzialità senza appello, che non ammette alcuna ridondanza né consente ricostruzioni fantasiose. Qualche giorno fa, una giornalista televisiva gli ha chiesto di “una borsa” che non si sarebbe più trovata dopo la morte del padre, collegando immediatamente quel fatto – e qui la voce si è fatta altisonante – alla “sparizione della agenda rossa di Paolo Borsellino”. La replica di Franco la Torre: “non sappiamo cosa contenesse quella borsa, né chi l’abbia sottratta né a quale scopo”. Risposta esemplare: e non, certo, perché esclude interferenze e manipolazioni, ma perché pretende che esse, se prese in considerazione, siano razionalmente verificate e altrettanto razionalmente argomentate. Cosa che, sappiamo, non è accaduta a proposito di quella “agenda rossa”. E questo ha consentito che, su tale presunta scomparsa, si costruissero mitologie e retoriche, gestualità collettive e fantasie autorassicuranti. Forse è utile partire da questo per trarre un primo e parziale bilancio della discussione pubblica (su fatti di terrorismo, questa volta) sviluppatasi intorno al film di Marco Tullio Giordana, Romanzo di una strage. Si presta ottimamente alla bisogna un articolo dello storico Umberto Gentiloni (La stampa del 22 aprile scorso). La tesi di Gentiloni è lineare e per certi versi semplicissima: la storia dell’Italia repubblicana non è un immenso buco nero, dove tutto risulta avvolto dal mistero e dove le dinamiche politiche e sociali sono esclusivamente l’esito di una oscura macchinazione. Intendiamoci: non perché, in quegli anni, una oscura macchinazione (più oscure macchinazioni, in verità) non abbia operato, ma perché su di essa molto, comunque, sappiamo. Così che risulta meno “oscura” di quanto si creda. E – dove la magistratura è stata carente o addirittura complice – sono intervenute l’indagine storica e l’analisi politica, l’informazione critica e l’opinione pubblica consapevole. Ne consegue che “motivazioni di  sentenze, stagioni di studi e ricerche hanno dimostrato la matrice nera di una destra eversiva responsabile di stragi e delitti; eventi che hanno insanguinato anni e decenni, spezzato vite innocenti giovandosi di complicità e connivenze di settori dello stato deviati o piegati a interessi di parte”. Di tutto ciò, dunque, qualcosa sappiamo, e non è nemmeno poco: “non è vero che non si conosce la storia degli anni ‘70; i misteri d’Italia non sono la trama incompleta di un romanzo criminale, né si può accettare un’immagine falsata del dopoguerra”. In queste parole si trova la conferma di quanto più volte si è scritto in questa rubrica. Una concezione pan-complottista della storia nazionale, così diffusa in una certa sinistra che si vorrebbe radicale, risulta puerile e grossolana, per un verso, e ottusamente nichilista, per l’altro. E produce una rappresentazione della storia nazionale quasi fosse un flusso di eventi eterodiretti e sovradeterminati, dove la politica è o mero esercizio autoritario o vocazione subalterna e gregaria. E dove i cittadini sono privi di qualunque capacità di autodeterminazione e, tanto più, di autocomprensione. Uno scenario così grottesco che, i personaggi di Vogliamo i colonnelli (Mario Monicelli 1973) vi si troverebbero a disagio, risultando come dei moderati centristi; una ricostruzione dove la mobilitazione collettiva, che pure ha segnato gli anni ‘70, viene ridotta a una goffa agitazione psicomotoria, tanto impotente quanto velleitaria. Il risultato di questo “sinistrismo complottista” è una rappresentazione della società italiana in chiave tutta vittimistica e  subalterna. Un popolo di sudditi, espropriati del proprio destino e, ancor prima, della capacità di pensare la propria storia per come essa realmente è stata: una successione di azioni e di reazioni, di movimenti di emancipazione e, allo stesso tempo, di politiche di restaurazione, di “strategie della tensione” ma anche di “battaglie per la verità”. Una storia complicata, attraversata da molte tragedie e pochi riscatti, eppure dotata di una sua faticosa e contraddittoria capacità di trasformazione. Non una storia sorda e muta, bensì una vicenda collettiva tormentata e dolorosa ma non per questo votata al servaggio e alla alienazione. Insomma, “come si può accettare l’idea che la storia d’Italia diventi un lungo viaggio tra misteri non conosciuti o non conoscibili? Davvero siamo convinti che si possa costruire il futuro partendo dai buchi neri, dalle assenze, da un elenco di occasioni mancate?” (ancora Gentiloni). In altre parole, se accogliamo l’idea che la vita nazionale sia stata determinata, se non esclusivamente, in maniera preponderante dai servizi segreti italiani e stranieri, e dai loro manutengoli italiani e stranieri, sarebbe un errore ancora più rovinoso accettare che siano essi stessi – quei poteri occulti - a scriverne la storia, a imporne l’interpretazione, a diffonderne la percezione collettiva.
il Foglio 1 maggio 2012
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