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burattino

Sul Terrorismo islamista

“Sapete bene che è una lotta che può allargarsi all’infinito” (Osama Bin Laden)

Il terrorismo come l’abbiamo conosciuto, quello separatista/secessionista (basco, irlandese, bretone, corso…) e quello ideologico-rivoluzionario (Br, Raf, Action Directe…), anche nelle sue manifestazioni estreme e “irregolari” (dovute a gruppi minori e improvvisati), persegue una politica: e quella politica è sempre cosa diversa dalla guerra, anche quando ricorra a strumenti direttamente bellici. Proprio il logoro assioma di Karl von Clausewitz (“la guerra è la prosecuzione della politica con altri mezzi”) segnala che, in ogni caso, un salto c’è. E che quella prosecuzione evidenzia una coerenza ma, insieme, sottolinea una discontinuità. E indica come tra politica e armi vi sia una fitta rete di relazioni, che le armi non spezzano, bensì sussumono, modificandone la forma, ma non limitandone la pregnanza. In altri termini, nel terrorismo come l’abbiamo conosciuto è individuabile comunque  il modello d’azione, proprio della razionalità politica classica (o tracce di esso); una razionalità affine, in ultima istanza, alla nostra cultura e alla nostra storia politica. Una razionalità, cioè, fatta di valutazione del rapporto costi-benefici, verifica della capacità di acquisire consensi, controllo della coerenza tra obiettivo e strategia. In tale prospettiva, l’azione militare è (dev’essere) strettamente subordinata a criteri politici: deviare da questo principio significa cadere, appunto, nel militarismo. D’altra parte, individuare quale sia il discrimine tra “lotta armata” e “deviazione militarista” non è semplice: né per l’osservatore esterno né per i soggetti interessati (e non è un caso che le accuse di militarismo siano costantemente rimbalzate – indirizzate contro l’uno o l’altro –  tra quanti hanno praticato la “lotta armata” nel corso degli ultimi trentacinque anni in Italia).
Un criterio possibile – ma anche esso sfuggente ed equivocabile – riguarda l’uso degli strumenti e la valutazione dei loro effetti. Per capirci: il repertorio di azioni di Eta e Ira si manifesta, in primo luogo, attraverso atti terroristici, ma non attraverso  operazioni di guerra aperta. E a distinguere le due modalità e i due scenari - guerra e terrorismo - è precisamente (anche se non esclusivamente) il carattere indiscriminato o, all’opposto, selettivo dell’azione condotta, con riferimento agli obiettivi colpiti, ma anche alle armi utilizzate.

In un precedente capitolo abbiamo considerato come il neoterrorismo italiano tenda a farsi “sempre più terrorista”; come tale tendenza si manifesti su piani diversi (mezzi utilizzati e orientamento ideologico espresso, innanzitutto); e come, infine, indagare cause e segnali di quella “deriva terroristica del terrorismo” non soddisfi solo una esigenza di analisi, ma corrisponda anche alla necessità di affrontare la domanda su “che cosa dobbiamo aspettarci”. Ovvero “a che cosa dobbiamo essere preparati”?
Tra gli intenti di questo libro c’è quello di argomentare come la macchina complessa del terrorismo non sia affatto un sistema unico e omogeneo. Al contrario. Abbiamo a che fare con molti e diversi terrorismi e ognuno di essi è suscettibile di profonde trasformazioni e di molteplici differenziazioni. Tra queste ultime, si è evidenziata – appunto – una tendenza alla crescente indiscriminatezza e non selettività nella scelta dei mezzi e nella individuazione dei bersagli (e delle vittime): così come risulta palese – il riferimento è sempre al recente terrorismo italiano – una maggiore corrività ideologica nel valutare e giudicare l’attività di altri terrorismi e, in specie, di quello islamista.
Ora, se immaginiamo e disegnamo il  fenomeno nel suo insieme come …..
Il terrorismo ideologico-rivoluzionario e anche quello separatista/secessionista – pur se con alcune eccezioni – individuano il proprio nemico, ne focalizzano l’identità, ne circoscrivono la portata, ne motivano la riduzione a bersaglio, ne evidenziano le responsabilità (vere o presunte, s’intende). Questo è immediatamente riscontrabile nella storia delle Br e in quella delle formazioni affini di altri paesi europei: ma riguarda anche, a ben vedere, Eta e Ira. Le stesse azioni non selettive  di queste due ultime organizzazioni sono state “spiegate”, comunque, da una qualche argomentazione politica e, in ogni caso, razionale (razionalmente motivabile con criteri qualificati come politici): in una situazione di scontro aperto, il nemico viene individuato in una etnia ostile, in una confessione religiosa diversa, in una comunità percepita come uniformemente organizzata per il dominio (o complice passiva di esso). Il che ha portato a compiere azioni indiscriminate o che tali risultavano a posteriori in ragione dell’identità delle vittime; ma mai (o quasi mai) il bersaglio indiscriminato – e, dunque, l’esclusivo intento di produrre terrore  - ha costituito  il primo e precipuo obiettivo di quelle formazioni.
Sia chiaro: tutto ciò non ha impedito che Eta e Ira colpissero numerose vittime innocenti, compresi bambini e adolescenti e persone comunque inermi, ma questa crudele scia di morte rappresentava l’effetto in qualche misura messo nel conto (e comunque sottovalutato), di una strategia politico-militare che si indirizzava su altri obiettivi e perseguiva altri scopi. Questo aiuta a comprendere come sia potuto accadere che, almeno in una circostanza (la bomba esplosa nel parcheggio di un grande magazzino di Barcellona, nel 1987), l’Eta abbia porto le sue “scuse” ai familiari delle vittime; e in altre occasioni sia la stessa Eta che l’Ira abbiano riconosciuto errori e cercato “giustificazioni” a posteriori di azioni evidentemente ritenute “impopolari” o contraddittorie con la propria stessa strategia. Per quanto riguarda le Br, si pensi alla posizione assunta in occasione di un’azione militare della primissima fase, quando la scarsa preparazione o un evento  non calcolato fecero sì che vi fossero due vittime non previste (due militanti del Movimento sociale italiano, che si trovavano all’interno di una sede di quel partito, durante un assalto di un gruppo di brigatisti). Così l’episodio viene descritto in una ricerca curata da Renato Curcio: “Il 17 giugno 1974, a Padova, nel corso di un’incursione nella sede missina di via Zabarella, restano uccise due persone, Graziano Giralucci, Giuseppe Mazzola. Il nucleo veneto gestisce l’evento rivendicandolo all’interno della pratica dell’antifascismo militante. Le Brigate Rosse, a livello nazionale, pur assumendone la responsabilità, ribadiscono che la questione centrale dell’intervento armato è l’attacco allo Stato e non l’antifascismo militante” .
In effetti, l’azione poteva essere rivendicata e “spiegata” a posteriori secondo una logica militare, ma così non avvenne: anche se, in quella circostanza, l’ “errore” riconosciuto dalle Br non riguardava, evidentemente, l’ “innocenza” delle vittime (che, comunque, innocenti non erano per i loro assassini), bensì la loro “congruità” (il fatto, in altre parole, che costituissero un bersaglio non prioritario) rispetto alla strategia perseguita.  Di tutto ciò, evidentemente, non c’è la minima traccia nell’azione e nel “discorso” di Al Qaeda .  Ed è proprio col terrorismo islamista – e con l’atteggiamento nei suoi confronti da parte di quello italiano –  che la situazione precipita e il quadro cambia  totalmente. Un tale e totale cambiamento, evidentemente, non riguarda, solo e in primo luogo, la drastica accelerazione dell’intensità e radicalità del “tasso di terrorismo” che investe nel suo complesso il fenomeno del terrorismo, a seguito dell’irruzione nello scenario mondiale del terrorismo islamista e degli effetti che induce nei singoli terrorismi nazionali. Il fatto che il terrorismo italiano si faccia “più terrorista” (per mezzi cui ricorre e bersagli che sceglie, oltre che per orientamento ideologico) è solo l’ultima e periferica manifestazione di mutamento in atto. Ben altrimenti significativo, e dagli effetti infinitamente più profondi, e il mutamento che qui si intende segnalare. Ed è appunto un mutamento totale; è con il terrorismo islamista che fa la sua comparsa, per la prima volta nella storia, un terrorismo senza classe e senza terra.
E’ questo che fa la differenza. Ed è una differenza enorme. Incomparabile e irreparabile.
Siamo in presenza di un terrorismo che non fa riferimento a una territorio da liberare, a un popolo da emancipare, a una classe “da salvare”: a un soggetto definito da far prevalere  su un altro e da portare “al potere”. Siamo in presenza, piuttosto, di un terrorismo senza radici riconoscibili e senza fondamenti identificabili, se non quelli che rimandano a una fede religiosa : ovvero a un corpus mobile, soggetto a letture variabili e controverse, a dispute teologiche e a conflitti dottrinari, a scismi e a secessioni. Un terrorismo che travalica i confini e i continenti e che si diffonde orizzontalmente, occultandosi all’interno dei flussi migratori, spesso sotterranei, sempre in ombra (a causa, anche, di norme restrittive e spesso poco lungimiranti).
Un terrorismo, ancora, i cui contorni sono cangianti e mobili, che si affida a una identità salda ma sfuggente e che si concentra in un soggetto solido eppure articolato (se non polverizzato) in una miriade di microcomunità. L’inafferrabilità di questo terrorismo rende anche meno “afferrabile” (prevedibile, controllabile e, dunque, tutelabile) il suo bersaglio: sempre più esteso, sempre più esposto, sempre più vulnerabile: un ulteriore motivo, quest’ultimo, per assumere come obiettivo un nemico vieppiù indiscriminato e, via via, “il mondo intero”.  Perché, se la base di tale terrorismo poggia interamente ed esclusivamente su motivazioni di fede, il nemico è chiunque non si riconosca in quella fede, e in quella particolare confessione o interpretazione di essa. Di conseguenza, ogni limitazione della portata geografica (comunitaria, nazionale, continentale) dell’azione è semplicemente impensabile.
D’altra parte, proprio perché l’ispirazione prima è di natura religiosa, la forza della motivazione risulta così dirompente (più di altre motivazioni: di classe o di territorio). Solo una motivazione di fede, portata alle estreme conseguenze e vissuta con la massima intensità, può indurre a ignorare ogni altra considerazione e ogni altro metro di giudizio. Questo vale anche per il terrorismo di Hamas? Probabilmente sì, anche se in quella formazione e in altre affini , le motivazioni alla militanza sono di duplice natura: alla fortissima ispirazione di fede si addiziona una spinta,  altrettanto forte, di natura territoriale-indipendentista. E questo contribuisce a “insediare”  quei gruppi in una dimensione circoscritta e a ridurre il loro raggio di azione all’ambito dello spazio condiviso: il proprio territorio e quello del nemico. Sotto questo profilo si registra addirittura un “ridimensionamento” rispetto al passato. Negli anni ’70, infatti, le formazioni armate palestinesi condussero alcune azioni (anche particolarmente eclatanti ed efferate ma, comunque, incomparabilmente diverse da quelle di Al Qaeda) fuori dal “teatro di guerra”. Da oltre un decennio, sembrano esservi rientrate: e non solo per ragioni tattiche. In ogni caso, proprio Hamas può offrire l’occasione per meglio evidenziare l’unicità di Al Qaeda. L’attività di Hamas, infatti, rivela uno “stile terroristico” che presenta molti tratti propri del modello ispirato alla “guerra totale” (e a quello che, di conseguenza, chiameremo “terrorismo totale”): ma non quei due connotati che sembrano qualificare Al Qaeda e solo Al Qaeda. Mi riferisco al carattere indiscriminato dell’offensiva terroristica e alla dimensione tutta e solo militare della mobilitazione attivata . Sono due tratti non riconducibili ad Hamas. Quest’ultima formazione è capace di azioni particolarmente aggressive e micidiali, ma – salvo eccezioni – indirizzate contro un nemico identificabile e identificato. Certo, si assiste a un’estensione particolarmente ampia di quella figura di nemico, ma quella figura è comunque circoscrivibile e prevedibile, sia pure approssimativamente. Altra  significativa differenza: Hamas è un’organizzazione-comunità, un movimento strutturato e militarizzato, che accompagna la vita dei suoi aderenti e conduce una sua attività pubblica. Al Qaeda, al contrario, è un apparato bellico e un sistema di cellule clandestine interamente concentrate sul “combattimento” ( al-Jihad, appunto).
Il che contribuisce a spiegare il suo avvitamento, paranoico e monomaniacale, in una spirale di guerra totale. Quella spirale non prevede interlocutori diversi dai propri aderenti e militanti, non prevede alleati se non interamente complici, non prevede “zone grigie”  tra un “campo” e l’altro. Tanto meno, osservatori neutrali e soggetti innocenti. Questo, e solo questo, “spiega” perché bersaglio possono diventare i treni spagnoli e le metropolitane londinesi (e gli inermi pendolari e gli immigrati che vi viaggiano). Questo “spiega” perché gli attentati di Madrid  “dovevano” essere  di Al Qaeda. E infatti, a conferma, consideriamo come prova a contrariis gli attentati contro Carrero Blanco (rivendicato dall’Eta) e contro lord Mountbatten (rivendicato dall’Ira): essi costituiscono per molti versi, la massima e più riuscita realizzazione del modello terroristico “puro”, nella sua forma classica.
Quelle due azioni hanno richiesto una preparazione e un’organizzazione di alta efficienza militare, hanno prodotto uno scenario bellico (tutte le cronache evocano immagini “come dopo un bombardamento”), hanno richiamato categorie proprie della guerra (attacco/difesa; avanzata/ritirata; assalto/rappresaglia): ma di una guerra ormai obsoleta nei suoi principi generali e nei suoi assunti strategici. Gli attentati “bellici” di Eta e  Ira (ma anche, per alcuni aspetti, delle Brigate Rosse contro Aldo Moro) sono, per un verso, una prosecuzione dell’azione militare classica nella sua forma guerrigliera e metropolitana; per altro verso, un’anticipazione dello scenario della “guerra totale”.
Ma, tutti, rimangono al di qua dell’inedito confine che verrà tracciato dal terrorismo islamista. I tre attentati prima ricordati corrispondono, infatti,  a un modello tecnico-militare che possiamo definire “ottocentesco” nella sua matrice anarchica e addirittura “cinque-seicentesco” nella sua antica ispirazione monarcomaca. Questo modello si perpetua e si riproduce lungo tutto il Novecento, intrecciandosi alle forme convenzionali di guerra e a quella tipologia bellica che Carl  Schmitt, già negli anni 30, definisce “totale”.
Per certi versi, quel medesimo modello sembra ispirare una parte del repertorio d’azione della stessa  Al Qaeda: ma più per gli aspetti squisitamente tecnico-operativi che per lo scenario in cui opera, i messaggi che invia, i fini che persegue. E, infatti, quella stessa tipologia di terrorismo e quello stesso suo repertorio d’azione  assumono progressivamente – ma assai rapidamente – una identità nuova e radicalmente diversa: quella che, sulla scorta dello Schmitt prima citato, possiamo definire come propria del “terrorismo totale”.
Un tale terrorismo presenta alcuni inequivocabili connotati. Esso è:
a)    de-localizzato; b) indiscriminato; c) a-temporale
Esaminiamo insieme i primi due connotati. Per quanto riguarda il punto b), va ricordato che l’annullamento della distinzione tra militari e civili è, per certi versi, antico come la stessa guerra: già von Clausewitz  scriveva:
Ma quel processo di in-distinzione  si realizzava comunque all’interno di confini; confini definiti, o in via di definizione o controversi o, addirittura, posta in gioco di quella stessa guerra. Ma confini. Oggi, invece, il processo di in-distinzione realizzato da Al Qaeda avviene a opera di un soggetto, come si vedrà, interamente de-localizzato. Ovvero privo di qualunque riferimento a un territorio delimitato. Qual è, in altri termini, la “patria” di Al Qaeda? Quella di origine  o quella cui si aspira? quella negata o quella rivendicata o quella contesa? E qual è il soggetto che Al Qaeda “rappresenta”?
E’, appunto, l’Islam? Ma l’Islam cos’è? Un popolo, una religione, un’ideologia?
Sta proprio qui – nella mancata individuazione di un soggetto portante e di una causa immediatamente riconoscibile – la principale ragione di forza e, insieme, la radice della possibile debolezza del terrorismo islamista. Perché il carattere sfuggente (e, allo stesso tempo, abnorme) della “causa” rende altrettanto sfuggente la figura del nemico: ovvero chiunque a quella “causa” si opponga o anche solo risulti estraneo. D’altra parte, considerato che la “causa” può essere tutto (una fede, un sistema di valori, milioni di persone, i luoghi sacri, l’annientamento degli infedeli…) anche il nemico della “causa” può diventare tutto. Il mondo intero, appunto. Dunque, dal rifiuto della distinzione tra militari e civili si arriva, prima, al superamento della distanza tra “belligeranti” e “non belligeranti” e, poi, all’annullamento della differenza tra nemico e non. Il nemico non è chi ha dichiarato guerra o chi muove guerra o chi partecipa, in qualunque modo e in qualunque ruolo, alla guerra stessa. E’ nemico, piuttosto, chiunque si opponga alla “causa”: di più: chiunque sia altra cosa rispetto alla “causa”. (Anche se la “gestione” di alcuni degli ostaggi italiani  e perfino i più recenti messaggi di Osama Bin Laden rivelano una certa volontà di discernere tra differenti responsabilità).
Dunque, il dato più significativo non è – come si usa dire – il processo di globalizzazione delle due “macchine” (quella del terrorismo e quella della guerra e della guerra al terrorismo). Pertanto, non è l’allargamento geografico-orizzontale del conflitto, e la sua estensione a territori e a popolazioni sempre più ampie, a costituire la novità dello scenario attuale. E’, piuttosto, il coinvolgimento omnicomprensivo e omnipervasivo – anche se, al presente, ancora potenziale e solo minacciato – dell’intero “consorzio umano”.
Il messaggio di Osama Bin Laden dell’aprile del 2004 è eloquente: “la lotta può allargarsi all’infinito”. Sarebbe interessante sapere in che lingua Osama Bin Laden ha “pensato” quella frase: e quale significato preciso volesse attribuirle. E’ credibile che il riferimento non fosse, appunto, alla sola dimensione geografico-orizzontale, ma a quel concetto di a-temporalità che si intende illustrare qui di seguito. In ogni caso, il termine “globale” nel suo preciso significato (riferito, cioè, alla geo-politica mondiale) non dà conto della nuova dimensione del terrorismo islamista. Ovvero della sua capacità di azzerare tutte le distinzioni (tra guerra e pace, tra nemico e non, tra tattica e strategia, tra vicino e lontano, …): è questo che costituisce la natura davvero indiscriminata di quel terrorismo. E lo differenzia da tutti quelli precedenti. Essi, anche quando la posta in gioco non verteva sul controllo del territorio (come nel caso di quello irredentista, separatista, etnico…), rivelavano comunque un carattere “tellurico-terrestre”  : definizione suggestiva e complessa, che allude, per un verso, alla qualità essenzialmente difensiva della lotta “partigiana” e, per l’altro, a “un pezzo concreto di terreno”. Quel combattente “irregolare”, analizzato da Schmitt, è “una delle ultime sentinelle della terra”. Nulla di più lontano e diverso dal terrorista islamista.
Consideriamo, poi, il connotato c), quello che abbiamo definito a-temporalità. Sembra potersi dire, in altri termini, che il ritmo d’azione del terrorismo islamista e il suo “scadenzario” siano totalmente indipendenti dai tempi dell’agenda politica dei singoli stati nazionali e degli stessi soggetti sovranazionali. E rispondano, piuttosto, a tempi  e a esigenze di diversa natura. In particolare, a una logica di organizzazione e di mobilitazione tutta interna alla strategia militare del terrore e alla valutazione dei “sentimenti” dei soggetti più “prossimi” cui si rivolge.
Anche l’azione che più è sembrata strutturata e scadenzata su un tempo altrui – quello delle elezioni politiche in Spagna,  – è stata realizzata, probabilmente,  quando si sono verificate le condizioni più favorevoli (pur se, evidentemente, il calendario politico spagnolo è stato tenuto in debito conto). Ma la a-temporalità del terrorismo islamista risiede anche – forse soprattutto – altrove. Oltre che nella sua indipendenza dall’agenda politica dei diversi Stati nazionali e delle istituzioni sopranazionali, Al Qaeda trova alimento, forza e risorse in una diversa concezione del tempo, che è propria della cultura da cui trae origine. Insomma, il tempo per Al Qaeda non è quello “occidentale”: ne deriva una diversa interpretazione di concetti come “tattica” e “strategia”, ma anche “programma” e “fini” e, persino, “sconfitta” e “vittoria”. Tutto ciò definisce l’estraneità culturale, e mentale, di Al Qaeda rispetto allo spazio logico-temporale in cui agiscono i suoi nemici.
Tra le molte conseguenze di tale condizione, come si è detto, una è particolarmente e immediatamente rilevante. Ovvero il fatto che il terrorismo islamista conferma la sua natura di soggetto sempre “dentro” e “fuori” la politica occidentale, sempre interno–esterno a essa: e questo ne rafforza la dimensione “totale”. Quel terrorismo non appartiene mai interamente a “un” mondo e a un solo mondo: tende, invece, a diventare atto complessivo, a farsi ispirazione universale, a occupare spazio totale: spazio strategico e concettuale, insieme.
La novità è importante: il terrorismo globale (così come la guerra globale) è azione che si allarga, si trasferisce, si esporta, ma conservando un suo nucleo originario, una nicchia da cui muovere e a cui sempre tornare, una base propria, e indipendente e irrinunciabile. Il terrorismo totale è altra cosa: ha, sì, il suo reseau, il suo “covo”, ma la sua qualità essenziale e le sue possibilità di successo risiedono, innanzitutto, nella capacità di “invasione” del mondo: e, dunque, di completa trasformazione dello scenario bellico. E di sussunzione di tutto il mondo in quello stesso scenario. Tutto: l’intero pianeta (Al Qaeda ha già colpito in quattro continenti) e la società nel suo complesso: gruppi, classi e soggetti, senza alcuna distinzione di collocazione sociale, posizionamento gerarchico, forme di organizzazione, opzioni religiose, provenienza geografica. La differenza tra civili e militari risulta del tutto secondaria, se non insignificante, in tale contesto, sopraffatta da una generale omologazione degli altri -  di tutti gli altri - nell’unica figura del nemico. E del nemico assoluto.
Ecco perché si può parlare, a proposito del terrorismo islamista, di un fenomeno davvero inedito nella storia internazionale del terrore. E a questa assoluta novità corrisponde una particolare pericolosità. Il fatto che il terrorismo in questione è privo di radici circoscrivibili e di un proprio esclusivo e definito insediamento territoriale significa anche che non è sottoposto a vincoli; il non avere fondamenti localizzati e individuabili significa essere sciolti da responsabilità, da obbligazioni, da convenzioni..
Sciolto, innanzitutto, da quella prima e primaria convenzione che, dalla pace di Westfalia (1648) in poi, ha costituito la base del funzionamento – sappiamo quanto parziale e precario – del sistema internazionale di relazioni. Ovvero il riconoscimento della sovranità territoriale degli stati-nazione. L’inviolabilità del territorio nemico – per quanto costantemente contraddetta e nei fatti negata – costituiva, tuttavia, un principio-guida cui riferirsi. Oggi non è più così. Le cause sono innumerevoli: e, possiamo dire, non è stato prioritariamente il terrorismo islamista a produrre l’indebolimento, la messa in discussione  e, infine, il declino irreversibile di quel principio. E’ certo, piuttosto, che il terrorismo islamista ne ha sancito la crisi definitiva. E proprio perché la sua origine e il suo sviluppo – oltre a prescindere da radici di classe o, comunque, di natura sociale –  non muovono da un conflitto intorno all’”autodeterminazione nazionale” e non si concentrano su una controversia territoriale  o su uno scontro di natura etnica: dunque, non sollevano il problema del nemico come questione del territorio nemico.
E’ molto interessante, in proposito,  quanto afferma Dan Segre  : proprio nel rapporto (anche solo virtuale, o meglio: ideologico-simbolico) tra la “questione nazionale” palestinese e un terrorismo (quello di Al Qaeda) “avulso sempre più dal territorio”, egli indica il nodo cruciale del problema medio-orientale. Si può dire che anche solo pochi anni fa non era così; oggi, certamente, è così: una lotta, quella del popolo palestinese, tutta concentrata e, si può dire, inchiodata alla dimensione territoriale (con ciò che comporta: terre contese, “occupate” e “liberate”, confini violati e ripristinati, muri eretti e da erigere, penetrazioni e infiltrazioni, sconfinamenti ed esplusioni, profughi e residenti, convivenze e scambi, meticciati e doppie appartenenze…) perde – se sussunta da Al Qaeda – tutta la sua “fondazione materiale”. Ovvero il suo fondamento. Diventa – come nel messaggio di Osama Bin Laden dell’aprile del 2004 – una questione “teologica” tra “il grande mondo islamico” e “i mercanti della guerra, gli affamatori dei popoli” (“da Bush ai leader che gli ruotano intorno, i mass media e l’Onu che fa da tramite tra i regimi e le varie organizzazioni. Sono loro il vero pericolo mondiale, la lobby sionista”).
Dan Segre ne ricava l’idea di un terrorismo islamista “legato solo a Dio e alla propagazione globale di certe idee”. E’ un’ulteriore conferma dell’ipotesi prima delineata:  dallo spazio circoscritto (e territorialmente fondato e delimitato) della sovranità nazionale (riconosciuta o negata, perseguita o contestata, violata o rivendicata) alla dimensione sconfinata della “sovranità universale di Dio”. Il salto,  palesemente, è vertiginoso.
Tutto ciò sembra rappresentare lo sviluppo estremo e lo stadio ultimo del processo descritto da Carl Schmitt già nel 1937. Schmitt scrive che “in un certo senso ci sono sempre state guerre totali”, ma “una dottrina della guerra totale la si è avuta solo a partire da Clausewitz, il quale è il primo a parlare di guerra ‘astratta’  e ‘assoluta’ ”.
Schmitt ricorda, peraltro, come già all’indomani della prima guerra mondiale, la formula “guerra totale” ha acquisito “un senso specifico e una particolare efficacia”, fino a fa “irruzione nella coscienza collettiva” a seguito della pubblicazione, nel 1936, dell’opuscolo di Ludendorff, intitolato appunto “La guerra totale”. Schmitt fornisce la sua interpretazione di quella categoria  attraverso una classificazione davvero illuminante: “Una guerra può essere totale nel senso del massimo sforzo bellico e dell’impiego di tutte le risorse, anche di quelle ultime; ma può essere chiamata totale anche  nel senso dell’effetto sull’avversario, cioè nel senso dell’impiego spietato di mezzi di annientamento”. Insomma, “la guerra può essere totale da entrambe le parti o solo unilateralmente”. Ma può essere, da entrambe le parti, anche consapevolmente limitata, razionalizzata e “dosata”, attraverso la posizione geografica, la tecnica bellica, ma anche attraverso i principi politici dominanti. La tipica guerra di gabinetto del Diciottesimo secolo era una guerra consapevolmente e per principio parziale. Essa si fondava sulla netta separazione tra soldati impegnati in battaglia e civili dediti alle normali attività e non coinvolti nelle operazioni militari, tra combattenti e non combattenti”.
Giunto a questo snodo del suo ragionamento, Schmitt scrive: “le differenti specie di armi e i diversi generi di guerra (…) modellano in modo diverso il carattere totale della guerra”. E’, questa, una indicazione di grandissima importanza. Se, infatti, adottiamo i criteri schmittiani di “specie d’armi” e “generi di guerra”, il terrorismo contemporaneo – quello islamista, per come lo si è fin qui tratteggiato   – si configura come manifestazione ultima di quel processo di “totalizzazione” della guerra già evidenziato. Vengono così superate, e d’un colpo solo, le distinzioni novecentesche tra guerra marittima, guerra terrestre e guerra area e viene portata alle estreme conseguenze quella tendenza alla “guerra contro non combattenti”, già manifestatasi nei primi decenni del ‘900. In proposito, Schmitt è perentorio: “il ‘se’ della guerra totale è oggi fuori discussione. Il ‘come’ può essere molto differente”. Ecco, a distanza di settant’anni da quello scritto, è difficile dubitare della qualità ormai totale delle guerre contemporanee, innanzitutto – ma non esclusivamente per gli effetti che producono (nello scenario bellico, nel quadro internazionale, nella strategia del nemico). D’altra parte, Al Qaeda realizza e porta all’estremo compimento altre due categorie del sistema teorico di Scmitt: quella, ben conosciuta, dell’ “inimicizia assoluta” e quella – assai preziosa per il ragionamento qui svolto - fondata sulla relazione tra politico e Stato. Scrive, appunto, Schmitt che il politico   si fonda sullo “Stato inteso secondo il diritto internazionale europeo”; diritto che – tra il 18° e il 19° secolo – aveva reso la guerra “un conflitto condotto in una cornice ben definita, cioè un puro conflitto interstatuale”. Ne è derivato che “la guerra viene condotta da stato a stato come una guerra di eserciti regolari, statuali, fra due depositari sovrani d’un jus belli che si rispettano anche durante una guerra in quanto nemici né si discriminano vicendevolmente come ma di inimicizia, ma qui se ne vuole evidenziare uno particolarmente pregnante: il fatto che l’inimicizia in questione, a differenza di quella tra stati, NON prevede “una conclusione pacifica”. E non può prevederla perché l’inimicizia coltivata e perseguita da Al Qaeda si sviluppa tutta fuori – e come potrebbe essere diversamente? – dal “diritto internazionale europeo”. criminali, di modo che una conclusione pacifica è possibile, anzi resta perfino la normale conclusione, quasi ovvia, della guerra”  :
Questa considerazione è decisiva: molti sono i significati (come già si è detto) attribuibili  all’aggettivo assoluta che qualifica quella for
Dunque, il terrorismo islamista nasce fuori dal diritto internazionale e dentro quel processo di totalizzazione della guerra, lo accelera e lo porta a compimento: e ne viene, a sua volta, incentivato e condotto all’esito estremo. Si può ricorrere ancora a Schmitt laddove aggiunge: ”Sarebbe un’equazione troppo facile supporre che nella stessa misura in cui la guerra diventi totale, il soldato avanzi al centro di questa totalità in quanto tipo dominante”. Non è così, afferma Schmitt: se “la mobilitazione totale sopprime la differenza tra il soldato e il civile, ciò può avere per conseguenza sia che il soldato si trasformi in un civile, sia che il civile si trasformi in soldato, sia che entrambi si trasformino in qualcosa di nuovo, in una terza figura”. Ed è precisamente ciò che sta avvenendo. E ciò che sta avvenendo consente di analizzare contestualmente – perché sempre più affini (oltre che strettamente correlate) – le figure della guerra e le figure del terrorismo. Di più: le prime tendono irresistibilmente a trasferirsi e trasfondersi nelle seconde: e viceversa.
Lungi da me – sia chiaro - qualunque tentazione di accogliere tesi primitive quali quelle che assimilano terrorismo “di Stato” e terrorismo islamista: dunque, nessuna equiparazione politico-morale tra sistemi democratici e organizzazioni criminali. Qui il discorso è solo ed esclusivamente di metodo. E infatti, nel merito (le motivazioni, ad esempio), le due figure tendono ad allontanarsi altrettanto irresistibilmente. Il soldato è sempre più un professionista delle armi; il  terrorista, un credente nelle armi. Il primo è un tecnico, il secondo un fedele. Ma le modalità della loro azione, lo stile, il repertorio e la tecnologia tendono ad avvicinarsi; ed entrambi operano per ridurre, fino ad annullare, la distinzione tra combattente e civile. Ed è solo uno dei motivi di affinità.
Tutto ciò avviene in un quadro dove (secondo ancora le parole di Segre) “il terrorismo non è altro che la privatizzazione della guerra, così come i media e la pubblicità sono la privatizzazione della diplomazia”. Si tratta di un discorso di grande importanza. La categoria di privatizzazione risulta indispensabile per analizzare il terrorismo nazionale e sovranazionale; e qui privatizzazione va inteso sia in senso strettamente letterale che in una accezione assai ampia.
Soccorrono, in proposito, le parole di John Gray , secondo il quale: Al Qaeda persegue “una forma privatizzata di violenza organizzata a livello mondiale”: e questo – ecco il punto cruciale – non rappresenta in alcun modo “un regresso al Medioevo” (una tale tesi sarebbe per Gray, “stupefacente”). Al Qaeda è, al contrario, “un effetto collaterale della globalizzazione”. Ma torniamo a quella “terza figura” di cui scrive Schmitt: “Un’autentica guerra di religione trasforma il soldato in uno strumento del prete o del predicatore”. E ancora: “La guerra [marittima  inglese] è (…) totale, in quanto è capace di una inimicizia totale”. Ecco il punto qualificante, che prevale su tutti gli altri. “Generi” e “specie”, classificazioni e distinzioni sono tutti importanti, ma non quanto ciò che davvero denota la guerra totale nella sua ragione prima e nella sua implicazione estrema: ovvero l’inimicizia totale. Ma dove nasce, quando c’è, quella forma assoluta di ostilità? Nasce dalla capacità di “mobilitare forze religiose e ideologiche, spirituali e morali”.
Le “forze” di cui parla Schmitt - siamo nel 1937 - sono quelle che ispirano la “battaglia mondiale tra popoli germanici e romani, tra protestantesimo e cattolicesimo, tra calvinismo e gesuitismo”. E’ quanto era già accaduto nella 1° guerra mondiale, quando la propaganda inglese riuscì a impegnare “un potenziale incredibile di energie spirituali  e morali contro il ‘militarismo’ tedesco-prussiano in nome della civiltà e dell’umanità, della democrazia e della libertà”. Oggi, il terrorismo islamista sembra in grado di “mobilitare” altrettante – forse ancora maggiori – “forze religiose e ideologiche, spirituali e morali”.
Dal momento che scopo del presente lavoro non è analizzare il terrorismo internazionale, ma quello italiano e operante in Italia, qui preme rilevare come proprio quei tratti così peculiari e abnormi, qualificanti Al Qaeda, rendano ancora più sorprendente la dichiarata solidarietà delle Br nei confronti di essa; e come quella stessa solidarietà segnali una inequivocabile “svolta” rispetto a un “modello terroristico” che sembrava totalmente estraneo.
Il che autorizza a chiedersi, una volta ancora, se le Brigate Rosse (qualunque denominazione e qualunque forma organizzativa potranno assumere) adotteranno
quel medesimo “modello terroristico”;  e se quel “modello”, qualora davvero fosse adottato, potrà convivere con l’antica e rinnovata “vocazione operaista” delle Br e dei loro epigoni.
La risposta non è facile. Il terrorismo che conosciamo, quello ideologico-rivoluzionario e quello separatista/secessionista, non resta indifferente rispetto al terrorismo islamista. Al contrario: ne viene condizionato in profondità . Tant’è vero che – come si è visto – anche le Br italiane, così distanti, sotto tutti i punti di vista, da quel terrorismo, lo guardano con interesse e gli si “avvicinano”. Come già si è anticipato, se confrontiamo il giudizio sull’attentato alle Twin Towers  con la precedente letteratura brigatista, lo scarto ideologico balza agli occhi. Le “nuove” Br risultano fortemente attratte dall’enormità di quel “volume di fuoco” e appaiono del tutto indifferenti al fatto che quella strategia militare si traduca in paranoia bellicista. Così sintetizzabile: quanto più forte, dirompente, distruttivo è l’effetto militare dell’attentato (e, in primo luogo, quanto più alto è il numero dei morti), tanto maggiore è – secondo gli attentatori – il suo successo. Che si esaurisce in sé: è autoreferenziale. La logica è, di conseguenza, solo ed esclusivamente bellica. La politica, la più estrema, la “più terroristica”,ne viene letteralmente espulsa. Resta solo la guerra. Questo accade in Al Qaeda. E questo, va detto, può rappresentare una tentazione anche per il terrorismo ideologico-rivoluzionario.
In proposito – e con riferimento al terrorismo ideologico-rivoluzionario italiano – è di grande importanza la lettura del documento che Nadia Lioce ha tentato di leggere nel corso di un’udienza del processo di Firenze, che il 9 maggio 2004 la condannerà all’ergastolo (9 maggio 2004): “Sul piano degli equilibri internazionali, la strategia di dominio e di guerra accelerata dal polo dominante USA ha dimostrato tutti i suoi limiti”, in particolare a fronte di una resistenza nazionale irachena” guerra di popolo per la liberazione del Paese dall’occupazione imperialista”.
E’ un’affermazione importante, dicevo, perché – seppure nello spazio delimitato e deformato della retorica processuale e della proclamazione ideologica – tenta di collegare indissolubilmente tre soggetti: quello ideologico-rivoluzionario (le Brigate Rosse, appunto), quello collettivo-comunitario (la guerra di “popolo” e “la resistenza nazionale” degli iracheni) e quel soggetto rappresentato dall’esercito della “guerra totale”.
Ma tale progetto, e una simile correlazione, appare assolutamente irrealizzabile sotto il profilo organizzativo e militare. Per certi versi, inconcepibile. E, dunque, suona – nelle parole della Lioce – come un esausto delirio ideologico.
Tratto da Terroristi Italiani - Luigi Manconi - Rizzoli 2008
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