Il male minore
Luigi Manconi
l'Unità 22 marzo 2011
Nella società del rischio, può accadere di trovarsi sotto ricatto. Può succedere più di una volta nell’esistenza del singolo così come nella vita sociale. E può capitare che il ricatto fisico – l’intimidazione, la pressione intollerabile, attuata con mezzi coercitivi che limitano la libertà e l’autonomia – si intrecci a quello ideologico o morale. È lecito pagare un riscatto per una persona cara quando so che, così facendo, alimento il mercato dei sequestri? È indispensabile sapere che non esistono soluzioni semplici né vie di uscita lineari. Ed è altrettanto indispensabile capire che non è possibile restare innocenti né scegliendo una strada né optando per quella in apparenza opposta. Bombardare Tripoli significa – anche - provocare danni incalcolabili e causare vittime civili. Non bombardare Tripoli significa – anche – non impedire (= consentire) che Muammar Gheddafi, porti a compimento il massacro degli oppositori. C’è una “terza soluzione”? Oggi non so, ieri certamente sì. Ma andava perseguita per tempo, molte settimane fa. Una soluzione che prevedesse il riconoscimento degli insorti, il sostegno alla loro mobilitazione, il ricorso a tutti gli strumenti di pressione nei confronti del regime, una intelligente politica delle sanzioni, un’opera di isolamento internazionale attraverso il coinvolgimento di paesi arabi e africani e – so di scandalizzare o di passare per ingenuo - l’offerta di una via d’uscita tramite la concessione di un salvacondotto e la possibilità dell’esilio (ciò che non venne fatto e che forse si sarebbe potuto fare per Saddam Hussein). Di tutto questo, nulla è stato nemmeno tentato. Per più ragioni: e una riguarda direttamente l’Italia. Nel 2008 il nostro Paese ha firmato un Trattato di amicizia con la Libia, che traduceva il progetto iniziale del Governo Prodi in un dispositivo prevalentemente finalizzato a una politica di “contrasto all’immigrazione”. Sta qui l’origine del disastro. Risarcimenti abnormi e cooperazione industriale, forniture d’armi e mercato dell’energia: come merce di scambio, il pattugliamento congiunto del Mediterraneo, i campi profughi in Libia, il blocco delle partenze dalle coste africane, la strage di migranti nel deserto. Tutto ciò senza che alla Libia venisse chiesto un solo atto di riconoscimento formale e sostanziale dei diritti universali della persona, della tutela dell’incolumità dei migranti e dei profughi, delle convenzioni internazionali a presidio della dignità umana. In assenza di tutto ciò l’Italia ha chiesto solo un’opera di polizia, esercitata sempre con rigidità e talvolta con efferatezza, “nella piena cooperazione” tra le forze di sicurezza di un regime dispotico e quelle di un sistema democratico. Si trattava di un’operazione di facciata crollata dopo diciotto mesi e comunque resa vana dal fatto che i flussi di migranti si ingrossassero e scegliessero rotte diverse da quelle per Lampedusa. Ciò ha consentito al ministro Maroni di dichiarare “sbarchi zero”, senza indicare quanti, nel frattempo, fossero approdati in Calabria o in Puglia, e quanti fossero morti in mezzo al mare e nel deserto. È questo che evidentemente, ha impedito all’Italia di adottare quella “terza soluzione” prima indicata, e di svolgere quel ruolo quando sarebbe stato possibile esercitarlo. Ma oggi, nella situazione ormai precipitata, è ancora giusto invocare il ricorso esclusivamente a strumenti diversi da quelli militari? È ancora possibile evitare di rispondere con la forza alla forza? È attuabile una strategia interamente affidata a mezzi politici e diplomatici? A me non sembra più tempo. E, dunque, si impone quel principio fondamentale, così elementare e ragionevole e, insieme, così eticamente fondato, ancorché terribilmente doloroso, che è il “male minore”. Possiamo, sì, continuare a batterci perché politica e diplomazia prendano il posto delle armi, ma a patto di sapere che ogni secondo che passa aumenta la possibilità di Gheddafi di fare strage del suo popolo. Si può dire: preferisco che la strage si compia, con le sue conseguenze, piuttosto che arrendermi alla guerra e a ciò che la guerra porta con sé. Nell’un caso come nell’altro, non avremo salvato l’anima e saremo corresponsabili, anche solo per impotenza o ignavia, di nuovi morti. Ma una scelta va fatta. E io scelgo il male minore.
Il male minore
Luigi Manconi
l'Unità 22 marzo 2011
Nella società del rischio, può accadere di trovarsi sotto ricatto. Può succedere più di una volta nell’esistenza del singolo così come nella vita sociale.
E può capitare che il ricatto fisico – l’intimidazione, la pressione intollerabile, attuata con mezzi coercitivi che limitano la libertà e l’autonomia – si intrecci a quello ideologico o morale. È lecito pagare un riscatto per una persona cara quando so che, così facendo, alimento il mercato dei sequestri? È indispensabile sapere che non esistono soluzioni semplici né vie di uscita lineari. Ed è altrettanto indispensabile capire che non è possibile restare innocenti né scegliendo una strada né optando per quella in apparenza opposta. Bombardare Tripoli significa – anche - provocare danni incalcolabili e causare vittime civili. Non bombardare Tripoli significa – anche – non impedire (= consentire) che Muammar Gheddafi, porti a compimento il massacro degli oppositori. C’è una “terza soluzione”? Oggi non so, ieri certamente sì. Ma andava perseguita per tempo, molte settimane fa. Una soluzione che prevedesse il riconoscimento degli insorti, il sostegno alla loro mobilitazione, il ricorso a tutti gli strumenti di pressione nei confronti del regime, una intelligente politica delle sanzioni, un’opera di isolamento internazionale attraverso il coinvolgimento di paesi arabi e africani e – so di scandalizzare o di passare per ingenuo - l’offerta di una via d’uscita tramite la concessione di un salvacondotto e la possibilità dell’esilio (ciò che non venne fatto e che forse si sarebbe potuto fare per Saddam Hussein). Di tutto questo, nulla è stato nemmeno tentato. Per più ragioni: e una riguarda direttamente l’Italia. Nel 2008 il nostro Paese ha firmato un Trattato di amicizia con la Libia, che traduceva il progetto iniziale del Governo Prodi in un dispositivo prevalentemente finalizzato a una politica di “contrasto all’immigrazione”. Sta qui l’origine del disastro. Risarcimenti abnormi e cooperazione industriale, forniture d’armi e mercato dell’energia: come merce di scambio, il pattugliamento congiunto del Mediterraneo, i campi profughi in Libia, il blocco delle partenze dalle coste africane, la strage di migranti nel deserto. Tutto ciò senza che alla Libia venisse chiesto un solo atto di riconoscimento formale e sostanziale dei diritti universali della persona, della tutela dell’incolumità dei migranti e dei profughi, delle convenzioni internazionali a presidio della dignità umana. In assenza di tutto ciò l’Italia ha chiesto solo un’opera di polizia, esercitata sempre con rigidità e talvolta con efferatezza, “nella piena cooperazione” tra le forze di sicurezza di un regime dispotico e quelle di un sistema democratico. Si trattava di un’operazione di facciata crollata dopo diciotto mesi e comunque resa vana dal fatto che i flussi di migranti si ingrossassero e scegliessero rotte diverse da quelle per Lampedusa. Ciò ha consentito al ministro Maroni di dichiarare “sbarchi zero”, senza indicare quanti, nel frattempo, fossero approdati in Calabria o in Puglia, e quanti fossero morti in mezzo al mare e nel deserto. È questo che evidentemente, ha impedito all’Italia di adottare quella “terza soluzione” prima indicata, e di svolgere quel ruolo quando sarebbe stato possibile esercitarlo. Ma oggi, nella situazione ormai precipitata, è ancora giusto invocare il ricorso esclusivamente a strumenti diversi da quelli militari? È ancora possibile evitare di rispondere con la forza alla forza? È attuabile una strategia interamente affidata a mezzi politici e diplomatici? A me non sembra più tempo. E, dunque, si impone quel principio fondamentale, così elementare e ragionevole e, insieme, così eticamente fondato, ancorché terribilmente doloroso, che è il “male minore”. Possiamo, sì, continuare a batterci perché politica e diplomazia prendano il posto delle armi, ma a patto di sapere che ogni secondo che passa aumenta la possibilità di Gheddafi di fare strage del suo popolo. Si può dire: preferisco che la strage si compia, con le sue conseguenze, piuttosto che arrendermi alla guerra e a ciò che la guerra porta con sé. Nell’un caso come nell’altro, non avremo salvato l’anima e saremo corresponsabili, anche solo per impotenza o ignavia, di nuovi morti. Ma una scelta va fatta. E io scelgo il male minore.
«Ecco perché l’intervento è il male minore»
Francesco Persili
il Riformista 22 marzo 2011
Luigi Manconi. «Si doveva agire prima e meglio. Ma quando il violento calpesta la vittima non si può stare fermi».
«Un intervento fatto tardi e nel modo peggiore. ma il rischio è che Gheddafi porti a termine una strage di innocenti. Dunque, se si possono impedire nuove morti, l’intervento è necessario. È il male minore». Così Luigi Manconi alRiformista.
«Un intervento fatto tardi e nel modo peggiore». Luigi Manconi, già sottosegretario alla giustizia nel secondo governo Prodi, critica «l’inerzia» dell’Europa e la «codardia» della comunità internazionale sulla Libia che hanno reso «inevitabile ma drammaticamente intempestiva e, dunque, ancora più cruenta» l’operazione. «Di fronte alla prima mobilitazione popolare si poteva dare sostegno e riconoscimento agli insorti e mettere in campo strumenti di pressione nei confronti del regime: dalle sanzioni al coinvolgimento dei paesi arabi e africani per isolare Gheddafi». L’ex portavoce dei Verdi, che sul Kosovo, portò il suo partito a votare a favore dell’intervento in cima a un’elaborazione «dolorosa», si sarebbe spinto a concedere anche «una via d’uscita, un salvacondotto e la possibilità dell’esilio», al raìs libico. «Ma tutto questo non è stato fatto, né tentato, oggi dobbiamo affrontare un altro ricatto».
Quale?
Se bombardiamo Tripoli ci saranno danni e vittime innocenti. La stessa cosa succederà se restiamo fermi. Di fronte al ricatto, non si può cedere alla presunzione di innocenza di chi ritiene di essere più forte delle circostanze e fare scelte non condizionate. Non ci si può sottrarre dicendo facciamo altro.
L’intervento come male necessario?
Il rischio è che Gheddafi porti a termine una strage di innocenti. Dunque, se si possono impedire nuove morti, l’intervento è necessario. È il male minore.
Si può ancora trovare una soluzione diplomatica come auspica il governo?
Adesso che l’intervento c’è stato, bisogna far sì che l’iniziativa politica e la via della diplomazia riprendano il loro corso perché l’operazione duri il minor tempo possibile, faccia meno danni possibile, e non crei una situazione di tabula rasa. Quando il popolo solleva istanze di democrazia il nostro compito è sostenerlo e favorire soluzioni democratiche.
Coinvolgere la Nato è la giusta soluzione?
La ritengo ragionevole. In una situazione, come quella attuale, di indecente caos, l’assunzione del comando da parte della Nato potrebbe portare più razionalità sotto il profilo della strategia militare e ridimensionare le velleità di protagonismo di alcuni soggetti.
Quale responsabilità ha l’Italia nella crisi libica?
Enormi. L’Italia, più di qualsiasi altro Paese europeo, ha avuto con la Libia un rapporto che ha oscillato tra il subalterno e il marginale, l’equivoco e l’ammiccante. Il governo Berlusconi ha firmato il trattato di amicizia, che ha ridotto il progetto iniziale di Prodi e Amato ad un mero dispositivo di polizia. È stata la resa a Gheddafi, la cooperazione nella repressione dell’immigrazione nordafricana affidata alla politica di respingimenti basata sulla negazione dei diritti fondamentali della persona.
La riluttanza del governo conferma la golden share leghista sull’esecutivo?
Non ci vogliono interpretazioni raffinate o retroscena per capirlo. Quando il ministro La Russa sillaba che il Trattato di amicizia è sospeso di fatto, e poi si legge che la prima condizione che la Lega pone è il rispetto di quel trattato, si comprende che siamo in una situazione che sfugge a qualsiasi precedente storico, politologico, diplomatico.
Lei ha votato sì all’intervento in Kosovo, mentre è stato contrario a quello in Iraq.
Il fatto di essersi emancipati da una lettura ideologica o moralistica significa poter decidere di volta in volta di sostenere o meno l’intervento. In Kosovo c’era una situazione di emergenza umanitaria che richiedeva l’uso della forza. Il dibattito all’interno dei Verdi fu molto faticoso, il sì sofferto, ma facemmo la cosa giusta. In Iraq, invece, non c’erano le condizioni per intervenire perché quell’operazione era costruita su un sistema di menzogne.Nessun ricorso alla forza può essere giustificato da motivazioni ingannevoli.
Né con Gheddafi, né con la guerra. Può esistere una terza via non violenta?
La non violenza non è restare imbelli di fronte al violento che calpesta la vittima, ma essere pronti ad intervenire e, in caso estremo, a sacrificare anche la propria vita, e quella dell’aggressore. Ho il massimo rispetto per chi oggi dice né con Gheddafi, né con la guerra, ma mi piacerebbe che ci dicesse cosa fare oggi per impedire nuove morti. E, comunque, anche chi sostiene questa posizione deve sapere che sta contribuendo, allo stesso modo di chi è favorevole all’intervento, a produrre morte.
Esiste la non violenza assoluta?
Penso di sì, ma è dei profeti. Tutti gli altri hanno una grande difficoltà ad esercitare la categoria della non violenza assoluta. Quando si entra nella sfera della politica, tutte le scelte hanno a che fare con l’esercizio della forza. Pertanto anche chi si oppone all’intervento deve sapere che non è innocente ed è ugualmente corresponsabile.
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Commenti (2)
  • Francescina Curti  - riflessione situazione libica
    ottima riflessione dal punto di vista politico sociale e umano.Non è facile unire i tre punti in una unica riflessione.Tu ci sei riuscito!compltmenti!ti conosco come persona equilibrata : ancora una volta ci hai dato una lezione.Condivido in pieno la tua riflessione
  • Hardin19ERNA  - answer this post
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