IL fOGLIO 21 APRILE 2012


COME CANTAVAMO

“Solo una sana e consapevole libidine…”. Il caso di una battuta
dimenticata e finita, vent’anni dopo, nella canzone di Zucchero

Luigi Manconi

Pubblichiamo un brano del libro “La musica è leggera. Racconto su mezzo secolo di canzoni”, di Luigi Manconi (con Valentina Brinis, prefazione di Sandro Veronesi, Il Saggiatore, 505 pagine, 16 euro), da oggi in libreria. A partire dai primi anni Sessanta, sempre facendo altro, Manconi ha partecipato a concerti e incisioni, ascoltato in anteprima successi e insuccessi, stretto amicizie con decine di musicisti. Il suo libro è un memoir che racconta anche di come, in cinquant’anni, i mutamenti  conosciuti dalla  musica leggera abbiano accompagnato le trasformazioni del paese.


Enzo Balboni è ordinario di Diritto pubblico
e costituzionale presso l’Università
Cattolica del Sacro Cuore di Milano.
Tra l’autunno del 1968 e il 1969 ebbi modo
di conoscerlo e di frequentarlo, dal momento
che ero iscritto alla facoltà di Scienze
politiche di quella stessa università e alloggiavo
nell’annesso collegio Augustinianum
(fino a quando ne venni espulso). Enzo
Balboni era parte di un gruppo straordinariamente
simpatico e intelligente di
persone che avevano tra i cinque e i dieci
anni più di noi, matricole o iscritti ai primi
anni, e che col Movimento Studentesco
avevano immediatamente solidarizzato sin
dal momento della sua costituzione e delle
sue prime iniziative. Di più: queste persone
costituivano per noi una sorta di fratelli
maggiori, talvolta sopportati con malagrazia
o addirittura respinti con irritazione,
talaltra ascoltati con una qualche cauta,
cautissima fiducia. Erano persone in genere
molto preparate nei loro campi disciplinari,
espressione di un cattolicesimo
che si rinnovava profondamente, nella scia
del Concilio Vaticano II , e che si interrogavano
sul ruolo della religione nella società
contemporanea, e che, infine, dibattevano
di problematiche teologiche e si interrogavano
sui nuovi dilemmi che le scienze umane
ponevano. Molti di loro avevano, a loro
volta, relazioni assidue con personalità notevoli
del pensiero cattolico di quegli anni
(tra gli altri Emanuele Severino, Gustavo
Bontadini e Franco Cordero). Da loro ci separavano
alcune questioni, spesso di natura
caratteriale e psicologica, dal momento
che noi eravamo ribelli e radicali e loro
erano riformatori, anche se – a loro volta –
radicali. Di loro ricordo in particolare Bruno
Manghi, Rosetta Infelise, Luisa Muraro
e Enzo Balboni, appunto, che coltivava, a
differenza dei suoi colleghi, un atteggiamento
più ironicamente scettico su quanto
tumultuosamente andava accadendo.
Sia chiaro: questo ironico scetticismo non
ne ostacolava, e nemmeno ne attenuava
l’impegno di adesione a quei movimenti di
rinnovamento dell’università, ma Balboni
faceva prevalere costantemente una sorta
di distacco consapevole, nutrito di quella
che ci sembrava una tentazione cinica, e
che era, invece, intelligente ironia. (…)
Trent’anni dopo ebbi modo di incontrarlo
in una grande assemblea dell’Ulivo, presieduta
da Romano Prodi. In quell’occasione,
e a così tanta distanza di tempo dal nostro
ultimo incontro, Balboni sembrava
preso da una sola e incontenibile curiosità.
E così, nel rumore assordante di quell’assemblea,
mi disse ghignando: “Fantastico!
Sei riuscito a far cantare a Zucchero il tuo
memorabile verso”. Alla mia meraviglia replicò
con pazienza, quasi si fosse aspettato
quel mio stupore evidentemente finto: “Sì,
sì… è davvero fantastico che tu sia riuscito
a infilare quei versi nella canzone di
Zucchero”. E così, quell’autorevole docente
di Istituzioni di diritto pubblico e Diritto
costituzionale si mise a canticchiare:
“Solo una sana e consapevole libidine salva
il giovane dallo stress e dall’Azione cattolica”.
In poche battute, dando per scontato
che io ricordassi tutto a menadito – e
io, invece, assolutamente nulla ricordavo –
rievocò un lontanissimo episodio.
Affidavit di Enzo Balboni: “In quel tempo.
Siamo nel novembre 1968, all’Università
Cattolica di Milano, anzi dentro il collegio
Augustinianum: quello che era stato
nell’anno accademico appena trascorso il
‘cuore pulsante della contestazione’. Ormai
tutto, o quasi, è consumato. L’annus mirabilis
et horribilis, cominciato nell’ottobre
1967 con le prime assemblee studentesche
contro la delibera di aumento delle tasse
universitarie, si è chiuso dopo tre occupazioni,
duri interventi e sgomberi da parte
della polizia, espulsione degli studenti che
‘capeggiavano’ la rivolta: Mario Capanna e
Luciano Pero (ospiti del collegio) e Michedi
langelo Spada, mentre altri come Claudio
Rinaldi si trasferivano in Statale e l’assistente
volontario di filosofia Salvatore Natoli
(allievo di Emanuele Severino) veniva
allontanato dal collegio postgraduated Domus
Nostra per eccesso di simpatia mostrata
verso il movimento. Il rettore Ezio Franceschini
che si oppone con rocciosa tetragonicità
ai flutti tempestosi di una contestazione
che non capisce, ma che nobilmente
rispetta (da buon partigiano e cattolico
militante), deve cedere il rettorato al
successore Giuseppe Lazzati; e dopo appena
un mese, è colpito da un gravissimo ictus
mentre scala una cima dell’Ortles. Come
se, per un’ultima volta, avesse cercato
l’ascesi. L’Università e il collegio Augustinianum
ripiegano verso una normalità che
però non sarà più serena e proattiva come
era prima della contestazione. A Tiziano
Treu, il quale ha lasciato la direzione per
lanciarsi nella carriera accademica e matrimoniale,
è appena succeduto Roberto
Ruffilli, figlio di un operaio, che verrà ucciso
barbaramente dalle Brigate Rosse come
‘nemico di classe’ nell’aprile del 1988. Il
nuovo anno accademico è cominciato da
pochi giorni e, come da tradizione, l’immissione
delle matricole ha attraversato il periodo
di iniziazione goliardica dei ludi matriculares;
ma nella vita del collegio le novità
non mancano: accadono episodi che si
inscrivono nella nuova temperie del Concilio,
chiuso da pochi anni dopo aver dato
frutti copiosi, ma soprattutto in un generale
‘aggiornamento’ di mentalità, anche sul
terreno di una profonda riforma liturgica
di tipo orizzontale. Ed è proprio questo lo
spunto, l’occasione remota, della vicenda
sulla quale sono chiamato a testimoniare.
Da poco è arrivato in Cattolica come assistente
generale (una carica prodromica alla
cattedra episcopale) mons. Enea Selis.
Viene da Sassari con fama di intellettuale
ed è stato mandato per rimettere in carreggiata
l’università, sapendo riannodare il
dialogo con i giovani. Di questi ultimi, mentre
si apre la nostra piccola storia, due sono
da un anno tra gli studenti dell’Augustinianum
(qualcuno maliziosamente sussurra
che sono suoi raccomandati): Luigi Manconi
e Mario Urigo. Il primo è iscritto a
Scienze politiche, l’altro a Giurisprudenza,
ed entrambi sono cresciuti nell’ambiente
del liceo Azuni e dell’Azione cattolica sassarese.
Intanto, le autorità accademiche temono
che il fuoco della contestazione non
sia spento del tutto (e hanno ragione perché
divamperanno altre fiamme tra l’inverno
’68 e la primavera ’69), ma covi piuttosto
sotto la cenere. Così monsignor Selis
viene spedito in Cattolica e in Augustinianum
a presenziare – non certo a presiedere:
sarebbe attentato sacrilego al metodo
democratico e anche lui lo sa – a un’assemblea
degli studenti. L’argomento è la discussione
sui documenti conciliari, letti alla
luce di una delle eterne domande sulla
possibile, necessaria, indispensabile istanza
di democratizzazione della chiesa cattolica.
Alle 20.45 di un giorno dell’ultima settimana
di novembre del 1968, mons. Selis fa
il suo ingresso nella sala riunioni, scortato
da un poco entusiasta don Mario Cuminetti.
Don Enea – come in quel momento vorrebbe
essere chiamato e riconosciuto: ‘Sono
uno di voi’ – cerca con lo sguardo i suoi
due figliocci sassaresi e si rassicura nel vederli;
del resto quasi tutti i collegiali sono
presenti. Mons. Selis, si avvicina al lungo
tavolo degli oratori che sta in fondo alla sala,
alle cui spalle vigila la riproduzione di
una Crocifissione di Rouault quanto mai
tragica e inquietante e, in maniera inaspettata
e baldanzosa, ci si siede sopra con le
gambe a penzoloni. Ed esordisce così: ‘Non
è vero che la chiesa è contro la modernità
e non sa stare al passo coi tempi: pensate
alle Stanze affrescate dal vivace Raffaello
e al Giudizio universale dell’immenso (e
non certo papalino) Michelangelo: dove
stanno? Addirittura in Vaticano, negli appartamenti
del Papa. E quanto alla musica?
Si è sempre suonato e cantato nelle
chiese e non solo il gregoriano. Dunque, figlioli,
se alla messa della domenica – alla
quale mi viene detto che non partecipate
tutti e me ne dolgo assai – volete che sull’altare
una chitarra accompagni i vostri canti,
compresi quelli meno ortodossi, tipo
africani o sudamericani, ebbene sono venuto
qui per dirvi che lo potete fare tranquillamente;
e neppure voglio sapere in anticipo
quali essi saranno: mi fido di voi. Del
resto, se non mi conoscete ancora personalmente
potete chiedere ai vostri compagni
Luigi e Mario, che proprio a Sassari hanno
potuto sperimentare la gioia dei canti elevati
dall’Azione cattolica nei campeggi estivi
e in tante sane occasioni conviviali’. Tutti
gli occhi si volsero verso i figliocci sassaresi,
che tuttavia non parvero lusingati dalla
benevola citazione. Non ho memoria dello
svolgimento dell’assemblea se non per
ricordare che buona parte dei presenti fece
onore alla loro fama non facendola passare
liscia a don Enea, ridiventato mons.
Selis. Ho invece un nitido ricordo di quanto
successe subito dopo, in una stanzetta
del terzo piano in cui si erano raccolti alcuni
studenti scelti: chi scrive era uno degli
assistenti universitari presenti in collegio
con la funzione di vicedirettore (insieme a
Vittorio Conti, oggi commissario della Consob
e Giuseppe Ottaviano, ora insegnante
liceale in pensione ed editore). E così partecipai
al serrato interrogatorio cui fu sottoposto
Manconi, il quale fino ad allora
aveva ostentato altre inclinazioni (estremismo
e operaismo) piuttosto che quella trascorsa
militanza nell’Azione cattolica. E
adesso invece si scoprivano le sue radici
cattolicissime, quasi da seminario diocesano
abbandonato appena in tempo o addirittura
anzitempo. E fu allora che Manconi rivelò
per la prima volta, per chissà quale
bizzarra associazione mentale o pretestuosa
giustificazione, la sua vera natura di
aspirante musicista. Per meglio dire, di
aspirante paroliere: ma non un paroliere
qualsiasi, bensì un coispiratore della pòiesis
racchiusa nel prodotto finale. Dunque,
strapazzato con la necessaria rudezza, Manconi
ci convinse un po’ quando se ne uscì
solfeggiando questo distico dozzinale: ‘Solo
una sana e consapevole libidine / salva il
giovane / dallo stress / e dall’Azione cattolica!’.
Ci convinse un po’, ma non ci facemmo
troppo caso, anche perché la tradizione
musicale alta e severa dell’Augustinianum
ce l’eravamo formata assai più e meglio
sul Clavicembalo ben temperato di Bach,
ovviamente nell’interpretazione della
Landowska e, solo nei momenti di rilassatezza
romantica, sulle barcarole e le fantasie
polacche di Chopin. Cosicché il banale
componimento di Luigi, accordabile soltanto
su un tempo di marcetta, pareva proprio
piccino piccino. La qual cosa non mi impedì
di conservare traccia di quei versi che
Manconi volle scrivere sul mio bloc notes (e
di custodirla fino a oggi). E qui ne rendo testimonianza”.
Questo resoconto del professor Enzo Balboni
è stato scritto nella primavera del
2011, ma l’occasione nella quale per la prima
volta ricordò a me, totalmente immemore,
quell’episodio del 1968, risale al 1997 (o
giù di lì). La cosa ebbe l’effetto di mettermi
in uno stato di irresistibile buonumore. Feci
allora una piccola ricerca e scoprii che
il testo di quella canzone, cantata da Zucchero,
è attribuito allo stesso Zucchero. Ricostruendo,
attraverso conoscenze e contatti
nel mondo musicale, qualche tratto biografico
dei possibili autori o coautori o ispiratori
di quel testo (amici e collaboratori di
Zucchero), infallibilmente emerse quale distanza
separasse quei due mondi. Da una
parte, l’autore o gli autori di un testo della
seconda metà degli anni Ottanta e, dall’altra,
i giovani che vent’anni prima si dilettavano
a comporre strofe innocentemente
sarcastiche nei confronti di movimenti religiosi,
ai quali pure appartenevano.
Cos’era successo, dunque? Era successo
che una frase da me scritta e giocosamente
ripetuta in qualche situazione collettiva
(una frase che io avevo, con tutta probabilità,
ripreso da qualcun altro e da qualche
altra tradizione orale) si fosse riprodotta e
ripetuta nei luoghi e negli anni. Fino a
giungere, chissà come, all’orecchio di qualche
autore di canzoni o di qualcuno che un
tale autore aveva avuto modo di frequentare.
Per la Siae, testo e musica di quella canzone
sono opera esclusiva di Zucchero Fornaciari
che, in un libro recente, ne racconta
così l’origine: “‘Ragazzi, ci vuole una sana
e consapevole libidine’ è una frase che
diceva il mio prof. di geometria, all’Istituto
tecnico per chimici di Carrara. Un fancazzista.
Come me. Io non facevo un cazzo. Ma
neanche lui. Entrava in classe. Allungava le
gambe sulla cattedra e leggeva l’Unità. ‘Basta
che non facciate casino e non mi rompiate
le palle’. Era il ’68. Forse il ’69. Quegli
anni lì”. Dunque, “quegli anni lì” coincidono
con il periodo (novembre ’68) nel quale
il professor Balboni colloca la trascrizione
di mio pugno di quei versi sul suo bloc
notes. Ciò sembra confermare quanto fin
qui ipotizzato: all’interno di aree generazionali
e sociali in rapida e tumultuosa trasformazione,
circolavano e si alimentavano
a vicenda umori e idee, sentimenti e aspirazioni
culturali. Tutto questo mentre le distanze
si accorciavano vertiginosamente e
ciò che accadeva (ciò che si sperimentava
e si desiderava) a Sassari era sempre meno
dissimile da quanto accadeva (e si sperimentava
e si desiderava) a Carrara e a Milano.
In luoghi diversi si pensavano e si dicevano
cose uguali, o quasi uguali, che si
cercavano, si scambiavano, si incrociavano.
Chissà qual era stata l’adolescenza del professore
di geometria di Zucchero, quali ambienti
avesse frequentato e quale mentalità
avesse assorbito, ma è certo che “in quegli
anni lì” anche lui sentiva che “qualcosa stava
accadendo”. E anche a lui era capitato di
conoscere, per tradizione orale di origine
parrocchiale o goliardica, quei versi: solo
una sana e consapevole libidine. Né lo studente
Zucchero Fornaciari, né l’assistente
universitario Enzo Balboni, che ascoltarono
quelle parole pressappoco negli stessi
mesi, le dimenticheranno. Balboni le attribuirà
a me perché da me gli capitò di sentirle
per la prima volta; Zucchero al suo
professore di geometria. Io le avevo apprese,
per vie sotterranee e misteriose, da quel
professore di Carrara o quel professore di
Carrara, per vie altrettanto sotterranee e
misteriose, le aveva apprese da me. Io o lui
(forse io e lui) le avevamo composte o trascritte,
inventate o copiate, ascoltate e ripetute
nell’aria che allora tirava. Solo che io,
senza la tenace memoria di Enzo Balboni,
le avrei dimenticate, per poi postdatarle al
1987, quando Zucchero le avrebbe incise. E
con ciò mi sarei privato della soddisfazione
di poter immaginare che la mia aspirazione
adolescenziale (“volevo essere un
cantautore”) avesse avuto, infine, la sua tortuosa
realizzazione. Un esito giunto al termine
di un tracciato che attraversa i decenni
dal 1961 al 1968 e, infine, all’incontro col
professor Enzo Balboni e la sua rivelazione
nel 1997. Fu solo allora che scoprii come
la mia fervente velleità avesse trovato
una sua pratica traduzione. E che traduzione.
Non il testo di una canzone cantautorale,
non la lirica per un cantante crepuscolare,
non un componimento sottilmente politico
per una band ribelle, ma un verso – e
quale verso – di una canzone di quello Zucchero
Fornaciari che mai avevo troppo apprezzato
o incontrato in vita mia. (…)
D’altra parte quel “solo una sana e consapevole
libidine…” rivela una sua singolarità:
espressione coerentissima di un’ironia
parrocchiale, ne rappresenta tuttavia la fascia
superiore, quella culturalmente più
avveduta e sofisticata (…). Bisogna ricordare
che all’interno di movimenti religiosi
giovanili, nelle comunità parrocchiali e,
più in generale, nell’associazionismo cattolico,
l’ironia aveva un ruolo non secondario.
Proprio perché i movimenti religiosi,
specie quelli giovanili, tendevano a informare
l’intera dimensione di vita degli associati
e, pertanto, i vari momenti dell’esperienza
quotidiana, il tempo libero aveva
un’importanza tutt’altro che irrilevante.
Di più: quei movimenti – e in particolare
l’Azione cattolica e gli scout – nascevano,
alle origini, con un’impronta culturale e
pedagogica tutt’altro che conservatrice; al
contrario, i leader di quelle associazioni
conoscevano la letteratura pedagogica, talvolta
avevano fatto esperienza di altri movimenti
e associazioni, rappresentavano in
ogni caso la parte più fresca e innovativa
del laicato cattolico postconciliare. Ciò risultava
evidente già nel corso degli anni
Sessanta, in quel decennio al cui interno
covavano e maturavano tutte le ribellioni
e le domande di trasformazione che, appena
pochi anni dopo, avrebbero dato vita ai
movimenti di contestazione. Ma quest’ultimo
fattore rischia addirittura di risultare
fuorviante: ciò che più conta è quella dimensione
comprensiva dell’intera esperienza
di vita che l’associazionismo riproduceva
integrandosi pienamente (o volendosi
integrare pienamente) nelle altre dimensioni:
quella familiare e quella culturale
e sociale. Limitiamo il discorso all’Azione
cattolica, perché più nota a chi scrive
e, soprattutto, più rappresentativa di ciò
che all’epoca andava accadendo: all’interno
della vita associata nei circoli dell’Azione
cattolica, nei momenti successivi alla
pratica religiosa, nell’organizzazione del
tempo libero, nelle vacanze estive, il momento
del gioco e dell’ironia era tutt’altro
che secondario, e notevole il tempo dedicato
ad attività dilettantesche di tipo teatrale,
musicale o comunque di ricreazione organizzata.
E qui la comicità giocava un suo
ruolo (io, per esempio, nelle nostre modestissime
gag interpretavo la parte del grandissimo
Carlo Campanini). Era una comicità
a uso anche interno, i cui bersagli erano
di frequente gli stessi associati, le figure
dei sacerdoti, il vescovo della diocesi.
Era una comicità bonaria che si manifestava
in parodie, imitazioni, canzoni e caricature,
rappresentando un modo intelligente
di creare aggregazione. Lì, presumibilmente,
nacque “solo una sana e consapevole libidine”,
o magari lì l’apprendemmo da
qualche giovane di Azione cattolica in visita
a Sassari (proveniente magari da Carrara);
o ancora, ci capitò di impararla nel
corso di qualche assemblea nazionale, a
Roma o a Palermo. Quel che è certo è che
da lì me la portai – sulla nave della Tirrenia
– nell’avventurosissimo percorso Sassari-
Porto Torres-Genova-Milano.
Spengo il mangiadischi. La musica è finita.
Ma continuano le danze.
Il cantautore la spiega così: “E’
una frase che diceva il mio
professore di geometria a Carrara.
Un fancazzista, come me”
A un’assemblea dell’Ulivo
Enzo Balboni mi disse:
“Fantastico, sei riuscito a fargli
cantare il tuo memorabile verso”
“Manconi, che aveva ostentato
altre inclinazioni (estremismo e
operaismo), ci convinse un po’
solfeggiando quel distico dozzinale”
“I vostri compagni Luigi e
Mario hanno potuto sperimentare
la gioia dei canti elevati all’Azione
cattolica nei campeggi estivi”

Share/Save/Bookmark
Commenti (0)
Commenta
I tuoi dettagli:
Commento:
Security
Inserisci il codice anti-spam che vedi nell'immagine.