Tabù
La funzione civilizzatrice del politically correct spiegata ai foglianti da un ipovedente
Luigi Manconi
Parto dalla fine e da un esempio che può apparire troppo brutale (e che rischia di offendere qualcuno). Mi spiego. È possibile che l’asperrima lotta contro il “politicamente corretto”, condotta dal Foglio, sia riassumibile in una frase di Camillo Langone, ricordata da Massimo Bordin nella sua formidabile Stampa e regime (Radio radicale, tutti i giorni, ore 7.35). Langone, nel riportare il colloquio con un cameriere che proponeva un vino del Cile avrebbe scritto : “Di cileno, apprezziamo solo Augusto Pinochet”. La battuta è quella che è : non richiama nemmeno Ric e Gian, che discendono da una scuola dell’avanspettacolo di tutto rispetto, ma Umberto Smaila, per il quale rintracciare un qualunque canone comico è impresa ardua. E, tuttavia, quella frase è rivelatrice : il pericolo, infatti, è che l’intera mobilitazione ideologica e culturale scatenata contro il politically correct, si riduca a un gioco di parole piccolo così o, nel migliore dei casi, a una facezia estetica. Come quando, con malcelato compiacimento, si scrive “ negri” o “finocchi”. Un mediocre cachinno che, evidentemente, diverte qualcuno. Ma se a questo si limitasse il senso delle Guerre Culturali che il Foglio dice di condurre da “diciassette anni almeno”, stiamo freschi. Riconosco volentieri che non è così e che, dietro, c’è altro. C’è un’ interpretazione del politicamente corretto – opinabile ma seria - quale categoria descrittiva delle opinioni pubbliche delle società democratiche. In proposito, sul Foglio del 5 Settembre Giuliano Ferrara cita un’ efficace formulazione di Carlo Galli: . Contro queste culture politiche,  secondo Galli, si manifesta . Il Foglio si ritiene espressione (e avanguardia in Italia) di quel “bisogno”. Ferrara, poi, ha la squisitezza di dedicarmi “specialmente” quella interpretazione di Galli, ritenendo che io -invece- consideri <>. Niente affatto . Condivido ciò che scrive Galli e penso che quanto viene definito “politicamente corretto” sia, in realtà, una delle culture (non necessariamente “dominanti”) che informa i processi di civilizzazione del senso comune nelle società democratiche. In effetti, il politicamente corretto, nel linguaggio corrente ha assunto un duplice significato: definisce, sì, quella “cultura del piagnisteo” denunciata da Robert Hughes ma più propriamente dovrebbe esser riferito a quell’insieme di valori e di parole conseguenti, di categorie e di atti che qualificano un’idea di società e di relazioni tra i gruppi e gli individui, rispettosa della dignità di tutti e volta al superamento, per quanto possibile, di diseguaglianze e ingiustizie. L’errore, davvero micidiale, che compiono i neo reazionari è quello di confondere le due accezioni della formula e di indirizzare gran parte dei loro strali contro le parole “del piagnisteo”, che – in effetti – spesso possono essere  vuote o ridicole. E così, da mezzo secolo, ci tocca leggere ironie (immaginatevi quanto sulfuree) contro la scelta di definire operatori ecologici gli spazzini. Ma proprio questo, che sembra l’esempio più criticabile di una sorta di ipocrita pudicizia linguistica, può anche essere il più istruttivo: non vi piace “operatore ecologico”? trovate un altro termine. Ma non si può ignorare che: a) spazzino ha assunto nel linguaggio quotidiano un senso comunque spregiativo; b) il diritto a “chiamarsi” (darsi il nome che si preferisce, scegliere il proprio appellativo) è una premessa essenziale della tutela dell’identità-dignità. E fin qui siamo, ancora, nell’ambito linguistico. Esso è importante proprio perché a quelle parole corrispondono fatti concreti e condizioni materiali. E c’è il serio sospetto che una definizione negativa, o comunque non rispettosa, possa alimentare un atteggiamento negativo, o comunque non rispettoso. C’è poi, la questione del tabù. Esiste un tabù a proposito degli ebrei? Se quel tabù costituisce un’ interdizione morale verso procedure di stereotipizzazione e stigmatizzazione degli ebrei, è cosa buona. Se quel tabù significasse censura nei confronti della possibilità di criticare questo o quell’ebreo, o che so? la politica dello stato di Israele, quell’interdizione sarebbe ingiusta. Mi rendo conto, tuttavia, che siamo ancora alle premesse e che la sostanza vera –  come valutare quel “politicamente corretto” che corrisponde a un livello di civilizzazione democratica delle opinioni pubbliche – va ancora trattata. Lo  farò, ma intanto espongo spudoratamente il mio caso personale : sono, sotto il profilo clinico, un ipo-vedente ai minimi termini. In altre parole, un quasi - cieco. Le risorse e i privilegi di cui godo rendono assai meno intollerabile il mio stato ed è per me pressoché insignificante il termine utilizzato per definire la mia condizione. Sarebbe lo stesso se non godessi di quelle risorse e di quei privilegi?
il Foglio 11 settembre 2012
Tabù
La funzione civilizzatrice del politically correct spiegata ai foglianti da un ipovedente
Luigi Manconi
Parto dalla fine e da un esempio che può apparire troppo brutale (e che rischia di offendere qualcuno). Mi spiego. È possibile che l’asperrima lotta contro il “politicamente corretto”, condotta dal Foglio, sia riassumibile in una frase di Camillo Langone, ricordata da Massimo Bordin nella sua formidabile Stampa e regime (Radio radicale, tutti i giorni, ore 7.35). Langone, nel riportare il colloquio con un cameriere che proponeva un vino del Cile avrebbe scritto : “Di cileno, apprezziamo solo Augusto Pinochet”. La battuta è quella che è : non richiama nemmeno Ric e Gian, che discendono da una scuola dell’avanspettacolo di tutto rispetto, ma Umberto Smaila, per il quale rintracciare un qualunque canone comico è impresa ardua. E, tuttavia, quella frase è rivelatrice : il pericolo, infatti, è che l’intera mobilitazione ideologica e culturale scatenata contro il politically correct, si riduca a un gioco di parole piccolo così o, nel migliore dei casi, a una facezia estetica. Come quando, con malcelato compiacimento, si scrive “ negri” o “finocchi”. Un mediocre cachinno che, evidentemente, diverte qualcuno. Ma se a questo si limitasse il senso delle Guerre Culturali che il Foglio dice di condurre da “diciassette anni almeno”, stiamo freschi. Riconosco volentieri che non è così e che, dietro, c’è altro. C’è un’ interpretazione del politicamente corretto – opinabile ma seria - quale categoria descrittiva delle opinioni pubbliche delle società democratiche. In proposito, sul Foglio del 5 Settembre Giuliano Ferrara cita un’ efficace formulazione di Carlo Galli:  ”La riflessione sulla politica - per quanto differenziata in scuole rivali - ha insomma davvero elaborato il politicamente corretto, e anche il tabù, l’impensato e l’impensabile: è la logica stessa delle culture politiche dominanti,liberali o democratiche, a determinarli ”. Contro queste culture politiche,  secondo Galli, si manifesta  “il bisogno – critico, liberatorio, espressivo – di sottrarre la riflessione filosofico-politica all’ipoteca liberale e liberal “. Il Foglio si ritiene espressione (e avanguardia in Italia) di quel “bisogno”. Ferrara, poi, ha la squisitezza di dedicarmi “specialmente” quella interpretazione di Galli, ritenendo che io -invece- consideri il politicamente corretto come un innocente e compassionevole vezzo linguistico. Niente affatto . Condivido ciò che scrive Galli e penso che quanto viene definito “politicamente corretto” sia, in realtà, una delle culture (non necessariamente “dominanti”) che informa i processi di civilizzazione del senso comune nelle società democratiche. In effetti, il politicamente corretto, nel linguaggio corrente ha assunto un duplice significato: definisce, sì, quella “cultura del piagnisteo” denunciata da Robert Hughes ma più propriamente dovrebbe esser riferito a quell’insieme di valori e di parole conseguenti, di categorie e di atti che qualificano un’idea di società e di relazioni tra i gruppi e gli individui, rispettosa della dignità di tutti e volta al superamento, per quanto possibile, di diseguaglianze e ingiustizie. L’errore, davvero micidiale, che compiono i neo reazionari è quello di confondere le due accezioni della formula e di indirizzare gran parte dei loro strali contro le parole “del piagnisteo”, che – in effetti – spesso possono essere  vuote o ridicole. E così, da mezzo secolo, ci tocca leggere ironie (immaginatevi quanto sulfuree) contro la scelta di definire operatori ecologici gli spazzini. Ma proprio questo, che sembra l’esempio più criticabile di una sorta di ipocrita pudicizia linguistica, può anche essere il più istruttivo: non vi piace “operatore ecologico”? trovate un altro termine. Ma non si può ignorare che: a) spazzino ha assunto nel linguaggio quotidiano un senso comunque spregiativo; b) il diritto a “chiamarsi” (darsi il nome che si preferisce, scegliere il proprio appellativo) è una premessa essenziale della tutela dell’identità-dignità. E fin qui siamo, ancora, nell’ambito linguistico. Esso è importante proprio perché a quelle parole corrispondono fatti concreti e condizioni materiali. E c’è il serio sospetto che una definizione negativa, o comunque non rispettosa, possa alimentare un atteggiamento negativo, o comunque non rispettoso. C’è poi, la questione del tabù. Esiste un tabù a proposito degli ebrei? Se quel tabù costituisce un’ interdizione morale verso procedure di stereotipizzazione e stigmatizzazione degli ebrei, è cosa buona. Se quel tabù significasse censura nei confronti della possibilità di criticare questo o quell’ebreo, o che so? la politica dello stato di Israele, quell’interdizione sarebbe ingiusta. Mi rendo conto, tuttavia, che siamo ancora alle premesse e che la sostanza vera –  come valutare quel “politicamente corretto” che corrisponde a un livello di civilizzazione democratica delle opinioni pubbliche – va ancora trattata. Lo  farò, ma intanto espongo spudoratamente il mio caso personale : sono, sotto il profilo clinico, un ipo-vedente ai minimi termini. In altre parole, un quasi - cieco. Le risorse e i privilegi di cui godo rendono assai meno intollerabile il mio stato ed è per me pressoché insignificante il termine utilizzato per definire la mia condizione. Sarebbe lo stesso se non godessi di quelle risorse e di quei privilegi?
il Foglio 11 settembre 2012
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Commenti (1)
  • gianfranco spadaccia
    c'è una sola osa peggiore del politicamente corretto: è il politicamente scorretto.
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