PASSAGGIO A LIVELLO
E SE L'ASTENSIONISMO NON FOSSE POI COSI' MALE?

Ubaldo Pacella
Una politica per quale stagione
Le recenti  elezioni amministrative tenutesi in diverse regioni italiane hanno alimentato qualche riflessione, di tratto prevalentemente emotivo o umorale a mio giudizio, mentre l’analisi politologica è finita sullo sfondo, tradita dalla cronaca o dalla necessità di dare un senso immediato all’avvenimento.
I risultati romani con l’elezione a sindaco della Capitale di Ignazio Marino presentano, di converso, sfumature originali, proprie di una situazione locale dove possiamo rintracciare, con il conforto delle statistiche, una chiara linea di tendenza: i romani hanno decisamente voltato le spalle a Gianni Alemanno. Nemmeno i conservatori e la destra hanno voluto rischiare una nuova avventura con un sindaco che Roma e i suoi abitanti hanno estrema fretta di lasciare nel dimenticatoio. Insieme ad una Giunta distintasi più che per azioni e progetti qualificanti, per malversazioni, incapacità e sciattezza. Anni di predominio incontrastato della violenza, dall’arroganza delle terze file, all’abbandono del trasporto pubblico, alla trascuratezza di ogni diritto del cittadino. Basti pensare all’indecorosa occupazione di Villa Borghese in occasione del Concorso ippico di Piazza di Siena, regalando spazi verdi al business privato e aggravando i costi per i contribuenti. Archiviamo l’elenco smisurato delle manchevolezze che i romani hanno censurato, con una noiosa alzata di spalle.
L’elemento di novità politica a Roma e in Italia è stata la modestissima partecipazione, di poco superiore nel complesso al 50% degli aventi diritto. Nella capitale, al ballottaggio, la percentuale dei votanti è rimasta ben distante dalla metà dei cittadini.

Ritengo che questo sia, tutto sommato, un fatto positivo, sul quale operare una riflessione sociale, inserendolo in un contesto drammatico tra crisi economica che ha schiantato persone e politica, disaffezione, ripiegamento individuale, inutilità della partecipazione e usura anticipata del “grillismo” caotico quanto improduttivo dei Cinque stelle.
Pochi commentatori, tra i quali spiccano il prof. D’Alimonte e Antonio Polito, editorialista  d el Corriere della Sera, si sono sottratti alla stanca analisi di una caduta improvvisa della partecipazione al voto come dell’ennesimo fallimento della classe dirigente, tanto screditata quanto lontana dai bisogni veri delle persone, capace di provocare questa macroscopica disaffezione. Elementi per la verità presenti da molto tempo, che hanno segnato una progressiva riduzione della partecipazione al voto, ma mai così accentuata, in modo da destare l’allarme non solo dei politici professionisti, ma di tutte le istituzioni che traggono la propria legittimazione proprio dalla partecipazione democratica. Ritengo, di converso, che una modesta partecipazione sia  da attribuire a fattori sociali e culturali tipici di questa stagione. Il primo riconducibile ad una caduta del voto di scambio. Non quello penalmente rilevante ben inteso, ma quello strisciante delle consorterie, degli apparati, dei portatori di voti e di istanze, delle corporazioni che ha costituito il nocciolo duro, direi addirittura l’architrave del consenso popolare nell’Italia repubblicana dal 1948 ad oggi. La crisi economica più devastante dell’era moderna connessa con la sostanziale irrilevanza della politica a gestirne gli effetti a livello internazionale, la caduta di ogni residua credibilità delle classi dirigenti italiane, giunta al dileggio delle istituzioni, colpevolmente indifese proprio da chi le rappresentava, ha dimostrato ad una significativa parte di cittadini che nessuno è più in grado di tutelare i loro interessi. E’ caduto il velo dell’ambiguità che per decenni ha alimentato il trasformismo italiano dal celeberrimo “A Fra' che te serve” rivolto a Franco Evangelisti, il collettore per antonomasia dei voti e delle preferenze di Giulio Andreotti, sino a Bettino Craxi e più recentemente a Silvio Berlusconi che meglio di tutti ha forgiato il mito dell’imprenditore capace di risolvere ogni problema, di costruire sogni, non solo televisivi, di vendere promesse, pagate a caro prezzo con decisioni populiste che hanno finito per impoverire proprio le masse più suggestionabili. Nessuno di questi milioni di cittadini potenziali elettori crede più che qualcuno in cambio del voto possa offrirgli qualcosa di concreto, come è stato per decenni in passato. Le regole di bilancio custodite dagli eurocrati di Bruxelles hanno tagliato le unghie alla spesa pubblica di massa, la riduzione dei costi ha falcidiato le assunzioni clientelari di ampio spettro, lasciando solo quelle marginali alla ristretta cerchia dei notabili, il potere di scambio delle burocrazie politiche si è dissolto, come i voti. Il successo registrato alle politiche dello scorso febbraio dal Movimento 5 Stelle cosa era se non il rifiuto viscerale di ogni politica italiana, l’opposizione dichiarata al sistema, la voglia inconfessabile di non far vincere il PD? L’evidente inconsistenza dei cinque stelle e della loro impolitica,  anche agli occhi meno avvezzi all’analisi critica, ha portato quell’area al non voto. Basta fare qualche calcolo aritmetico e ci si accorge che  la caduta verticale dei loro voti è quasi pari alla percentuale di chi non è andato alle urne alle amministrative. Questo spiega due cose: l’accentuata volatilità di un elettorato che in Italia è stato per 60 anni tra i più stabili al mondo, il fatto che non esiste un progetto sociale, né di Paese in grado di alimentare interesse e partecipazione. Non siamo né riconosciuti, né utili perché votare politici che disprezziamo? Questo è un sentimento diffuso che ho rintracciato trasversalmente in ogni ambiente. Vorrei che gli studiosi dei flussi elettorali tracciassero una mappa più precisa e affidabile di chi ha votato per età, classe sociale, territorio e di chi questa volta non lo ha fatto in modo apparentemente clamoroso.
Esiste  la possibilità attualmente di aggregare un vastissimo consenso, purché si elaborino scelte credibili. Politici e gruppi dirigenti italiani primeggiano per l'incapacità di decidere. Questo affonda ulteriormente la democrazia, frammenta i corpi sociali, scompagina la rappresentanza e i partiti. Dobbiamo essere in grado di assumerci le responsabilità di operare scelte selettive, soprattutto quelle più onerose a qualsivoglia prezzo. Rifondare la Repubblica non significa proporre alchimie parlamentari costruite sul minimo comune multiplo, bensì infondere linfa nuova ad una democrazia consumata per eccesso di sterilità, costruita comprensibilmente nel secondo dopoguerra perché nessuno vincesse e governasse in modo autorevole, fiaccata nell’ultimo ventennio da un conflitto sterile e dalla voglia dei due schieramenti di restare sostanzialmente intatti dopo ogni tornata elettorale. Una filosofia perfida che ha tutelato i gruppi dirigenti, prodotto una legge elettorale incostituzionale e purtroppo perso il Paese. Oggi c’è bisogno di una operazione verità, di riscrivere integralmente il titolo V della Costituzione, di smantellare una burocrazia ipertrofica che serve solo a produrre corruzione, iniquità, mercimonio, disuguaglianze, arroccata nella difesa di prerogative false, quanto perniciose. I politici hanno pagato un prezzo elevatissimo a livello di immagine, talvolta eccessivo nelle forme e nei contenuti, si sono piegati senza difendere la dignità del ruolo alla canea populista del “dagli all’untore”, ma non hanno mai avuto il coraggio di scompaginare tutte le burocrazie centrali e locali delle quali sono prigionieri. Serve il coraggio di semplificare, vanno azzerati uffici e competenze, nonché il personale compresi destinato a operazioni minuziose di controllo successivo sul territorio. La prima linea, invece, a cominciare dai  capi di gabinetto, deve essere abolita completamente. Leggi e decreti dovrebbero essere scritti con la semplicità di un linguaggio piano, scevro di ogni rimando normativo perché ogni cittadino possa comprendere leggi e norme, senza il ricorso alla casta dei legulei. C’è riuscita la Chiesa cattolica, potrà avere successo una comunità nazionale.
La vittoria di Ignazio Marino e del PD a Roma dovrebbe indurre molta prudenza e ponderate riflessioni. Non per il numero risicatissimo  di consensi ottenuti rispetto al passato, ma perché denota una sostanziale mancanza di progetto politico e civile. Oltre la retorica degli annunci c’è solo polvere, lo dimostrano gli impacci nei quali si muovono sindaco e partito, entrambi smarriti, volti al passato, ripiegati nelle rispettive stanze, incapaci di quella visionarietà e dell’afflato etico che una città unica al mondo meriterebbe.
Governare Roma non è solo consentire una vita ordinata e civile, obiettivo rivoluzionario che nessuno ha voluto mai raggiungere, bensì proporsi al mondo e alla storia come crocevia di cultura e modernità, saldando tradizioni millenarie civili e religiose con una voglia di nuovo protagonismo, in linea con le necessità di una società cosmopolita contemporanea.
 L’ultima provocazione consiste nel valutare il tracollo romano del Movimento 5 Stelle, in altre regioni letteralmente evaporato nel brevissimo volgere di tre mesi, come l’ennesima disfatta di un progetto politico tanto sgangherato quanto inconsistente: quello di rincorrere ansiosamente il “grillismo” perché fosse la stampella ad una sconfitta del PD e del suo alleato Sel, che poi lo ha tradito prima ancora che il gallo cantasse. Molti di quei voti, un tempo di area PD, oggi fuggono proprio le indeterminatezze, la mancanza di strategie, il beccarsi continuo tra capponi destinati a finire puntualmente in pentola come accade ormai da vent’anni per il centrosinistra. Non torneranno senza un disegno nuovo, coraggioso, moderno, sfidante. Non torneranno per merito o demerito dell’apparato di partito, tanto più quello romano. Converrà tenerne conto?
Il sindaco Ignazio Marino ha infinite occasioni per ridare anima alla città in ogni sua articolazione, purché sappia agire in profondità con rigore, senza farsi risucchiare dal solito pantano romano. Agosto potrebbe non essere solo il mese delle vacanze,  bensì quello delle scelte di indirizzo. La chiusura improvvisa del Colosseo nei giorni scorsi con migliaia di turisti assiepati al sole e abbandonati a se stessi lungo il foro e il viale di Caracalla sembra un triste presagio come quello di sollecitare la chiusura di via dei fori imperiali al traffico. Scelta di civiltà sempre in ritardo, eppure mi creda, signor sindaco, quella è una decisione che si impone, non si annuncia. Se lei ne è convinto la adotti contro tutti e tutto a costo di dimettersi e vedrà che dopo qualche tempo i romani, tutti anche i più riottosi, la stimeranno di più, perché avrà dato prova di coraggio sui clivi del Palatino, un segnale atteso dai tempi di Ottaviano Augusto. Buona fortuna e lealtà verso tutti, compresi quelli come me che, pur avendola votata a malincuore, non disperano.
24 giugno 2013

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