Balotelli
Quando Mario Balotelli, dopo aver realizzato il secondo goal contro la Germania, si toglie la maglia azzurra e resta immobile e a torso nudo, beh, a quel punto chi voleva capire ha capito. Si è percepito, in quel preciso momento, con la forza inequivocabile dei simboli e con la potenza del linguaggio del corpo, che un profondo mutamento sociale veniva lì rappresentato. Un mutamento che riguarda il gioco del calcio, l’intero sport italiano, ma anche l’identità del nostro Paese.
Chi ha orecchie per intendere, lo aveva compreso da un paio di decenni almeno, ma ci voleva l’impresa del cittadino italiano Mario Balotelli – uno che, in molti stadi italiani, viene tutt’ora accolto dal lancio di banane e da quel torvo suono: buuu, buuu – per rendere visibile una volta per tutte una realtà che tanti faticano ancora ad accettare. Per questo, l’immagine della possanza fisica di Balotelli resterà nella memoria collettiva, e non solo degli appassionati di calcio. Gianni Brera, il più acuto scrittore di cose di sport dell’Italia repubblicana, aveva un suo particolare punto di vista dove si ritrovava una certa cultura storica e antropologica e una lettura tutta in chiave fisico-anatomica delle virtù sportive dei nostri atleti. Brera interpretava i cicli di sconfitte e successi del calcio italiano alla luce di indicatori come le carenze alimentari e il matriarcato meridionale, le vicende belliche e il consumismo di massa, la fatica del lavoro agricolo e lo sviluppo delle autostrade, il rapporto città-campagna e le dinamiche economiche; e ne ricavava considerazioni sorprendenti sulla conformazione fisica dei nostri calciatori e, infine, sui loro tratti psicologici. Da qui un giudizio pessimista sul futuro del calcio italiano, condannato – per vocazione e per biologia – a una tattica “femmina” (che subisce ed è incapace di dettar legge e di imporre il proprio gioco). Da qui, ancora, la polemica sugli “abatini” e sul più grande, amato-odiato di essi: Gianni Rivera. Cosa avrebbe mai detto Gianni Brera, uomo della pianura padana, colto e ironico, di fronte all’esplosiva energia fisica di Balotelli e al suo genio? Avrebbe saputo, immagino, raccontare magnificamente l’Italia che si trasforma e che cerca un futuro. E, infatti, Balotelli non è una strepitosa anomalia, una sublime eccezione, frutto del caso, della generosità dei genitori adottivi e di quelle misteriose combinazioni che la fantasia della natura umana riesce a creare. Balotelli è, alla lettera, il segno di un cambiamento di pelle. Di una pelle che diventa più scura, mentre muta in profondità la composizione demografica, sociale e culturale della popolazione. La nazionale italiana che parteciperà alle Olimpiadi di Londra ha una percentuale elevata (quasi il 18%) di atleti appartenenti ad altri ceppi etnici. Non sono (più) stranieri: sono cittadini italiani diventati tali grazie ai sommovimenti geopolitici e ai flussi migratori che sconvolgono gli assetti del mondo. Li “vediamo” più nitidamente negli ambienti dello sport, questi processi, perché qui l’integrazione è più agevole, affidata a criteri in qualche modo oggettivi e fondata su una convivenza strettamente correlata alla stessa disciplina agonistica. Altrove, nella vita sociale quotidiana, questa integrazione risulta assai più faticosa, lenta e contraddittoria; spesso stenta a realizzarsi e si affermano, all’opposto, meccanismi di discriminazione e di esclusione, in un quadro dove si moltiplicano episodi di intolleranza, quando non di vero e proprio razzismo. Non solo: le procedure di discriminazione sono spesso il risultato di leggi e di atti istituzionali, di normative nazionali e di delibere degli enti locali. È questo, in due parole, l’attuale  quadro della convivenza inter-etnica in Italia. Ed è per questa ragione che i due goal di Balotelli sono destinati ad assumere una forte valenza simbolica. Così come la sua irresistibile “normalità italiana”: quel richiamo alla mamma e alla famiglia, quell’oscillare tra arroganza e ritrosia, quella spudoratezza così vicina all’innocenza. Ma anche il suo italiano, così misurato e puntuale (tanto da far apparire ridicole l’enfasi e la petulanza di alcuni cronisti, seriamente convinti di averli realizzati loro, quei due goal). Sarebbe solo una splendida favola se non fosse che in questo momento in Italia - nei vivai e nelle scuole di calcio, nelle giovanili e tra i dilettanti – sono centinaia e centinaia i possibili Balotelli. È scontato che appena uno o due, lo diventeranno sul serio, ma ciò che più conta è altro. Ed è che nei campetti di periferia e negli istituti scolastici, laddove si formano le future generazioni di cittadini, e dove si costruisce un senso comune e un linguaggio condiviso, là i processi di trasformazione profonda della nostra società si realizzano con maggiore rapidità e tra minori conflitti. È un buon segnale. Poi ce ne sono tanti altri, perché il calcio in quanto grande mito nazionale e in quanto emozionante narrazione pubblica, offre sempre lezioni straordinarie. Vale la pena notare che la selezione spagnola, come tutto il calcio iberico, ha una composizione più autoctona e indigena, quasi che la tardiva conquista della democrazia (1977) abbia rallentato i processi di integrazione e di apertura al mondo, prolungando un’identità nazionale mono-etnica, che solo ora sembra entrare in crisi. Un’ultima notazione, infine. Questi sono gli europei di Andrea Pirlo, di Riccardo Montolivo e di Claudio Marchisio (e di Bonucci e di Barzagli) – come posso autorevolmente affermare nella mia qualità di uno dei 60 milioni di commissari tecnici della nazionale – ma sono soprattutto gli europei di Balotelli e di Antonio Cassano. Del primo si è detto, ma del secondo ancora molto si dovrà dire. Un manuale di psichiatria americana lo definirebbe, probabilmente, un sociopatico. Noi che, oltre a essere infinitamente più indulgenti, amiamo gli irregolari, pensiamo che questa nazionale – senza due geni del calcio, attraversati da molte pulsioni, alcune indubitabilmente oscure – sarebbe stata più noiosa e non sarebbe mai arrivata alla finale.  
l'Unità 30 giugno 2012
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