Chiesa a Giudizio
Luigi Manconi
Conosco abbastanza la Chiesa cattolica per comprendere il significato che suoi esponenti (presuli e intellettuali, in particolare) attribuiscono al termine “moralista”. Dietro c’è la reazione nei confronti  di una interpretazione “sociale” del messaggio cristiano che, a detta di quegli stessi esponenti, prevarrebbe nel cattolicesimo italiano (o che comunque ne connoterebbe l’immagine).
Ovvero il messaggio cristiano ridotto a “sociologia” oppure – orrore!- a etica. Sarebbe tale riduzione a spiegare, tra l’altro, la tendenza a giudicare i comportamenti, specie pubblici, della classe politica secondo criteri appunto moralistici, che porrebbero quegli stessi comportamenti in aperto contrasto con la dottrina della Chiesa. D’accordo: il messaggio cristiano non è né esclusivamente né principalmente una promessa di giustizia sociale e, tanto meno, un codice deontologico, ma è piuttosto l’incontro con Gesù Cristo. È la Rivelazione. Ma, detto questo, non c’è dubbio che o la fede si confronta con il mondo o diventa inevitabile proprio quell’esito tanto temuto: il suo ripiegamento in esperienza interiore. In sostanza, è proprio la capacità della fede di “essere nel mondo, ma non del mondo”, che la sottrae a un destino altrimenti irrimediabilmente privato. Ma se la fede si misura col mondo, le categorie di libertà e giustizia entrano necessariamente in gioco, e vi entra anche quella di moralità. È vero, pertanto, che la fede non vacilla (non deve vacillare), davanti alle malefatte di Paul Marcinkus o dei sacerdoti pedofili e nemmeno alle sordide mene dei Sacri Palazzi, ma questo non può significare astenersi dal giudizio né affidarsi esclusivamente alla “infinita misericordia divina”. Insomma è moralismo oppure è un sacrosanto scandalo (anche se non  prevede più “una macina al collo”) quello che tanti cattolici provano davanti alla abissale divaricazione tra professione di fede conclamata e stile di vita praticato? Certo, una dozzina di anni fa, Monsignor Camillo Ruini arrivò a teorizzare – in termini fin teologici – quel rifiuto del “moralismo”, ma la sua interpretazione esigeva una qualche misura di santa ipocrisia. Oggi quell’equilibrio appare ancora più precario: ma, soprattutto, è l’assunto che regge l’intera architettura dottrinaria che sembra entrato in crisi. Se la fede si muove nel mondo e si misura con la sua iniquità, è nel mondo che si trovano quelle virtù che la stessa Chiesa pone a fondamento dell’identità umana. E tra quelle virtù, la pietà non è certo una delle meno apprezzabili. Tre giorni fa, Benedetto XVI ha affermato: ''E' necessario ripetere con fermezza che non esiste una comprensione della dignità umana legata soltanto ad elementi esterni quali il progresso della scienza, la gradualità nella formazione della vita umana o il facile pietismo dinanzi a situazioni limite''. Quel “facile pietismo” sembra riferirsi, nel contesto italiano, alle vicende di Piergiorgio Welby e di Eluana Englaro. Delle due, l’una: o la pietà e le altre virtù umane vanno subordinate sempre alla dottrina (e dunque “l’uomo è fatto per il sabato” e non viceversa come si è sempre evangelicamente creduto) oppure  il suo eventuale conflitto con i precetti della fede non ne deve mai impedire l’esercizio. Tanto più a tutela di quella dignità, che pure Benedetto XVI cita. Negarlo, questo sì, sarebbe “moralismo”, perché sacrificherebbe la creatura a un assoluto (che non è Dio ma un principio d’ordine). Nelle stesse ore l’arcivescovo di Bologna cardinale Carlo Caffarra così si esprimeva: «È impossibile ritenersi cattolici se in un modo o nell’altro si riconosce il diritto al matrimonio fra persone dello stesso sesso». E perché mai? Dove e perché la professione di fede e la Rivelazione negherebbero la possibilità di riconoscere “in un modo o nell’altro” il diritto all’unione “tra persone dello stesso sesso”? Dove e perché la professione di fede e la Rivelazione prescriverebbero che la sopravvivenza artificiale (dovuta a una macchina come il respiratore meccanico) si prolungasse oltre l’esaurirsi naturale della vita di Welby? Chi voglia “ritenersi cattolico” pur disobbedendo a Santa Madre Chiesa a proposito dell’unione tra persone omosessuali o a proposito delle scelte di Welby, sarebbe appunto un cattolico disobbediente. E nulla più di un cattolico disobbediente. Un cattolico. Troppo semplice? Assolutamente no, se ciò che conta è – infine – solo Gesù Cristo (ovvero l’agostiniano “ama e fa ciò che vuoi”): e il resto è precettistica,  dottrina, magistero. Non superfluo, certo, ma altro rispetto all’essenziale. Paradossalmente, trovo qualcosa del genere in Giuliano Ferrara, quando scrive che le sue “perplessità dure” sul “trattamento finale” riservato a Eluana Englaro sono “legate al conflitto tra carità e diritto” (statuale o canonico, deduco io): “non a una legge punitiva sulle ultime volontà di una persona umana”. Ma se a Ferrara capitasse di sciogliere quel conflitto,  anche solo una volta, a favore della “carità”, incorrerebbe nel ratzingeriano “pietismo”?



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