Politicamente correttissimo
Finali di partite
La malinconia severa del secondo Prodi, la sindrome da catastrofe differita e il Grand Guignol di oggi
Luigi Manconi
Non fate i furbi: io c’ero e so come andarono le cose. Non avevo un ruolo di primissimo piano ma ero comunque un sottosegretario (uno dei non pochi, per la verità) del secondo Governo Prodi. L’agonia di quell’esecutivo fu lacerante. Ricordo gli episodi grotteschi, gli aspetti risibili, gli atti disdicevoli e perfino squallidi propri di ogni processo di crisi, quando precipita in degrado. Anche allora, il fatto che la sorte di una legislatura dipendesse dalla scelta di un parlamentare (addirittura di uno solo) portò a veri e propri deliqui dell’intelligenza. Vi furono canuti trotzkisti senza arte né parte, la cui massima conflittualità antistatuale si era fino ad allora manifestata nell’aggressione a un distributore di merendine, che ebbero il loro momento di gloria dichiarando al Corriere della Sera: Berlusconi e Prodi sono uguali. E, poi, cicisbei di estrema sinistra e moderati vanesi, soidisent leader di micro correnti e di sub componenti, redditieri di posizione per diritto dinastico di cui si era persa memoria e ricattatori della domenica privi di qualsiasi potere di intimidazione, quelli che la sparavano grossa e quelli che ce l’avevano più lungo. Tutti uniti dal narcisismo della propria identità individuale o di partito, fieramente intenzionati ad affermare la propria autonomia, cascasse il mondo. Cascò il governo. Perché parlo di tutto ciò? Ovvio: per una questione di stile. So bene a cosa mi esponga una simile dichiarazione (accuse di snobbismo ed elitismo come minimo), ma quanno ce vo’ ce vo’. Ricordo nitidamente un episodio: era il tardo pomeriggio di un giovedì del gennaio 2008 e mi trovavo con Romano Prodi nel suo studio di Palazzo Chigi. Il premier era irritato per l’improvvidissima uscita di un alleato di governo e mi parlava della crisi come di un fatto ormai imminente. Io, per una qualche ragione, di difficile definizione psicanalitica - forse una sindrome di catastrofe differita - continuavo a ripetere che, contro tutto e contro tutti “ce l’avremmo fatta” (così come ora continuo a pensare che Silvio Berlusconi alla fine la sfangherà). Prodi scosse la testa e mormorò: “no, questa volta no”. Per me, questo è il ricordo più significativo della caduta del secondo governo Prodi. Una malinconia severa. Nessuna sceneggiata e nessun epilogo truce, ma nemmeno un vero e proprio tradimento. Fu una normale vicenda di impotenza politica, di maldestra interferenza della magistratura e di debolezza della carne. Una ordinaria e mesta sconfitta politica. E, invece,  ciò cui si assiste oggi è il Grand Guignol. Una macabra rappresentazione, dove gli slittamenti di senso appaiono inafferrabili anche per gli sguardi più prensili. Consideriamo il caso di due parlamentari come Isabella Bertolini e Giorgio Stracquadanio distintisi per aver adottato una cifra stilistica oscillante tra il trash e l’iper-realismo, tra il gutturale e il compulsivo, tra consunte gag alla Drive-in e crude deformazioni alla Otto Dix. I due, finora esaltatisi nell’enfasi della servitù volontaria e nella civetteria dell’ultima raffica di Salò, dopo aver sbrodolato nel tripudio dell’Eccesso, scoprono oggi perplessità e dubbi degni dello scetticismo più pensoso. Cosicché li guardi e dici: ma che cavolo! Poi osservi la conferenza stampa del Premier a conclusione del G20 e avverti – fisicamente - una sensazione di freddo alle ossa. La sala sembra immensa e la distanza tra Berlusconi e il ministro dell’Economia, siderale. Ma sono la voce e la tonalità del Presidente del Consiglio a colpire. Un discorso uniforme e mono-tono, senza un’accelerazione e una sottolineatura, uno scintillio e una drammatizzazione, un guizzo e un dérapage. Il soliloquio di un depresso. Prevale una stanchezza infinita e livida, assai simile alla prostrazione. Una condizione che sembra esigere un lungo riposo e, soprattutto, un dignitoso congedo. E, invece, lo schiamazzo osceno di Angelino Alfano e, Dio lo perdoni, di Maurizio Lupi. Come ci diceva il maestro Mandras quando si era piccini: un po’ di compostezza, suvvia.
Il Foglio 8 novembre 2011
Politicamente correttissimo
Finali di partite
La malinconia severa del secondo Prodi, la sindrome da catastrofe differita e il Grand Guignol di oggi
Luigi Manconi
Non fate i furbi: io c’ero e so come andarono le cose. Non avevo un ruolo di primissimo piano ma ero comunque un sottosegretario (uno dei non pochi, per la verità) del secondo Governo Prodi.
L’agonia di quell’esecutivo fu lacerante. Ricordo gli episodi grotteschi, gli aspetti risibili, gli atti disdicevoli e perfino squallidi propri di ogni processo di crisi, quando precipita in degrado. Anche allora, il fatto che la sorte di una legislatura dipendesse dalla scelta di un parlamentare (addirittura di uno solo) portò a veri e propri deliqui dell’intelligenza. Vi furono canuti trotzkisti senza arte né parte, la cui massima conflittualità antistatuale si era fino ad allora manifestata nell’aggressione a un distributore di merendine, che ebbero il loro momento di gloria dichiarando al Corriere della Sera: Berlusconi e Prodi sono uguali. E, poi, cicisbei di estrema sinistra e moderati vanesi, soidisent leader di micro correnti e di sub componenti, redditieri di posizione per diritto dinastico di cui si era persa memoria e ricattatori della domenica privi di qualsiasi potere di intimidazione, quelli che la sparavano grossa e quelli che ce l’avevano più lungo. Tutti uniti dal narcisismo della propria identità individuale o di partito, fieramente intenzionati ad affermare la propria autonomia, cascasse il mondo. Cascò il governo. Perché parlo di tutto ciò? Ovvio: per una questione di stile. So bene a cosa mi esponga una simile dichiarazione (accuse di snobbismo ed elitismo come minimo), ma quanno ce vo’ ce vo’. Ricordo nitidamente un episodio: era il tardo pomeriggio di un giovedì del gennaio 2008 e mi trovavo con Romano Prodi nel suo studio di Palazzo Chigi. Il premier era irritato per l’improvvidissima uscita di un alleato di governo e mi parlava della crisi come di un fatto ormai imminente. Io, per una qualche ragione, di difficile definizione psicanalitica - forse una sindrome di catastrofe differita - continuavo a ripetere che, contro tutto e contro tutti “ce l’avremmo fatta” (così come ora continuo a pensare che Silvio Berlusconi alla fine la sfangherà). Prodi scosse la testa e mormorò: “no, questa volta no”. Per me, questo è il ricordo più significativo della caduta del secondo governo Prodi. Una malinconia severa. Nessuna sceneggiata e nessun epilogo truce, ma nemmeno un vero e proprio tradimento. Fu una normale vicenda di impotenza politica, di maldestra interferenza della magistratura e di debolezza della carne. Una ordinaria e mesta sconfitta politica. E, invece,  ciò cui si assiste oggi è il Grand Guignol. Una macabra rappresentazione, dove gli slittamenti di senso appaiono inafferrabili anche per gli sguardi più prensili. Consideriamo il caso di due parlamentari come Isabella Bertolini e Giorgio Stracquadanio distintisi per aver adottato una cifra stilistica oscillante tra il trash e l’iper-realismo, tra il gutturale e il compulsivo, tra consunte gag alla Drive-in e crude deformazioni alla Otto Dix. I due, finora esaltatisi nell’enfasi della servitù volontaria e nella civetteria dell’ultima raffica di Salò, dopo aver sbrodolato nel tripudio dell’Eccesso, scoprono oggi perplessità e dubbi degni dello scetticismo più pensoso. Cosicché li guardi e dici: ma che cavolo! Poi osservi la conferenza stampa del Premier a conclusione del G20 e avverti – fisicamente - una sensazione di freddo alle ossa. La sala sembra immensa e la distanza tra Berlusconi e il ministro dell’Economia, siderale. Ma sono la voce e la tonalità del Presidente del Consiglio a colpire. Un discorso uniforme e mono-tono, senza un’accelerazione e una sottolineatura, uno scintillio e una drammatizzazione, un guizzo e un dérapage. Il soliloquio di un depresso. Prevale una stanchezza infinita e livida, assai simile alla prostrazione. Una condizione che sembra esigere un lungo riposo e, soprattutto, un dignitoso congedo. E, invece, lo schiamazzo osceno di Angelino Alfano e, Dio lo perdoni, di Maurizio Lupi. Come ci diceva il maestro Mandras quando si era piccini: un po’ di compostezza, suvvia.
Il Foglio 8 novembre 2011
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