Peccati di carne
Luigi Manconi
Politicamente correttissimo
L’ironia parrocchiale è roba seria ed è una peculiare articolazione della categoria del comico: e risponde a un preciso canone espressivo. In Italia, quell’ironia, ha conosciuto in tempi recenti due scuole principali: l’una di ispirazione curiale, l’altra più “movimentista” derivata dall’esperienza dell’associazionismo e, in particolare, dell’Azione Cattolica.
La prima, va da sé, ha il suo capostipite in Giulio Andreotti, la seconda deve molto a più autori (spesso anonimi, com’è proprio delle strutture comunitarie) e ha il suo massimo celebrante in Francesco Cossiga. Quest’ultimo ha dato a quel filone un contributo di contemporaneità e di erudizione, di sbracatezza e di iconoclastia. Ed entrambe le correnti, contrariamente a ciò che si crede, coltivano un sottofondo di soave indecenza. Avendo avuto la ventura di frequentare, da adolescente, il coro dei pueri cantores (!) e l’Azione Cattolica, posso dire che il motto evangelico “Sinite parvulos venire ad me”, già nella seconda metà degli anni ’60, veniva giocato all’interno della comunità parrocchiale di San Giuseppe di Sassari in chiave maliziosa. All’epoca, tuttavia, di pedofilia non c’era (o non scorgevo) traccia: e la sola dimensione carnale del rapporto con l’assistente spirituale consisteva in qualche raro e castissimo premere di guancia contro guancia. Evidentemente, altrove le cose andavano in maniera tutt’affatto diversa. Il risultato è che oggi il tema è diventato esplosivo. Ma la Chiesa sembra intenzionata ad affrontarlo con strategie drammaticamente inadeguate e destinate, in prevalenza, alla “riparazione” piuttosto che alla prevenzione. Secondo Hans Kung, all’origine del problema c’è la norma sul celibato dei sacerdoti. A me quell’interpretazione convince, mentre Aldo Maria Valli (Europa del 6 marzo) mostra qualche perplessità. Tuttavia, lo stesso Valli scrive: “in quanto uomo, il prete non è un essere anaffettivo. E il problema si pone fin dall’inizio, fin dai seminari minori frequentati da bambini e ragazzi di dieci, dodici anni”. Insomma, occorre interrogarsi “sulla relazione tra pedofilia e repressione della sessualità e dell’affettività”. Richiamando, poi, Eugen Drewermann, Valli ricorda che nel clero “ci sono personalità deboli in cerca di sicurezza, ci sono conflitti sessuali e parentali irrisolti, vere e proprie nevrosi, nodi psicologici assai intricati, di fronte ai quali la Chiesa agisce senza preparazione e spesso senza consapevolezza”. Dunque, non sembra esservi dubbio che, il problema della formazione, dello sviluppo equilibrato della personalità, della maturazione del carattere e dell’identità sia il nodo fondamentale: e, in tal senso, risultano importanti le strategie educative formative psicologiche. Ma queste si sono mostrate estremamente gracili e in particolare astratte. Ora la gerarchia ecclesiastica deve riconoscerlo seppure con un ritardo rivelatosi tragico, e prova a correre ai ripari. Non spetta a chi scrive, evidentemente, discettare del celibato dei sacerdoti, che pure – com’è noto - non costituisce un dogma, bensì una norma ecclesiale relativamente recente (affermata dal Concilio di Trento e accolta dal diritto canonico appena nel 1917). Com’è ovvio dovrà essere la Chiesa, e solo la Chiesa, a decidere di quella norma, eppure già si può dire che nessun programma di formazione e nessuna assistenza psicologica e spirituale possono proteggere il sacerdote dal mondo. E se anche non venisse messa in discussione la ragione ecclesiale e pastorale del celibato, si deve considerare la fragilità dei suoi fondamenti culturali rispetto alle enormi trasformazioni sociali, e addirittura antropologiche, già avvenute e in corso. Ai sacerdoti si può chiedere, certo, l’eroismo, ma quest’ultimo paradossalmente è più facile da perseguire di quanto sia accettabile la distonia con il mondo. In altri termini, è più agevole osservare la faticosa virtù della castità che sottrarsi all’idea e al sentimento della relazione affettiva, così condivisa e moralmente gratificante. Sappiamo bene che l’affettività non è solo quella coniugale e non si traduce necessariamente in sessualità, ma escludere quelle dimensioni risulta sempre più difficile in un tempo che non è (come pensano gli infelici cultori della repressione) quello del “libertinaggio”, bensì quello della più ricca espressione della personalità, e della sfera affettivo-sessuale come parte di quella. A mio avviso, tutto ciò discende da una grave difficoltà – quasi una sorta di primitivo e puerile imbarazzo – della Chiesa nell’affrontare la complessiva questione della sessualità. È come se la coscienza del peccato originale limitasse la piena assunzione della sessualità quale “capacità di intrecciare rapporti di comunione con altri” (Catechismo della Chiesa cattolica 2003). In ultima istanza, nasce da qui, lo dico sbrigativamente, anche il vero e proprio tabù a proposito dell’omosessualità: esso produce quel drammatico paradosso che vede la Chiesa cattolica come una delle organizzazioni contemporanee più inclini all’omofobia e, insieme, più afflitta dalla tentazione della pedofilia.      

Il Foglio 9 marzo 2010
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