La ricchezza e i rischi del partito plurale
Luigi Manconi
Proviamo a sollevare, intanto, uno tra i veli più vaporosi e suggestivi, che aleggiano, in queste ore, intorno al successo ottenuto dalle primarie del centrosinistra. Ovvero: i vincitori sono due. A proposito del gioco del calcio Gianni Brera sosteneva che “il risultato perfetto” sarebbe lo zero a zero. L’unico capace di “celebrare due trionfatori assoluti”. Ma, qui, l’esito è assai diverso da un pareggio: tra Pierluigi Bersani e Matteo Renzi corrono nove punti di differenza. Ne consegue che, in realtà, le primarie hanno indicato un ottimo vincitore e un ottimo sconfitto. Si vedrà, domenica prossima, se tale risultato verrà confermato, ma nel frattempo, questo è il primo dato da assumere. Il secondo è quello che permette di articolare quella valutazione unanimemente positiva sull’ampia affluenza alle urne: la partecipazione, pur differenziata geograficamente e come sempre diseguale tra centro e periferia e tra città e campagna, è risultata assai significativa sull’intero territorio nazionale. Ora, se si tiene presente che l’operazione di voto è stata più complessa e faticosa di quella prevista dalle elezioni politiche, gli oltre tre milioni di cittadini che hanno voluto esprimere la propria scelta, rappresentano davvero un segnale eloquente. Per questo, la reazione di Beppe Grillo appare davvero grottesca (“primarie dei folli”,  “nullarie”, “comparse”, “bromuro sociale”…). È sempre pericoloso disprezzare le libere scelte delle persone: tanto più quando esse rivelano, oltretutto, una forte valenza simbolica. Anche chi voglia considerare conformista e gregario l’atto di introdurre una scheda nell’urna, deve riconoscere che esso è infinitamente più impegnativo e pensato, responsabile e motivato, rispetto a quel solitario click sulla tastiera, col quale si celebrerebbe la politica online. Insomma, sarà pure un gesto consuetudinario o l’esercizio di un “diritto debole”, ma il voto resta, per la grande maggioranza dei cittadini, la più efficace e consapevole espressione di volontà politica. (A parte la rivoluzione violenta che, notoriamente, presenta altre e numerose controindicazioni). Dunque, il dato dell’affluenza merita di essere indagato con ancora maggiore precisione perché potrebbe evidenziare altre interessanti tendenze, oltre quelle alle quali alludono gli altissimi consensi ottenuti da Bersani in tutto il Meridione e da Renzi in alcune tradizionali “roccaforti rosse”. Vale la pena, poi, notare come il successo di Bersani si debba, tra l’altro, al “buon uso di Renzi” che il segretario del Pd ha saputo fare. In altre parole, Bersani ha “giocato Renzi” all’interno della propria strategia: dopo un’iniziale incertezza, è riuscito a sottrarsi al ruolo di bersaglio dell’offensiva “giovanilistica” lanciata dal suo avversario. Quest’ultimo, a sua volta, ha dovuto ridimensionare l’enfasi sulla categoria di “rottamazione”, consunta per esser stata agitata troppo precocemente e troppo corrivamente banalizzata, e Bersani ha saputo comportarsi come se l’imputazione lo riguardasse poco o nulla. Di più: ha saputo assumere all’interno del proprio discorso pubblico alcuni dei messaggi di quel rinnovamento che l’antagonista sembrava aver ridotto a questioni di stile, di linguaggio, di gestualità. In altre parole, il segretario del Pd ha adottato la “mossa del judo” (e di tutte le arti marziali asiatiche), facendo sua la spinta dell’avversario, senza resisterle, ma abbandonandosi a essa e utilizzandone l’energia. D’altra parte, Renzi, sconfitto nei numeri, può dire di aver “contaminato” il partito, introducendovi metodi e messaggi che – al di là del giudizio di merito - segnano una discontinuità; e, seppure ancora lontani dal definire una cultura politica alternativa, rappresentano indubbiamente un fattore di maggiore articolazione e di più ricca complessità dell’identità del Pd. Sia chiaro: quella che ho appena definito come più ricca complessità dell’identità del Pd, che inevitabilmente si riflette sull’intera coalizione di centrosinistra, costituisce un dato positivo sotto molti profili, ma rappresenta anche un fattore di debolezza. Un esempio solo. In materia di mercato del lavoro, nel centrosinistra, e nello stesso Pd convivono, Dio solo sa quanto conflittualmente, le posizioni della Fiom e quelle riassunte dal senatore Pietro Echino. Nel Labour Party inglese nessuno menerebbe scandalo per una contraddizione così acuta: lì, lo spirito di scissione non è distruttivo come nel nostro paese e la coesistenza tra destra sindacale e trotskisti, tra liberal e new left, è tradizione storica consolidata. E questo prevede anche sanzioni disciplinari ed espulsioni, lotte fratricide ed estenuanti negoziazioni, frazionismo esasperato e imprevedibili mediazioni: ma – anche quando porta a momentanee separazioni - prepara nuovi compromessi e inedite alleanze. Una vita di partito indubbiamente irrequieta, con sussulti nevrotici che in certi periodi assumono dimensione patologica, ma che pure garantiscono una qualche stabilità e continuità nel tempo. Sarà capace il centrosinistra italiano di  far suo il “modello inglese”? Che non è quello di una scombiccherata e smandrappata anarchia all’insegna del “liberi tutti”: è, piuttosto, quello di una leadership forte, riconosciuta e legittimata, che può consentire la più ampia pluralità di opinione e organizzazione, perché  dispone del potere di decisione politica. Insomma, la discussione sarà tanto più libera quanto più, una volta formatosi un orientamento di maggioranza, il leader si assumerà la responsabilità di tradurlo in scelte concrete e decisioni vincolanti per tutti. Questa è, va da sé, la prospettiva più favorevole per il centrosinistra e per l’intero sistema politico italiano. In assenza di ciò, molto probabilmente, il centrosinistra eviterà la dissoluzione che minaccia oggi il PdL, ma correrà certamente il rischio della gracilità e della impotenza.
il Messaggero 27 novembre 2012
La ricchezza e i rischi del partito plurale
Luigi Manconi
Proviamo a sollevare, intanto, uno tra i veli più vaporosi e suggestivi, che aleggiano, in queste ore, intorno al successo ottenuto dalle primarie del centrosinistra. Ovvero: i vincitori sono due. A proposito del gioco del calcio Gianni Brera sosteneva che “il risultato perfetto” sarebbe lo zero a zero. L’unico capace di “celebrare due trionfatori assoluti”.
Ma, qui, l’esito è assai diverso da un pareggio: tra Pierluigi Bersani e Matteo Renzi corrono nove punti di differenza. Ne consegue che, in realtà, le primarie hanno indicato un ottimo vincitore e un ottimo sconfitto. Si vedrà, domenica prossima, se tale risultato verrà confermato, ma nel frattempo, questo è il primo dato da assumere. Il secondo è quello che permette di articolare quella valutazione unanimemente positiva sull’ampia affluenza alle urne: la partecipazione, pur differenziata geograficamente e come sempre diseguale tra centro e periferia e tra città e campagna, è risultata assai significativa sull’intero territorio nazionale. Ora, se si tiene presente che l’operazione di voto è stata più complessa e faticosa di quella prevista dalle elezioni politiche, gli oltre tre milioni di cittadini che hanno voluto esprimere la propria scelta, rappresentano davvero un segnale eloquente. Per questo, la reazione di Beppe Grillo appare davvero grottesca (“primarie dei folli”,  “nullarie”, “comparse”, “bromuro sociale”…). È sempre pericoloso disprezzare le libere scelte delle persone: tanto più quando esse rivelano, oltretutto, una forte valenza simbolica. Anche chi voglia considerare conformista e gregario l’atto di introdurre una scheda nell’urna, deve riconoscere che esso è infinitamente più impegnativo e pensato, responsabile e motivato, rispetto a quel solitario click sulla tastiera, col quale si celebrerebbe la politica online. Insomma, sarà pure un gesto consuetudinario o l’esercizio di un “diritto debole”, ma il voto resta, per la grande maggioranza dei cittadini, la più efficace e consapevole espressione di volontà politica. (A parte la rivoluzione violenta che, notoriamente, presenta altre e numerose controindicazioni). Dunque, il dato dell’affluenza merita di essere indagato con ancora maggiore precisione perché potrebbe evidenziare altre interessanti tendenze, oltre quelle alle quali alludono gli altissimi consensi ottenuti da Bersani in tutto il Meridione e da Renzi in alcune tradizionali “roccaforti rosse”. Vale la pena, poi, notare come il successo di Bersani si debba, tra l’altro, al “buon uso di Renzi” che il segretario del Pd ha saputo fare. In altre parole, Bersani ha “giocato Renzi” all’interno della propria strategia: dopo un’iniziale incertezza, è riuscito a sottrarsi al ruolo di bersaglio dell’offensiva “giovanilistica” lanciata dal suo avversario. Quest’ultimo, a sua volta, ha dovuto ridimensionare l’enfasi sulla categoria di “rottamazione”, consunta per esser stata agitata troppo precocemente e troppo corrivamente banalizzata, e Bersani ha saputo comportarsi come se l’imputazione lo riguardasse poco o nulla. Di più: ha saputo assumere all’interno del proprio discorso pubblico alcuni dei messaggi di quel rinnovamento che l’antagonista sembrava aver ridotto a questioni di stile, di linguaggio, di gestualità. In altre parole, il segretario del Pd ha adottato la “mossa del judo” (e di tutte le arti marziali asiatiche), facendo sua la spinta dell’avversario, senza resisterle, ma abbandonandosi a essa e utilizzandone l’energia. D’altra parte, Renzi, sconfitto nei numeri, può dire di aver “contaminato” il partito, introducendovi metodi e messaggi che – al di là del giudizio di merito - segnano una discontinuità; e, seppure ancora lontani dal definire una cultura politica alternativa, rappresentano indubbiamente un fattore di maggiore articolazione e di più ricca complessità dell’identità del Pd. Sia chiaro: quella che ho appena definito come più ricca complessità dell’identità del Pd, che inevitabilmente si riflette sull’intera coalizione di centrosinistra, costituisce un dato positivo sotto molti profili, ma rappresenta anche un fattore di debolezza. Un esempio solo. In materia di mercato del lavoro, nel centrosinistra, e nello stesso Pd convivono, Dio solo sa quanto conflittualmente, le posizioni della Fiom e quelle "liberiste". Nel Labour Party inglese nessuno menerebbe scandalo per una contraddizione così acuta: lì, lo spirito di scissione non è distruttivo come nel nostro paese e la coesistenza tra destra sindacale e trotskisti, tra liberal e new left, è tradizione storica consolidata. E questo prevede anche sanzioni disciplinari ed espulsioni, lotte fratricide ed estenuanti negoziazioni, frazionismo esasperato e imprevedibili mediazioni: ma – anche quando porta a momentanee separazioni - prepara nuovi compromessi e inedite alleanze. Una vita di partito indubbiamente irrequieta, con sussulti nevrotici che in certi periodi assumono dimensione patologica, ma che pure garantiscono una qualche stabilità e continuità nel tempo. Sarà capace il centrosinistra italiano di  far suo il “modello inglese”? Che non è quello di una scombiccherata e smandrappata anarchia all’insegna del “liberi tutti”: è, piuttosto, quello di una leadership forte, riconosciuta e legittimata, che può consentire la più ampia pluralità di opinione e organizzazione, perché  dispone del potere di decisione politica. Insomma, la discussione sarà tanto più libera quanto più, una volta formatosi un orientamento di maggioranza, il leader si assumerà la responsabilità di tradurlo in scelte concrete e decisioni vincolanti per tutti. Questa è, va da sé, la prospettiva più favorevole per il centrosinistra e per l’intero sistema politico italiano. In assenza di ciò, molto probabilmente, il centrosinistra eviterà la dissoluzione che minaccia oggi il PdL, ma correrà certamente il rischio della gracilità e della impotenza.
il Messaggero 27 novembre 2012
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