Quel razzismo che morde la realtà
Luigi Manconi
Ieri sera Beppe Grillo si trovava a Treviso per il suo Tutti a casa Tour e ha deciso, dunque, di inviare un messaggio "trevigiano". Ovvero ha scritto cose che, nell'arsenale micidiale degli stereotipi, dovrebbero corrispondere al senso comune attribuito agli abitanti di quella città. Tuttavia Treviso, lo sappiamo, è qualcosa di molto più complicato: è il luogo dove ha imperversato un sindaco che ha fatto, del linguaggio xenofobo, una risorsa di mobilitazione elettorale e il tratto qualificante di una certa ideologia strapaesana.

Ma, allo stesso tempo, Treviso è al centro di un territorio dove le associazioni degli industriali hanno ripetutamente chiesto l'ampliamento dei flussi migratori in rapporto ai mutamenti di un mercato del lavoro che, fino all'esplosione della crisi economico-finanziaria, conosceva una particolare vivacità e flessibilità. In questa situazione così diversificata, Grillo cala un discorso greve e plumbeo, inchiavardato in un apparato logico e lessicale minaccioso. La tragedia di sabato scorso a Milano, dove uno straniero psicopatico ha ucciso a picconate tre persone, diventa materia di un ragionamento, si fa per dire, che trova la sua fonte di ispirazione in una versione, se possibile ancora più efferata e torva, della visione del mondo di Mario Borghezio. Ed è una visione del mondo squisitamente paranoica. Intanto perché la follia di Adam Mada Kabobo viene rappresentata non come quel caso clinico che è, bensì come una sorta di fenomeno sociale. Una minaccia abnorme che connota la vita quotidiana, segna il paesaggio urbano e determina le forme delle relazioni collettive: "Quanti sono i Kabobo d'Italia? Centinaia? Migliaia?". Non solo: il meccanismo paranoico è selettivo e diventa, fatalmente, dispositivo discriminatorio. Proprio mentre le cronache sono attraversate da un succedersi incalzante di delitti che hanno come vittime selezionate le donne; proprio mentre un numero crescente di "buoni padri di famiglia" e di "mariti affettuosi" e di "amanti premurosi", tutti di limpido ceppo nazionale, si dedicano al massacro di mogli e amiche e figlie e figli, per Beppe Grillo il pericolo è decisamente altrove. Ed è rappresentato dall'Uomo Nero. Anzi, no: il pericolo è anche quel portoghese che a Milano "stacca a un passante un orecchio a morsi. Prosegue poi per Porta Venezia dove picchia una persona all'uscita dalla metropolitana. Sale su un convoglio e alla fermata di Palestro aggredisce a testate, calci e pugni un ragazzo. Risalito in superficie, raccoglie un mattone e lo tira in faccia a un sessantenne che portava a spasso il cane. Gli spacca il setto nasale e gli procura un vasto ematoma all'occhio". Ora è davvero difficile comprendere perché mai, in questa dinamica di furia criminale, il connotato nazionale (portoghese!) sia rilevante. In altre parole, perché mai dovrebbe costituire un tratto qualificante rispetto a chi, per ventura, fosse nato a Bronte (CT) o a Nulvi (SS) o a Mira (VE), e si macchiasse di simili delitti. Insomma, nel caso di questo cittadino portoghese, nulla del percorso sociale, proprio nulla, sembra rimandare a una particolare identità etnica. Siamo nel campo, piuttosto, delle patologie individuali e delle molte radici sociali dell'abbrutimento e delle esplosioni di violenza che ne possono conseguire. Dopodiché, Grillo non è un razzista, in nessuna delle diverse e classiche accezioni del termine: in lui, la xenofobia - che è cosa assai diversa - risulta come esaltata da una lettura ormai parossistica delle contraddizioni sociali; e da una concezione agonistica e tonitruante, bellica e nichilista della politica. Nello scenario che tratteggia -  interamente fatto di "guerre", "macerie"e "rese dei conti" - la tragedia di Milano viene descritta con i toni e i colori di una foto che ritrae il bancone di una macelleria. E la faticosissima convivenza tra italiani e immigrati viene raffigurata grottescamente, come la copia sanguinolenta che un imbrattatele morboso può fare di un quadro di George Grosz. Detto ciò, resta poco di che consolarsi. Ma chi, in questi giorni, vive comprensibilmente con grande difficoltà le "larghe intese" tra Pd e Pdl, si trova costretto a riflettere sui tormenti a cui lo avrebbe sottoposto un'eventuale intesa, larga o stretta, con il partito 5Stelle.
l'Unità, 17 maggio 2013

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Commenti (2)
  • carmen gueye
    Un articolo esemplare, che da voce a molti di quanti, tra noi, trovano intollerabile il linguaggio di Grillo, sia per forma che per sostanza.
  • annapaola  - Grillo non è il M5S, il M5S non è un partito
    Caro Luigi, condivido tutto, tranne la chiusa: Grillo non è il M5S, che è almeno tre altre cose diverse (i gruppi parlamentari, i militanti, gli elettori). Il fatto che tre senatrici M5S abbiano preso le distanze da Grillo firmando disegno di legge PD per introdurre lo ius soli è solo l'ennesima evidenza di ciò (ma ci sono anche studi accademici in merito). E il M5S non è un partito, è un agglomerato inusitato il cui futuro è ancora da scrivere. Ciò che mi chiedo è dunque: perché invece che lasciarlo crescere e magari favorirlo, trattandolo appunto come un partito compatto dietro a Grillo, non dialoghiamo con chi lì dentro ci è finito per dare il famoso segnale al PD (sic)? Non è questo il modo migliore per (aiutare a) far venire alla luce le contraddizioni evidenti che stanno dentro quell'agglomerato, oltre che magari ottenere qualche risultato in Parlamento? Non è una domanda polemica né retorica. Un abbraccio
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