Della purezza
Luigi Manconi
"Il puro più puro che epura l’impuro”: questa magnifica massima viene attribuita da alcuni nientemeno che a Pietro Nenni. Storicamente e culturalmente la cosa risulta plausibile: quella che appare oggi come l’insaziabile pulsione di una dinamica  giustizialista che divora se stessa, potrebbe avere, effettivamente, la sua lontana  origine nella voracità con cui un certo minoritarismo di sinistra si dedicò all’autofagia, fino alla consunzione. Il frazionismo, l’infinito scindersi e l’eterno dichiararsi oltre non sono stati e non sono (la storia continua a ripetersi) la mera espressione di accanite controversie ideologiche. Sono stati e sono, bensì, la manifestazione di una rissosità caratteriale e di un estremismo intellettuale, di una nevrastenia umorale e di una coazione mentale, che affligge singoli e gruppi dislocati a sinistra e che pretende di nobilitarsi come intransigentismo etico. Tutto ciò sta dietro quella rivendicazione di “purezza” che, fatalmente, deve immaginare un mondo dove il bene e il male siano nettamente distinti e immediatamente riconoscibili; e dove, per trovarsi dalla parte del bene, basta volerlo e autocollocarvisi. Ne deriva una spirale feroce, dal momento che la “purezza”, essendo per sua natura incomparabile, esige di essere misura di se stessa. Sono io che, puro per volontà e vocazione, decido chi è degno di me e chi è indegno di me. Un esempio solo, ricavato dalle cronache più recenti. Se Salvatore Borsellino è il puro per eccellenza, perché fratello di un uomo ritenuto a ragione una delle fonti della purezza; e se Salvatore è ancora più puro della sorella Rita, sospettabile perché legata a un partito impuro come il Pd, quale sarà il tasso di purezza del partito di Antonio Ingroia, una volta manifestatasi la distanza di quest’ultimo dalla famiglia Borsellino? E se anche Ilda Boccassini, meritatamente uno dei simboli dell’antimafia, mette in discussione la purezza dello stesso Ingroia e ne viene ricambiata con un giudizio negativo su di lei, attribuito al medesimo Paolo Borsellino, risulta chiaro che il richiamo alla purezza si è trasformato nel suo esatto contrario: ovvero in uno strumento di corruzione intellettuale, se non morale. Ora, i supporter di Rivoluzione Civile si affannano a spiegare che no, Ingroia non voleva paragonarsi a Giovanni Falcone, e che Ilda Boccassini ha fatto una forzatura assai malevola, animata da chissà quale antica avversione. Sfugge la sostanza della controversia. Da vent’anni a questa parte, una sinistra minoritaria e affranta, prostrata da molte sconfitte e da altrettante frustrazioni, tende ad affidarsi a figure salvifiche. All’origine fu Antonio Di Pietro (e, sullo sfondo, Francesco Saverio Borrelli e Piercamillo Davigo) che attrasse su di sé le aspettative di una “rivoluzione morale”, proposta come surrogato della mancata rivoluzione politica. Sulla sua scia, una schiera di vendicatori e corifei, magistrati e giornalisti, che evocavano, tutti, scenari apocalittici e missioni palingenetiche, in nome appunto della rivoluzione morale. Ma proprio quel connotato etico - sottratto, dunque, a ogni valutazione pragmatica, e a ogni test razionale – ha alimentato una spirale fatta di sospetti e rivendicazioni, moralismi ed epurazioni, insinuazioni e riparazioni. Ogni puro ha trovato, appunto, uno “più puro” che lo ha epurato. Antonio Di Pietro ha trovato il suo Elio Veltri; Beppe Grillo il suo Antonio Ingroia. Il fenomeno ha assunto le forme grottesche di una spietata selezione morale, che ha bruciato in pochi anni, o mesi, tutti i successivi campioni di virtù. (Chi sarà quello che prenderà il posto di Ingroia dopo che si sarà sviluppata la critica interna nei suoi confronti e si scopriranno le fastidiose macchie che minacciano di comprometterne la purezza?). Qualche anno fa, si verificò un episodio che avrebbe dovuto far aprire gli occhi a molti. Giuseppe D’Avanzo, sulla base di alcuni documenti, accusò Marco Travaglio di cattive frequentazioni in ragione di una vacanza siciliana con un maresciallo della Finanza, condannato per reati di mafia. Ovviamente D’Avanzo non accusava in alcun modo Travaglio di connivenza con organizzazioni criminali: voleva evidenziare, piuttosto, gli effetti perversi della “metodologia investigativa” di Travaglio. Quest’ultimo non volle capire (in realtà sospetto che non capì proprio) e si arrabattò, furente e pedantemente acribioso, affannato e ringhioso, per difendere la propria purezza, sventolando fotocopie di bonifici e di conti di albergo. Fu un’occasione persa, che dimostrò in maniera inequivocabile la sordità intellettuale e, per certi versi, morale del giustizialismo militante; e la sua disperata e disperante regressione culturale. Nemmeno il fatto di subire sulla propria pelle, per una volta, quella scellerata metodologia investigativa – tutta fatta di “singolari coincidenze” e “misteriose combinazioni”, di “guarda caso” e di incroci vertiginosi tra fatti e parentele circostanze e relazioni – aveva prodotto una qualche resipiscenza. È proprio vero: gli dei accecano chi vogliono perdere.
(E sono proprio io a dirlo).
il Foglio 5 febbraio 2013
Della purezza
Luigi Manconi
"Il puro più puro che epura l’impuro”: questa magnifica massima viene attribuita da alcuni nientemeno che a Pietro Nenni. Storicamente e culturalmente la cosa risulta plausibile: quella che appare oggi come l’insaziabile pulsione di una dinamica  giustizialista che divora se stessa, potrebbe avere, effettivamente, la sua lontana  origine nella voracità con cui un certo minoritarismo di sinistra si dedicò all’autofagia, fino alla consunzione.
Il frazionismo, l’infinito scindersi e l’eterno dichiararsi oltre non sono stati e non sono (la storia continua a ripetersi) la mera espressione di accanite controversie ideologiche. Sono stati e sono, bensì, la manifestazione di una rissosità caratteriale e di un estremismo intellettuale, di una nevrastenia umorale e di una coazione mentale, che affligge singoli e gruppi dislocati a sinistra e che pretende di nobilitarsi come intransigentismo etico. Tutto ciò sta dietro quella rivendicazione di “purezza” che, fatalmente, deve immaginare un mondo dove il bene e il male siano nettamente distinti e immediatamente riconoscibili; e dove, per trovarsi dalla parte del bene, basta volerlo e autocollocarvisi. Ne deriva una spirale feroce, dal momento che la “purezza”, essendo per sua natura incomparabile, esige di essere misura di se stessa. Sono io che, puro per volontà e vocazione, decido chi è degno di me e chi è indegno di me. Un esempio solo, ricavato dalle cronache più recenti. Se Salvatore Borsellino è il puro per eccellenza, perché fratello di un uomo ritenuto a ragione una delle fonti della purezza; e se Salvatore è ancora più puro della sorella Rita, sospettabile perché legata a un partito impuro come il Pd, quale sarà il tasso di purezza del partito di Antonio Ingroia, una volta manifestatasi la distanza di quest’ultimo dalla famiglia Borsellino? E se anche Ilda Boccassini, meritatamente uno dei simboli dell’antimafia, mette in discussione la purezza dello stesso Ingroia e ne viene ricambiata con un giudizio negativo su di lei, attribuito al medesimo Paolo Borsellino, risulta chiaro che il richiamo alla purezza si è trasformato nel suo esatto contrario: ovvero in uno strumento di corruzione intellettuale, se non morale. Ora, i supporter di Rivoluzione Civile si affannano a spiegare che no, Ingroia non voleva paragonarsi a Giovanni Falcone, e che Ilda Boccassini ha fatto una forzatura assai malevola, animata da chissà quale antica avversione. Sfugge la sostanza della controversia. Da vent’anni a questa parte, una sinistra minoritaria e affranta, prostrata da molte sconfitte e da altrettante frustrazioni, tende ad affidarsi a figure salvifiche. All’origine fu Antonio Di Pietro (e, sullo sfondo, Francesco Saverio Borrelli e Piercamillo Davigo) che attrasse su di sé le aspettative di una “rivoluzione morale”, proposta come surrogato della mancata rivoluzione politica. Sulla sua scia, una schiera di vendicatori e corifei, magistrati e giornalisti, che evocavano, tutti, scenari apocalittici e missioni palingenetiche, in nome appunto della rivoluzione morale. Ma proprio quel connotato etico - sottratto, dunque, a ogni valutazione pragmatica, e a ogni test razionale – ha alimentato una spirale fatta di sospetti e rivendicazioni, moralismi ed epurazioni, insinuazioni e riparazioni. Ogni puro ha trovato, appunto, uno “più puro” che lo ha epurato. Antonio Di Pietro ha trovato il suo Elio Veltri; Beppe Grillo il suo Antonio Ingroia. Il fenomeno ha assunto le forme grottesche di una spietata selezione morale, che ha bruciato in pochi anni, o mesi, tutti i successivi campioni di virtù. (Chi sarà quello che prenderà il posto di Ingroia dopo che si sarà sviluppata la critica interna nei suoi confronti e si scopriranno le fastidiose macchie che minacciano di comprometterne la purezza?). Qualche anno fa, si verificò un episodio che avrebbe dovuto far aprire gli occhi a molti. Giuseppe D’Avanzo, sulla base di alcuni documenti, accusò Marco Travaglio di cattive frequentazioni in ragione di una vacanza siciliana con un maresciallo della Finanza, condannato per reati di mafia. Ovviamente D’Avanzo non accusava in alcun modo Travaglio di connivenza con organizzazioni criminali: voleva evidenziare, piuttosto, gli effetti perversi della “metodologia investigativa” di Travaglio. Quest’ultimo non volle capire (in realtà sospetto che non capì proprio) e si arrabattò, furente e pedantemente acribioso, affannato e ringhioso, per difendere la propria purezza, sventolando fotocopie di bonifici e di conti di albergo. Fu un’occasione persa, che dimostrò in maniera inequivocabile la sordità intellettuale e, per certi versi, morale del giustizialismo militante; e la sua disperata e disperante regressione culturale. Nemmeno il fatto di subire sulla propria pelle, per una volta, quella scellerata metodologia investigativa – tutta fatta di “singolari coincidenze” e “misteriose combinazioni”, di “guarda caso” e di incroci vertiginosi tra fatti e parentele circostanze e relazioni – aveva prodotto una qualche resipiscenza. È proprio vero: gli dei accecano chi vogliono perdere.
(E sono proprio io a dirlo).

il Foglio 5 febbraio 2013
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