11 dicembre 2009
l’udienza per l'opposizione alla richiesta di archiviazione per l'accusa di omicidio di Aldo Bianzino
Luigi Manconi
Oggi, a Perugia, si terrà l’udienza per l'opposizione alla richiesta di archiviazione per l'accusa di omicidio di Aldo Bianzino a opera di ignoti. Se fosse decisa l’archiviazione, quella di Aldo Bianzino rientrerebbe definitivamente tra le morti le cui cause restano “da accertare”.
E questo significa che non verranno mai accertate. I decessi in carcere la cui dinamica rimane non chiarita rappresentano un terzo del numero complessivo, mentre un altro terzo è costituito da suicidi. La vicenda di Aldo Bianzino è, all’interno di questo scenario tragico, particolarmente significativa. La sua morte venne attribuita inizialmente a un “malore naturale”, ma l’autopsia – dopo aver escluso patologie cardiache pregresse - certificò lesioni agli organi interni, presenza di sangue nell’addome e nella pelvi, lacerazione epatica, lesioni all’encefalo, a fronte di un aspetto esterno indenne da segni di traumi. Una seconda autopsia riscontra un distacco del fegato e ipotizza la morte per aneurisma cerebrale, referto che sarà poi confermato da altre perizie. Ma cos’era accaduto ad Aldo Bianzino, e  quando e dove? Tutto ebbe inizio il 12 ottobre 2007 quando Bianzino e la sua compagna Roberta Radici, vennero arrestati, a seguito del ritrovamento nel loro giardino di alcune piante di marijuana. Trasferito nel carcere di Capanne a Perugia, Aldo viene trovato morto la mattina del 14. Alcuni detenuti della stessa sezione dichiarano che nel corso della notte Aldo avrebbe invocato ripetutamente  assistenza medica ma senza alcun esito. Le indagini proseguono stentatamente fino a quando nell’Ottobre del 2008 il Pm chiede l’archiviazione del procedimento contro ignoti, che verrà successivamente respinta dal Gip. Si giunge così all’udienza di oggi. Contemporaneamente si trova indagato un agente di polizia penitenziaria, in servizio in carcere durante quella notte, che è stato  rinviato a giudizio il prossimo 28 giugno per omissione di soccorso e falsificazione dei registri, con riferimento a quanto sarebbe accaduto nella cella di Bianzino. Già  questo rinvio a giudizio è estremamente significativo, dal momento che il sistema penitenziario è una sorta di regime dell’omissione di soccorso, dell’assenza di cure, dell’abbandono terapeutico. Un regime della trascuratezza programmata e della carenza sistematica, dove la terapia più semplice e il farmaco più comune rappresentano una meta irraggiungibile per la gran parte dei reclusi; e dove qualunque infermità può diventare cronica, qualunque malattia trasformarsi in minaccia letale, qualunque patologia degenerare. Pertanto, l’omissione di soccorso che contribuisce alla morte di Bianzino svolge un ruolo essenziale nella debilitazione e nella sofferenza di migliaia di detenuti, nell’aggravamento del loro stato di salute, nell’accelerarne la decadenza psichica e fisica. Ma non è questo il solo tratto che rende la vicenda di Bianzino così atrocemente esemplare. Si consideri ciò che ne è all’origine. Bianzino coltivava marijuana, ne consumava, ed è possibile che ne facesse occasionale commercio. E allora? Questo è un nodo cruciale. Perché mai non è possibile porre francamente, senza ipocrisie e infingimenti, un simile quesito: dov’è il crimine? Dov’è l’azione che – secondo il diritto liberale e garantista – si configura come offensiva, ovvero capace di ledere terzi e beni di terzi? In altre parole, qual è il male che stava arrecando Bianzino, e a chi? O a queste domande elementari si trovano risposte adeguate oppure è fatale che i casi come quello di Bianzino o di Stefano Cucchi si ripetano all’infinito. Insomma, queste ultime vicende di carcere e di morte ripropongono con urgenza la questione dell’antiproibizionismo: la questione di una politica, cioè, che non trasformi in fattispecie penale un comportamento deviante o uno stile di vita, colpevolizzando i consumatori e producendo proibizione crimine e sanzione. Questa vicenda, infine, suggerisce un’ultima considerazione: dopo la morte della compagna di Aldo, resta Rudra, il figlio non ancora diciassettenne della coppia, a impedire che su quella tragedia scenda l’oblio: così come Ilaria Cucchi – oggi presente con i Radicali all’udienza di Perugia – è lì, con la sua inflessibilissima dolcezza, a far si che su suo fratello Stefano non prevalgano la smemoratezza collettiva e la cattiveria di chi ne parla come del “piccolo spacciatore”, “sieropositivo, epilettico, anoressico, uno zombie”. Quando la società, l’opinione pubblica, i soggetti politici si rivelano incapaci di tutelare le persone più fragili, è il legame più profondo, quello della consanguineità, che fa sentire la propria voce.
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