Serra ha ragione
La vecchia collera "piccolo-borghese" si giova di Internet, ma così possimao studiarla meglio
Luigi Manconi
In un’antica gag di Alto gradimento,il prof. Aristogitone “40’anni di duro lavoro in mezzo a queste quattro mura scolastiche” inveiva contro “i ragazzini e i loro stramaledetti motorini” simboli della catastrofe irreversibile del mondo moderno. Il rischio del passatismo e della malmostosa irritazione contro la contemporaneità è un’insidia per quanti abbiano più di cinquant’anni.
E ogni volta che quel sentimento mi prende, divento circospetto ed esito a manifestare i miei umori e malumori profondi. Un amico un po’ più giovane di me, Michele Serra, è solito dare sfogo a quella pulsione con maggiore libertà: lo fece già la prima volta che ci incontrammo (1988 o ‘89), quando mi propose di partecipare all’avventura di Cuore. Ricordo quel nostro colloquio milanese perché mi piacque subito quel suo tratto di malinconico conservatorismo. Io, a tale tentazione,cercavo faticosamente di sottrarmi: e ora, invece, la trovo addirittura confortante. Come quando leggo queste recenti righe di Serra: “Ieri le edizioni online di tutti i quotidiani davano la notizia di un incidente stradale, fortunatamente non grave, a Nicoletta Braschi, moglie di Roberto Benigni. Seguiva, tra gli altri, questo commento di un lettore: "Poteva anche prendersi un'auto più sicura di una Golf, non mi pare un'auto da signori". (…) Perché questo pensierino gretto e mediocre, un tempo confinabile al bancone di un bar, deve finire sotto gli occhi di centinaia di migliaia di persone? È obbligatorio? Lo stabilisce una legge? Ce l'ha ordinato il dottore?” (la Repubblica, 12 luglio 2012). Il direttore di Radio radicale, Paolo Martini, ha ragionevolmente replicato che – con tutta probabilità – a leggere quel commento siano stati poco più di quanti si affollino “al bancone di un bar”. Ma questo, se pure fosse vero, non risolve il problema. Quel signore che scrive quel commento è parte, infatti, di un’autentica folla, certo pre-esistente a internet, ma che - grazie a internet - si manifesta e manifesta la propria incontenibile aggressività. E qui torna utile una vicenda personale. Alla mia pagina facebook arriva un messaggio privato firmato Antonio Oi (e io che credevo che Oi fosse solo una variante del punk rock). Il signore in questione (che non è uno dei miei “amici di facebook”) trova in ciò che scrivo lo “stucchevole lascito di una cultura di sinistra tenera con le illegalita' dei "compagni che sbagliano", oggi come ieri naturaliter funzionale ai disegni criminosi del mondo mafioso che ha in Berlusconi il proprio leader”; e critica le mie “pippe sociologiche” (formula che ritorna ossessivamente a segnalare in maniera inequivocabile un disturbo del comportamento). Quindi, un vero capolavoro letterario: “ca..ate” (ossia il dico-non dico della pusillanimità linguistica). Insistente, poi, il ricorso a un’altra formula (“radical-chic”) che evidenzia - insieme a molte altre parole e costruzioni sintattiche - una cultura reazionaria e con qualche ascendenza fascistoide. Ma il punto non è l’appartenenza politica di Oi: bensì il fatto che un tizio di cui nulla so e di cui nulla voglio sapere, evidentemente eccitato da un articolo contro di me – per le mie posizioni sulla presunta trattativa tra mafia e Stato - decide di entrare a casa mia senza bussare e senza presentarsi, senza chiedere permesso e senza dichiarare le proprie intenzioni. Al solo fine di insolentirmi. So bene che si tratta di un episodio irrilevante e che chiunque abbia una minima visibilità conosce esperienze simili. È un piccolo scotto da pagare e un trascurabile effetto collaterale. Ma ciò che questi episodi rivelano merita una qualche riflessione. C’è un gigantesco flusso di rancore che cova nel cuore profondo del nostro paese, che lo percorre tutta dal centro alle articolazioni periferiche, diffondendosi lungo l’intera stratificazione sociale. Non è l’ odio degli oppressi né la rabbia degli ultimi, non è la vendetta dei diseredati né l’ostilità degli espropriati di tutto. Certo, c’è anche questo, ed è rilevantissimo e va considerato col massimo rispetto, ma ciò che emerge da questi episodi e da mille altri è, piuttosto, una collera (sociologicamente definibile come “piccolo-borghese”) che trova la sua radice in una sorta di invidia sociale. Un sentimento che sembra avere una circolazione infracomunitaria e “orizzontale”, che sembra correre tra vicini e prossimi, tra persone che dispongono di un livello assai simile di istruzione e status, reddito e risorse. Non c’è nulla che richiami la lotta di classe: qui c’è un’acre competizione, sorda e cupa, tra individui e gruppi che perdono, ciascuno, una quota di ruolo e prestigio sociale, di mezzi e di potere. Questo spiega perché tale stato di insoddisfazione si manifesti come voglia di rivalsa, oscuro livore, rancore perenne; e spiega come, alla base di tutto, ci sia una cronica frustrazione. Tutto ciò, evidentemente, preesisteva: il fatto che adesso emerga, grazie in particolare a internet, è comunque positivo: lo si può, se non altro, analizzare. E – dove e per quanto è possibile – comprendere e “democratizzare”. Resta la sgradevolezza delle modalità con cui quell’umore si esprime: irriducibile aggressività e petulante invadenza, violenza verbale e una immensa, davvero sconfinata, maleducazione.
il Foglio 24 luglio 2012
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Commenti (1)
  • Nadia Bertolani  - Il primato dell'intelligenza!
    Parafrasando Montaigne, "Quando gli uomini si riuniscono, le loro teste si restringono".
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