Esuli in patria
Politicamente correttissimo
1-    Siamo stranieri morali in un mondo globale. È questo il senso del ragionamento fatto dal filosofo Hugo Tristram Engelhardt, durante una conferenza promossa dalla Consulta di Bioetica, a Milano (si veda il puntuale resoconto di Oreste Pivetta sull’Unità del 28 u.s.).
Engelhardt, autore di un importante manuale di bioetica, (Il Saggiatore, 1999) già fedele della Chiesa cattolica, oggi cristiano ortodosso, afferma che il nostro maggiore traguardo può essere la costruzione dei fondamenti di un'etica che consenta di convivere pacificamente, senza che ciascuno tradisca la propria “comunità morale”. Ma attenzione ai pregiudizi. Non siamo in presenza di uno sciatto relativismo etico. La gerarchia dei valori e le preferenze morali sono contemplate da Engelhartd, eccome, ma il principio della loro convivenza pacifica discende direttamente da una recisa opzione democratica. Insomma, se non c’è una qualche forma di intelligente e sensibile relativismo, c’è lo stato etico. La genialità della ragionevolezza di Engelhardt – nella mia personale traduzione - consiste in questo: solo un regime democratico, pluralista e garantista, permette il dispiegarsi delle “guerre culturali” e consente che le minoranze ardenti siano ardenti. Senza che la regolamentazione  di quella convivenza diventi dispotismo delle maggioranze, magari secolarizzate e agnostiche. Se ne dovrà riparlare.

2-    Il ministro Roberto Maroni è, a mio avviso, una delle disgrazie nazionali. Il suo contributo al degrado del senso comune è davvero notevole. E questo lo colloca tra i più acerrimi avversari di tutto ciò per cui mi batto. Ma, quando vedo il suo nome tra quelli degli “inquisiti” nella pubblicistica della FIF (Federazione degli Intransigenti Feroci), inorridisco. Il reato imputato a Maroni è tra quelli classici commessi dagli appartenenti a tutti i movimenti di emancipazione sociale o comunitaria: e ne costituisce una sorta di atto fondativo. E infatti, anche nel caso di Maroni, il reato in questione rimanda alla tutela dell’inviolabilità di una sede politica, quella della Lega. Come si fa a considerare la politica uno strumento destinato a conseguire il “bene possibile”  (formula più attraente di quella, a me assai cara, del male minore) senza considerare il confine, pur sottile, tra l’etica quale ordinamento universale e la moralità politica? Da un paio di millenni dovremmo sapere che etica e politica non sono perfettamente sovrapponibili: e l’azione di chi difende la propria sede di partito, fino a quando non vi si commettano reati, dall’invadenza delle forze di polizia, è atto di moralità politica. Anche nei sistemi democratici. Dunque a Maroni, dovremmo rimproverare tutto (almeno lo facessimo!) ma non quell’azione. La cosa riguarda l’intero arco politico perché – va ricordato – Marco Pannella, Rita Bernardini e altri dirigenti Radicali sono, a pieno titolo, dei pregiudicati, in quanto condannati per un’azione di disobbedienza civile (la distribuzione gratuita di derivati della canapa indiana). Poi, c’è la vicenda di Vincenzo De Luca, esposto al pubblico ludibrio  perché “indagato” e, dunque, indegno – secondo la FIF - di concorrere alla presidenza della regione Campania. Intervistato dall’Unità, De Luca replica:  “Sono inquisito per aver difeso il posto di duecento lavoratori” e spiega dettagliatamente l’origine della vicenda giudiziaria. Se così stanno le cose (ripeto: se così stanno le cose) c’è da rimanere basiti. Ma quale sinistra è mai quella che fa di una simile imputazione non una ragione di fierezza, bensì un motivo di riprovazione? Quale parossismo giustizialista ha condotto chi si dice di sinistra a identificare l’onore della politica con il formalismo leguleio e bacchettone? Diverso, eppure corre parallelo, il discorso relativo a Ottaviano Del Turco. Quando, tempo fa, sollevai seri dubbi sulla sua colpevolezza, non dico che subii chissà quale “aggressione” - come sono soliti lamentare gli intransigentisti-vittimisti – ma non ricevetti, certo, molti consensi. Solo ora, finalmente, si intravede qualche resipiscenza. Ma perché sempre DOPO? È ovvio: perché non si fa riferimento a principi saldi ai quali saldamente ancorarsi. Il primo è che un’informazione di garanzia è un’informazione di garanzia. Di garanzia, capite. Perché deve diventare una prova di colpevolezza? Semplice: lo vuole “il popolo”. Sarà, ma perché – dopo aver dato del populista a Silvio Berlusconi un giorno sì e un altro pure – non siamo capaci di evitare la medesima e ricorrente deriva populista sia pure di segno rovesciato? In caso contrario, saremo costretti a cedere progressivamente sul piano delle garanzie, senza mai tracciare un confine preciso prima del quale si tutelano inflessibilmente i diritti dell’indagato e, dopo il quale, si accetta il primato del “controllo di legalità”. Il “caso De Luca” può essere l’occasione giusta. Se i reati sono quelli, difendere il suo diritto a candidarsi è una buona “cosa di sinistra”. (Poi, si considereranno le altre cose, e le molte parole “di destra”, che De Luca si è consentito in questi anni).

Il Foglio 2 febbraio 2010
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