Rubrica Politicamente correttissimo
Luigi Manconi
Il prologo non si vede (la documentazione è scarsa e controversa): Franco Mastrogiovanni, maestro elementare di 58 anni, nella notte tra il 30 e il 31 luglio del 2009, percorre in auto una zona pedonale, violando alcune norme del codice della strada. A seguito di questo, viene sottoposto a Trattamento sanitario obbligatorio (anche in questo caso la relativa documentazione è scarsa e controversa) e ricoverato nel reparto psichiatrico dell’ospedale San Luca di Vallo della Lucania. Da ora in poi la scena è documentata e visibile: si osserva un uomo crocifisso, le caviglie e i polsi serrati da cinghie di cuoio e plastica, che lo inchiodano a un letto e impediscono qualsiasi movimento. I piedi sono scalzi, il corpo è nudo, sui fianchi la sottile striscia di un costume da bagno abbassato per consentire che al sesso sia applicato un catetere. La scena si dipana per un tempo infinito: dalle ore 12:32 del 31 luglio all’alba del 4 agosto del 2009. Intorno al suo corpo – come registrato, istante per istante, dalla telecamera di videosorveglianza del reparto - si muovono, per quasi quattro giorni, numerose persone: complessivamente 12 infermieri e 6 medici, che assistono, senza muovere un dito, a quella agonia infinita e alla morte. Tutta la vicenda evidenzia una questione terribile e, per molti versi, indecifrabile: come è potuto accadere che ben 18 persone, per quasi 90 ore, siano state testimoni muti e indifferenti di una tragedia tanto atroce? Non due o tre persone e non per appena qualche ora. Ma 18 individui, titolari di competenze professionali e sottoscrittori di severi codici deontologici. Quei medici e quegli infermieri hanno deciso ed eseguito, comunque contribuito a realizzare o perlomeno assecondato, un trattamento che ha portato al decesso di una persona loro sottoposta, ma in realtà loro affidata affinché ne garantissero la vita, l'assistenza e la cura. Per un tempo infinito non hanno adottato terapie adeguate, non hanno nutrito e dissetato, non hanno prestato soccorso e aiuto. E ancora: non hanno impedito la prostrazione, il degrado e, infine, la morte. E ciò nonostante che il loro mestiere, quello per il quale si trovavano in quel reparto e per il quale si erano formati e venivano retribuiti, fosse esattamente la tutela di quel paziente. Come è potuta accadere una catastrofe professionale e mentale, psicologica e intellettuale, tale da indurli a cooperare - con omissioni o atti – alla morte di un paziente loro affidato? Com’è potuto accadere che alcuni di loro abbiano accostato a quei polsi legati un vassoio contenente cibo, poi ritirato senza che quelle mani, impossibilitate  muoversi, potessero raggiungerlo? C’è quel video, che documenta minuto per minuto, inesorabilmente, la scena in tutta la sua interminabile durata: vi si vedono adulti in camice o con abiti professionali muoversi -difficile dire se indifferenti oppure narcotizzati- intorno a un letto dove un uomo alto 1 metro e 95 agonizza. È interessante (crudelmente interessante) osservare i loro passi, i loro gesti, i loro volti: disegnano un'assenza che trae origine dalla capacità di non vedere l'orrore. Attenzione: non è che lo neghino, quell'orrore, o lo chiamino diversamente: semplicemente non lo vedono. Ma come è potuto accadere? La risposta che, ancora una volta, si è tentati di dare echeggia “la banalità del male”: ma, una simile formula  – efficacissima e suggestiva sotto il profilo letterario –  rischia di risultare vuota. Descrive, cioè, una desolazione, ma non ci aiuta in alcun modo a individuarne le radici. E, dunque, la domanda si ripropone in tutta la sua violenza. Quei 18 – come dicono i loro avvocati e i loro familiari - sono “bravissime persone”: e non ne dubito certo. Non sono dei sadici e nemmeno gli allievi della Scuola Superiore “Heinrich Himmler” per aspiranti SS. Sono, appunto “bravissime persone” che le circostanze possono trasformare nei “volenterosi carnefici” di cui ha scritto Daniel J. Goldhagen. E quali sono quelle circostanze? Quelle dove prevale lo spirito gregario, la solidarietà corporativa, la crudeltà di gruppo, un’ideologia che svaluta l’irriducibile unicità della persona e sprezza i deboli, chi mostra un handicap o un deficit, chi si rivela vulnerabile. E qui, per ideologia, non si intende un sistema compatto di concetti e interpretazioni e giudizi (pregiudizi), bensì un senso comune che si insedia e si riproduce. E che sta dietro tutti quei comportamenti che rispondono, anche solo occasionalmente, alla "logica del branco". Ecco, per quanto incerto e sicuramente spaventoso, questo (“la logica del branco”) può essere uno spunto per comprendere quanto è accaduto in quel reparto psichiatrico. Ciò che si intuisce può fare davvero paura: la socialità di un lavoro svolto in comune, la cooperazione richiesta tra varie mansioni e competenze, la condivisione dell’impegno professionale e dei suoi fini, non producono, necessariamente, una relazione di reciproca responsabilità, bensì il suo contrario. Una complicità che scivola rapidamente nell’omertà più salda e impermeabile tra i membri del gruppo, e che, prima, segrega e, poi, degrada il corpo estraneo. Quello di Franco Mastrogiovanni.
il Foglio 6 novembre 2012
Rubrica Politicamente correttissimo
Luigi Manconi
Il prologo non si vede (la documentazione è scarsa e controversa): Franco Mastrogiovanni, maestro elementare di 58 anni, nella notte tra il 30 e il 31 luglio del 2009, percorre in auto una zona pedonale, violando alcune norme del codice della strada.
A seguito di questo, viene sottoposto a Trattamento sanitario obbligatorio (anche in questo caso la relativa documentazione è scarsa e controversa) e ricoverato nel reparto psichiatrico dell’ospedale San Luca di Vallo della Lucania. Da ora in poi la scena è documentata e visibile: si osserva un uomo crocifisso, le caviglie e i polsi serrati da cinghie di cuoio e plastica, che lo inchiodano a un letto e impediscono qualsiasi movimento. I piedi sono scalzi, il corpo è nudo, sui fianchi la sottile striscia di un costume da bagno abbassato per consentire che al sesso sia applicato un catetere. La scena si dipana per un tempo infinito: dalle ore 12:32 del 31 luglio all’alba del 4 agosto del 2009. Intorno al suo corpo – come registrato, istante per istante, dalla telecamera di videosorveglianza del reparto - si muovono, per quasi quattro giorni, numerose persone: complessivamente 12 infermieri e 6 medici, che assistono, senza muovere un dito, a quella agonia infinita e alla morte. Tutta la vicenda evidenzia una questione terribile e, per molti versi, indecifrabile: come è potuto accadere che ben 18 persone, per quasi 90 ore, siano state testimoni muti e indifferenti di una tragedia tanto atroce? Non due o tre persone e non per appena qualche ora. Ma 18 individui, titolari di competenze professionali e sottoscrittori di severi codici deontologici. Quei medici e quegli infermieri hanno deciso ed eseguito, comunque contribuito a realizzare o perlomeno assecondato, un trattamento che ha portato al decesso di una persona loro sottoposta, ma in realtà loro affidata affinché ne garantissero la vita, l'assistenza e la cura. Per un tempo infinito non hanno adottato terapie adeguate, non hanno nutrito e dissetato, non hanno prestato soccorso e aiuto. E ancora: non hanno impedito la prostrazione, il degrado e, infine, la morte. E ciò nonostante che il loro mestiere, quello per il quale si trovavano in quel reparto e per il quale si erano formati e venivano retribuiti, fosse esattamente la tutela di quel paziente. Come è potuta accadere una catastrofe professionale e mentale, psicologica e intellettuale, tale da indurli a cooperare - con omissioni o atti – alla morte di un paziente loro affidato? Com’è potuto accadere che alcuni di loro abbiano accostato a quei polsi legati un vassoio contenente cibo, poi ritirato senza che quelle mani, impossibilitate  muoversi, potessero raggiungerlo? C’è quel video, che documenta minuto per minuto, inesorabilmente, la scena in tutta la sua interminabile durata: vi si vedono adulti in camice o con abiti professionali muoversi -difficile dire se indifferenti oppure narcotizzati- intorno a un letto dove un uomo alto 1 metro e 95 agonizza. È interessante (crudelmente interessante) osservare i loro passi, i loro gesti, i loro volti: disegnano un'assenza che trae origine dalla capacità di non vedere l'orrore. Attenzione: non è che lo neghino, quell'orrore, o lo chiamino diversamente: semplicemente non lo vedono. Ma come è potuto accadere? La risposta che, ancora una volta, si è tentati di dare echeggia “la banalità del male”: ma, una simile formula  – efficacissima e suggestiva sotto il profilo letterario –  rischia di risultare vuota. Descrive, cioè, una desolazione, ma non ci aiuta in alcun modo a individuarne le radici. E, dunque, la domanda si ripropone in tutta la sua violenza. Quei 18 – come dicono i loro avvocati e i loro familiari - sono “bravissime persone”: e non ne dubito certo. Non sono dei sadici e nemmeno gli allievi della Scuola Superiore “Heinrich Himmler” per aspiranti SS. Sono, appunto “bravissime persone” che le circostanze possono trasformare nei “volenterosi carnefici” di cui ha scritto Daniel J. Goldhagen. E quali sono quelle circostanze? Quelle dove prevale lo spirito gregario, la solidarietà corporativa, la crudeltà di gruppo, un’ideologia che svaluta l’irriducibile unicità della persona e sprezza i deboli, chi mostra un handicap o un deficit, chi si rivela vulnerabile. E qui, per ideologia, non si intende un sistema compatto di concetti e interpretazioni e giudizi (pregiudizi), bensì un senso comune che si insedia e si riproduce. E che sta dietro tutti quei comportamenti che rispondono, anche solo occasionalmente, alla "logica del branco". Ecco, per quanto incerto e sicuramente spaventoso, questo (“la logica del branco”) può essere uno spunto per comprendere quanto è accaduto in quel reparto psichiatrico. Ciò che si intuisce può fare davvero paura: la socialità di un lavoro svolto in comune, la cooperazione richiesta tra varie mansioni e competenze, la condivisione dell’impegno professionale e dei suoi fini, non producono, necessariamente, una relazione di reciproca responsabilità, bensì il suo contrario. Una complicità che scivola rapidamente nell’omertà più salda e impermeabile tra i membri del gruppo, e che, prima, segrega e, poi, degrada il corpo estraneo. Quello di Franco Mastrogiovanni.
il Foglio 6 novembre 2012
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Commenti (3)
  • maria antonietta dettori
    sono rimasta colpita dalla informazione data dalla
    trasmissione "Pagina 3" (radio tre)su questo articolo. Luigi è mio concittadino (Sassari) e da tempo seguo e condivido le sue azioni e le sue opinioni. Volevo fargli sapere, ma lo sa certamente, che in diversi ospedali, e non solo in quelli psichiatrici succedono cose del genere:il malato è( quando gli va bene perché è persona conosciuta e magari istruita)un oggetto per dimostrare la propria "bravura" e cioè la giustificazione del proprio potere. Ma la maggior parte delle volte è semplicemente qualcuno per cui non vale la pena di utilizzare la propria professionalità.
  • gabriel lama  - Contraddizioni
    Ho letto e sentito di qst vicenda sui media nazionali. Mi pare assurdo che si possa parlare di "branco" quando si assiste ad un vero sciacallaggio mediatico. possibile che questo reparto agisse x il male piuttosto che per il bene? Se c'e un problema legislativo va rivisto quello. Si discute di liberare le carceri, pero' poi si propone il carcere x dei lavoratori...
  • Anonimo
    Lavoratori?
    Medici ed infermieri che legano senza motivo e che fanno male oppure non fanno proprio il loro lavoro .... lavoratori? E' veramente il colmo!
    Sciacallaggio mediatico?
    Certamente c'è chi preferisce il silenzio, l'omertà, .......
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