Sovraffollamento, carceri a numero chiuso
Luigi Manconi
Che le carceri italiane siano un autentico schifo, nessuno pare metterlo in dubbio. E che, tra le cause di quell’intollerabile situazione, sia determinante l’abnorme sovraffollamento, è constatazione pressoché unanime. In presenza di ciò, pertanto, impedire che altri detenuti patiscano la stessa condizione “inumana e degradante” non dovrebbe essere il provvedimento più naturale del mondo? E stabilire una sorta di “numero chiuso” non dovrebbe costituire la misura più ovvia, oltre che sacrosanta? Eppure, una simile ragionevole ipotesi non viene nemmeno presa in considerazione nel nostro paese. E così, mentre ampio sembra il consenso intorno alle strategie di lungo periodo (in primo luogo: riduzione del numero di atti e comportamenti qualificati come fattispecie penali e riduzione del numero delle fattispecie penali sanzionate col carcere), è assai più controversa la valutazione sulle misure da adottare nell’immediato: come l’amnistia e l’indulto e, appunto, “il numero chiuso”. Si tratta di un ritardo dalle conseguenze gravissime. Tuttavia, grazie al cielo, qualcosa si muove e qualcuno si rimbocca le maniche. È il caso di Edmondo Bruti Liberati, procuratore capo di Milano. Qualche giorno fa, Bruti Liberati ha ricordato come il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa abbia sollecitato “i procuratori e i giudici a ricorrere, nella misura più larga possibile, alle misure alternative alla detenzione”: e ciò “sia in tema di misure cautelari che in fase di esecuzione”. Il procuratore è uomo saggio, e le sue parole sono assai importanti. Per questo sarebbe significativo sapere cosa egli pensi a proposito del numero chiuso. Ovvero il rilascio o la non ammissione in carcere di detenuti fino a quando non vi siano spazi adeguati a una reclusione che rispetti i loro diritti fondamentali. Non si tratta di questione campata in aria. Nel 2009 una Corte federale della California, di fronte a due ricorsi di reclusi contro le condizioni di detenzione, ha intimato al Governatore di ridurre la popolazione carceraria di un terzo entro due anni, altrimenti avrebbe potuto avvalersi del potere di rilascio individuale dei singoli ricorrenti. Ciò in ossequio all’ottavo emendamento della Costituzione statunitense, che vieta le pene crudeli. La Corte federale ha fatto riferimento alle parole dello stesso Governatore, che aveva riconosciuto come il sovraffollamento potesse causare gravi violazioni del diritto alla salute. Da qui un provvedimento che stabiliva un tetto al numero di reclusi. Nel 2011, la Corte suprema degli Stati Uniti, interpellata da un ricorso dello Stato della California, ha riconosciuto la correttezza della decisione di quella corte federale. In quello stesso anno, la Corte costituzionale tedesca si è pronunciata sul ricorso di un detenuto contro la Corte di appello di Colonia, che gli aveva negato il sostegno economico necessario ad attivare un procedimento relativo alle condizioni di carcerazione  cui era costretto. La Corte costituzionale ha richiamato una precedente sentenza della Corte federale di giustizia del 2010: in base a essa, se lo stato di reclusione è “disumano”, una volta che soluzioni diverse si rivelassero improponibili, l’esecuzione di una pena detentiva deve essere interrotta. Questo, in virtù di un principio fondamentale, sancito sia dalla Corte Federale sia dalla Corte costituzionale. Ovvero il valore della dignità della persona umana sempre e comunque: dunque anche in stato di privazione della libertà. Perfettamente d’accordo, il giurista italiano Luigi Ferrajoli: “il sovraffollamento contraddice due basilari principi della nostra Costituzione: quello secondo cui, come dice il 3° comma dell’art.27 “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità” e quello della “pari dignità sociale” di tutti, stabilito dall’art.3 capoverso. Contro una così clamorosa incostituzionalità c’è un solo, urgente rimedio: stabilire per legge il cosiddetto numero chiuso. I detenuti con pene o residui di pena detentiva di minore durata dovrebbero essere destinati, nel numero che eccede la capienza del nostro sistema penitenziario, a misure alternative, come la libertà vigilata o gli arresti domiciliari”. Ben detto.
l'Unità 19 gennaio 2013
Sovraffollamento, carceri a numero chiuso
Luigi Manconi
Che le carceri italiane siano un autentico schifo, nessuno pare metterlo in dubbio. E che, tra le cause di quell’intollerabile situazione, sia determinante l’abnorme sovraffollamento, è constatazione pressoché unanime.
In presenza di ciò, pertanto, impedire che altri detenuti patiscano la stessa condizione “inumana e degradante” non dovrebbe essere il provvedimento più naturale del mondo? E stabilire una sorta di “numero chiuso” non dovrebbe costituire la misura più ovvia, oltre che sacrosanta? Eppure, una simile ragionevole ipotesi non viene nemmeno presa in considerazione nel nostro paese. E così, mentre ampio sembra il consenso intorno alle strategie di lungo periodo (in primo luogo: riduzione del numero di atti e comportamenti qualificati come fattispecie penali e riduzione del numero delle fattispecie penali sanzionate col carcere), è assai più controversa la valutazione sulle misure da adottare nell’immediato: come l’amnistia e l’indulto e, appunto, “il numero chiuso”. Si tratta di un ritardo dalle conseguenze gravissime. Tuttavia, grazie al cielo, qualcosa si muove e qualcuno si rimbocca le maniche. È il caso di Edmondo Bruti Liberati, procuratore capo di Milano. Qualche giorno fa, Bruti Liberati ha ricordato come il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa abbia sollecitato “i procuratori e i giudici a ricorrere, nella misura più larga possibile, alle misure alternative alla detenzione”: e ciò “sia in tema di misure cautelari che in fase di esecuzione”. Il procuratore è uomo saggio, e le sue parole sono assai importanti. Per questo sarebbe significativo sapere cosa egli pensi a proposito del numero chiuso. Ovvero il rilascio o la non ammissione in carcere di detenuti fino a quando non vi siano spazi adeguati a una reclusione che rispetti i loro diritti fondamentali. Non si tratta di questione campata in aria. Nel 2009 una Corte federale della California, di fronte a due ricorsi di reclusi contro le condizioni di detenzione, ha intimato al Governatore di ridurre la popolazione carceraria di un terzo entro due anni, altrimenti avrebbe potuto avvalersi del potere di rilascio individuale dei singoli ricorrenti. Ciò in ossequio all’ottavo emendamento della Costituzione statunitense, che vieta le pene crudeli. La Corte federale ha fatto riferimento alle parole dello stesso Governatore, che aveva riconosciuto come il sovraffollamento potesse causare gravi violazioni del diritto alla salute. Da qui un provvedimento che stabiliva un tetto al numero di reclusi. Nel 2011, la Corte suprema degli Stati Uniti, interpellata da un ricorso dello Stato della California, ha riconosciuto la correttezza della decisione di quella corte federale. In quello stesso anno, la Corte costituzionale tedesca si è pronunciata sul ricorso di un detenuto contro la Corte di appello di Colonia, che gli aveva negato il sostegno economico necessario ad attivare un procedimento relativo alle condizioni di carcerazione  cui era costretto. La Corte costituzionale ha richiamato una precedente sentenza della Corte federale di giustizia del 2010: in base a essa, se lo stato di reclusione è “disumano”, una volta che soluzioni diverse si rivelassero improponibili, l’esecuzione di una pena detentiva deve essere interrotta. Questo, in virtù di un principio fondamentale, sancito sia dalla Corte Federale sia dalla Corte costituzionale. Ovvero il valore della dignità della persona umana sempre e comunque: dunque anche in stato di privazione della libertà. Perfettamente d’accordo, il giurista italiano Luigi Ferrajoli: “il sovraffollamento contraddice due basilari principi della nostra Costituzione: quello secondo cui, come dice il 3° comma dell’art.27 “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità” e quello della “pari dignità sociale” di tutti, stabilito dall’art.3 capoverso. Contro una così clamorosa incostituzionalità c’è un solo, urgente rimedio: stabilire per legge il cosiddetto numero chiuso. I detenuti con pene o residui di pena detentiva di minore durata dovrebbero essere destinati, nel numero che eccede la capienza del nostro sistema penitenziario, a misure alternative, come la libertà vigilata o gli arresti domiciliari”. Ben detto.
l'Unità 19 gennaio 2013
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