Quando un uomo viene ridotto a cosa
Luigi Manconi
Giuseppe Casu, ambulante sessantenne di Quartu Sant’Elena, morì il 26 giugno 2006 nel reparto psichiatrico dell’ospedale Santissima Trinità di Cagliari. Secondo i periti del tribunale, la causa del decesso non doveva attribuirsi a una trombo-embolia polmonare, come sostenuto dai medici dell’ospedale, bensì alle conseguenze della contenzione fisica cui Casu era stato sottoposto ininterrottamente per sei giorni. La contenzione- caviglie e polsi legati da cinghie, serrate ad un letto su cui viene immobilizzato il paziente-  mai può essere attuata “per  motivazioni di carattere disciplinare o per sopperire a carenze organizzative o per convenienza del personale sanitario”: se così fosse, secondo quei periti si tratterebbe né più né meno che di sequestro di persona. Ma il tribunale non ha accolto tale tesi e, nel luglio del 2012, ha assolto gli imputati : e la morte di Giuseppe Casu è stata considerata la conseguenza dell’adempimento di “un dovere professionale” da parte dei medici. Del tutto opposta la decisione del giudice del Tribunale di Vallo della Lucania che, due giorni fa, ha condannato sei medici del reparto psichiatrico dell’ospedale di quella città a pene tra i due e i quattro anni per sequestro di persona, morte in conseguenza di altro delitto e falso ideologico in atti pubblici. Per il tribunale, quei medici sono responsabili della morte di Franco Mastrogiovanni, maestro elementare di 58 anni, la cui vicenda è assai simile a quella di Casu. Sottoposto a Trattamento sanitario obbligatorio il 31 luglio del 2009, Mastrogiovanni, una volta sedato, è rimasto legato al letto di degenza per quasi quattro giorni, senza che venisse disposta alcuna adeguata assistenza per interrompere il suo progressivo stato di prostrazione fisica e psichica, senza slegargli i singoli arti nemmeno per brevi pause, senza offrirgli acqua e cibo. Un’agonia infinita, che non termina con la morte, perché- dopo la morte- il cadavere rimarrà con le caviglie e i polsi legati ancora per cinque ore. La sentenza ha riconosciuto che quella contenzione non era dovuta in alcun modo a esigenze di natura terapeutica e che si era risolta in un trattamento inumano e degradante, durato 82 ore. Un mese fa i familiari di Franco Mastrogiovanni avevano chiesto ad A Buon Diritto onlus di rendere pubblica, attraverso un canale online dell’Espresso, l’impressionante documentazione di quella sofferenza: il video, ripreso dalla telecamera di sorveglianza del reparto, che testimonia non solo delle condizioni di abbandono del paziente, ma anche dell’atteggiamento di 18 persone ( tra medici e infermieri) che , per quel tempo lunghissimo, non muovono un dito, non prestano soccorso, non si chinano sul paziente per offrirgli sollievo e cura. Quasi un apologo sulla “ banalità del male” e su come sia  possibile partecipare- tra indifferenza e subalternità, tra conformismo e stigmatizzazione del più debole- a un atto collettivo di mortificazione della persona e di sua riduzione a cosa. . Ora, la sentenza di Vallo della Lucania assume un’importanza notevole: viene affermato il principio che la contenzione può configurare, come nel caso di Mastrogiovanni e di chissà quanti altri, il sequestro di persona. Ovvero un’illegale privazione della libertà del paziente. La contenzione, quindi, non come terapia, ma come atto di violenza, al di fuori dei più elementari principi di assistenza e cura. Dunque, c’è da augurarsi che quel verdetto possa fare giurisprudenza al fine di prevenire quello che troppo spesso accade nei reparti psichiatrici del nostro paese, dove i letti di contenzione sono numerosi e- lo sospettiamo, lo temiamo, lo sappiamo- frequentemente utilizzati.
la Nuova sardegna 1 novembre 2012
Quando un uomo viene ridotto a cosa
Luigi Manconi
Giuseppe Casu, ambulante sessantenne di Quartu Sant’Elena, morì il 26 giugno 2006 nel reparto psichiatrico dell’ospedale Santissima Trinità di Cagliari. Secondo i periti del tribunale, la causa del decesso non doveva attribuirsi a una trombo-embolia polmonare, come sostenuto dai medici dell’ospedale, bensì alle conseguenze della contenzione fisica cui Casu era stato sottoposto ininterrottamente per sei giorni.
La contenzione- caviglie e polsi legati da cinghie, serrate ad un letto su cui viene immobilizzato il paziente-  mai può essere attuata “per  motivazioni di carattere disciplinare o per sopperire a carenze organizzative o per convenienza del personale sanitario”: se così fosse, secondo quei periti si tratterebbe né più né meno che di sequestro di persona. Ma il tribunale non ha accolto tale tesi e, nel luglio del 2012, ha assolto gli imputati : e la morte di Giuseppe Casu è stata considerata la conseguenza dell’adempimento di “un dovere professionale” da parte dei medici. Del tutto opposta la decisione del giudice del Tribunale di Vallo della Lucania che, due giorni fa, ha condannato sei medici del reparto psichiatrico dell’ospedale di quella città a pene tra i due e i quattro anni per sequestro di persona, morte in conseguenza di altro delitto e falso ideologico in atti pubblici. Per il tribunale, quei medici sono responsabili della morte di Franco Mastrogiovanni, maestro elementare di 58 anni, la cui vicenda è assai simile a quella di Casu. Sottoposto a Trattamento sanitario obbligatorio il 31 luglio del 2009, Mastrogiovanni, una volta sedato, è rimasto legato al letto di degenza per quasi quattro giorni, senza che venisse disposta alcuna adeguata assistenza per interrompere il suo progressivo stato di prostrazione fisica e psichica, senza slegargli i singoli arti nemmeno per brevi pause, senza offrirgli acqua e cibo. Un’agonia infinita, che non termina con la morte, perché- dopo la morte- il cadavere rimarrà con le caviglie e i polsi legati ancora per cinque ore. La sentenza ha riconosciuto che quella contenzione non era dovuta in alcun modo a esigenze di natura terapeutica e che si era risolta in un trattamento inumano e degradante, durato 82 ore. Un mese fa i familiari di Franco Mastrogiovanni avevano chiesto ad A Buon Diritto onlus di rendere pubblica, attraverso un canale online dell’Espresso, l’impressionante documentazione di quella sofferenza: il video, ripreso dalla telecamera di sorveglianza del reparto, che testimonia non solo delle condizioni di abbandono del paziente, ma anche dell’atteggiamento di 18 persone ( tra medici e infermieri) che , per quel tempo lunghissimo, non muovono un dito, non prestano soccorso, non si chinano sul paziente per offrirgli sollievo e cura. Quasi un apologo sulla “ banalità del male” e su come sia  possibile partecipare- tra indifferenza e subalternità, tra conformismo e stigmatizzazione del più debole- a un atto collettivo di mortificazione della persona e di sua riduzione a cosa. . Ora, la sentenza di Vallo della Lucania assume un’importanza notevole: viene affermato il principio che la contenzione può configurare, come nel caso di Mastrogiovanni e di chissà quanti altri, il sequestro di persona. Ovvero un’illegale privazione della libertà del paziente. La contenzione, quindi, non come terapia, ma come atto di violenza, al di fuori dei più elementari principi di assistenza e cura. Dunque, c’è da augurarsi che quel verdetto possa fare giurisprudenza al fine di prevenire quello che troppo spesso accade nei reparti psichiatrici del nostro paese, dove i letti di contenzione sono numerosi e- lo sospettiamo, lo temiamo, lo sappiamo- frequentemente utilizzati.
la Nuova sardegna 1 novembre 2012
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