Notti e nebbie (Carlo Castellaneta)
Luigi Manconi
Giuseppe Uva muore  il 14 giugno del 2008, nel reparto psichiatrico dell’ospedale di Circolo a Varese, giusto tre anni fa. Si trovava sotto trattamento sanitario obbligatorio, in stato etilico: e il personale gli somministrò degli psicofarmaci controindicati nella sua condizione, che – secondo l’accusa - ne avrebbero provocato il decesso. Era giunto nel pronto soccorso di quell’ospedale alle ore 5.48 di quel mattino, dopo aver passato lunghe ore nella caserma dei cabinieri di via Saffi. Qui era stato portato insieme all’amico Alberto Biggiogero perché sorpresi, in stato di ubriachezza, a disturbare la “quiete pubblica”. Biggiogero in un esposto presentato alla procura di Varese il giorno dopo, farà un racconto estremamente circostanziato. Lui si trova in una sala d’attesa, ma sa che Uva è stato portato in una stanza sulla destra rispetto all’ingresso della caserma. E, da dove è seduto, crede di distinguere le urla disperate dell’amico, intervallate dal suono di colpi sordi. Biggiogero tenta di uscire dalla sala d’attesa e percorrere il corridoio, ma viene bloccato da quattro agenti e dal piantone che lo atterrano e iniziano a picchiarlo. Nonostante questo, Alberto udirà distintamente le grida di Giuseppe per un’altra ora e mezza. A un certo punto un “carabiniere grosso”, mostrando ai colleghi una ferita alle dita della mano, dice: “sto pezzo di merda”. E poi, rivolgendosi a Biggiogero: “non preoccuparti, che dopo arriva anche il tuo turno”. Fortunatamente, dopo poco, Biggiogero viene lasciato solo. Ha ancora con sé il cellulare e chiama il 118. La seguente conversazione è agli atti dell’indagine:
B: Sì buonasera sono Biggiogero posso avere un’autolettiga qui alla caserma di via Saffi dei carabinieri?
118: Sì, cosa succede?
B: Eh, praticamente stanno massacrando un ragazzo.
118: Ma in caserma?
B: Eh sì.
118: Ho capito. Va bene adesso la mando eh.
B: Grazie.
118: Salve salve.
B: Salve.
L’uomo che risponde al centralino del 118, però, ritiene opportuno chiamare la caserma, prima di fare intervenire l’ambulanza:
Carabinieri: «Carabinieri»
118: «Sì salve, 118»
C: «Sì?»
118: «Mi hanno richiesto un’ambulanza. Non so mi ha chiamato un signore dicendo di mandare un’ambulanza lì da voi, me lo conferma?»
C: «No, ma chi ha chiamato scusi?»
118: «Un signore. Mi ha detto che lì stanno massacrando un ragazzo e che voleva un’ambulanza.»
C: «Un attimo che chiedo.»
(dopo qualche minuto)
C: «No guardi son due ubriachi che abbiamo qui in caserma, adesso gli tolgono il cellulare. Se abbiamo bisogno ti chiamiamo noi»
118: «Sì sì non ti preoccupare, ci mancherebbe, ho chiesto. Ciao ciao»
Dopodiché il carabiniere “grosso” torna nella stanza dove si trova Biggiogero e, prima di sequestrargli l’apparecchio, gli dice “qui il telefono si tiene spento, testa di cazzo, qui comandiamo noi”. Ovviamente l’ambulanza non arriva. Più tardi sopraggiunge  il padre di Biggiogero e il figlio coglie l’occasione per urlare di nuovo che stanno «massacrando» l’amico. Il carabiniere «grosso» gli restituisce il cellulare senza dire una parola, l’altro militare dice che, in realtà, è Uva a farsi del male da solo, sbattendo contro le sedie, la scrivania, gli stivali degli uomini presenti nella stanza (in alcune deposizioni dei militari, troviamo questo passaggio: «il collega frapponeva il suo stivale tra il pavimento e la testa di Uva, per evitare che questi si facesse più male urtando contro la superficie dura del pavimento»). Infine all’alba Uva viene portato al pronto soccorso e poi nel reparto psichiatrico dove morirà alle intorno alle 11. Da allora sono passati tre anni. In questo periodo un testimone decisivo come Biggiogero mai è stato ascoltato dalla Procura e , a quanto se ne sa, le indagini su quella notte in caserma non hanno fatto un solo passo avanti.  Attualmente è in corso il processo relativo alle responsabilità dei sanitari dell’ospedale. Una prima inchiesta per omicidio colposo vede imputati i due medici: quello del pronto soccorso e quello del reparto psichiatrico. Nell’udienza preliminare, il giudice decide il non luogo a procedere nei confronti del medico del pronto soccorso, in quanto a prescrivere gli psicofarmaci sarebbe stato un altro medico, la cui firma illeggibile non ne ha consentito l’identificazione. Ma risulta sorprendente che mesi di indagini non siano stati in grado di far emergere il nome di quel medico. E così resta indagato un solo sanitario. Il dibattimento prosegue, tra mille contraddizioni, tutte puntualmente evidenziate dagli avvocati della parte civile, Fabio Anselmo, Alessandra Pisa e Alessandro Gamberini. Ma ciò che anche questa fase processuale evidenzia con maggiore nitidezza è che l’indagine parte, grottescamente, dalla fine. Su quelle lunghe ore trascorse da Giuseppe Uva in caserma,  sembra che nessuno voglia sollevare il pesante velo che per  tre anni vi si è depositato.
17 giugno 2011 l'Unità
Notti e nebbie (Carlo Castellaneta)
Luigi Manconi
Giuseppe Uva muore  il 14 giugno del 2008, nel reparto psichiatrico dell’ospedale di Circolo a Varese, giusto tre anni fa. Si trovava sotto trattamento sanitario obbligatorio, in stato etilico: e il personale gli somministrò degli psicofarmaci controindicati nella sua condizione, che – secondo l’accusa - ne avrebbero provocato il decesso.
Era giunto nel pronto soccorso di quell’ospedale alle ore 5.48 di quel mattino, dopo aver passato lunghe ore nella caserma dei cabinieri di via Saffi. Qui era stato portato insieme all’amico Alberto Biggiogero perché sorpresi, in stato di ubriachezza, a disturbare la “quiete pubblica”. Biggiogero in un esposto presentato alla procura di Varese il giorno dopo, farà un racconto estremamente circostanziato. Lui si trova in una sala d’attesa, ma sa che Uva è stato portato in una stanza sulla destra rispetto all’ingresso della caserma. E, da dove è seduto, crede di distinguere le urla disperate dell’amico, intervallate dal suono di colpi sordi. Biggiogero tenta di uscire dalla sala d’attesa e percorrere il corridoio, ma viene bloccato da quattro agenti e dal piantone che lo atterrano e iniziano a picchiarlo. Nonostante questo, Alberto udirà distintamente le grida di Giuseppe per un’altra ora e mezza. A un certo punto un “carabiniere grosso”, mostrando ai colleghi una ferita alle dita della mano, dice: “sto pezzo di merda”. E poi, rivolgendosi a Biggiogero: “non preoccuparti, che dopo arriva anche il tuo turno”. Fortunatamente, dopo poco, Biggiogero viene lasciato solo. Ha ancora con sé il cellulare e chiama il 118. La seguente conversazione è agli atti dell’indagine:
B: Sì buonasera sono Biggiogero posso avere un’autolettiga qui alla caserma di via Saffi dei carabinieri?
118: Sì, cosa succede?
B: Eh, praticamente stanno massacrando un ragazzo.
118: Ma in caserma?
B: Eh sì.
118: Ho capito. Va bene adesso la mando eh.
B: Grazie.
118: Salve salve.
B: Salve.
L’uomo che risponde al centralino del 118, però, ritiene opportuno chiamare la caserma, prima di fare intervenire l’ambulanza:
Carabinieri: «Carabinieri»
118: «Sì salve, 118»
C: «Sì?»
118: «Mi hanno richiesto un’ambulanza. Non so mi ha chiamato un signore dicendo di mandare un’ambulanza lì da voi, me lo conferma?»
C: «No, ma chi ha chiamato scusi?»
118: «Un signore. Mi ha detto che lì stanno massacrando un ragazzo e che voleva un’ambulanza.»
C: «Un attimo che chiedo.»
(dopo qualche minuto)
C: «No guardi son due ubriachi che abbiamo qui in caserma, adesso gli tolgono il cellulare. Se abbiamo bisogno ti chiamiamo noi»
118: «Sì sì non ti preoccupare, ci mancherebbe, ho chiesto. Ciao ciao»
Dopodiché il carabiniere “grosso” torna nella stanza dove si trova Biggiogero e, prima di sequestrargli l’apparecchio, gli dice “qui il telefono si tiene spento, testa di cazzo, qui comandiamo noi”. Ovviamente l’ambulanza non arriva. Più tardi sopraggiunge  il padre di Biggiogero e il figlio coglie l’occasione per urlare di nuovo che stanno «massacrando» l’amico. Il carabiniere «grosso» gli restituisce il cellulare senza dire una parola, l’altro militare dice che, in realtà, è Uva a farsi del male da solo, sbattendo contro le sedie, la scrivania, gli stivali degli uomini presenti nella stanza (in alcune deposizioni dei militari, troviamo questo passaggio: «il collega frapponeva il suo stivale tra il pavimento e la testa di Uva, per evitare che questi si facesse più male urtando contro la superficie dura del pavimento»). Infine all’alba Uva viene portato al pronto soccorso e poi nel reparto psichiatrico dove morirà alle intorno alle 11. Da allora sono passati tre anni. In questo periodo un testimone decisivo come Biggiogero mai è stato ascoltato dalla Procura e , a quanto se ne sa, le indagini su quella notte in caserma non hanno fatto un solo passo avanti.  Attualmente è in corso il processo relativo alle responsabilità dei sanitari dell’ospedale. Una prima inchiesta per omicidio colposo vede imputati i due medici: quello del pronto soccorso e quello del reparto psichiatrico. Nell’udienza preliminare, il giudice decide il non luogo a procedere nei confronti del medico del pronto soccorso, in quanto a prescrivere gli psicofarmaci sarebbe stato un altro medico, la cui firma illeggibile non ne ha consentito l’identificazione. Ma risulta sorprendente che mesi di indagini non siano stati in grado di far emergere il nome di quel medico. E così resta indagato un solo sanitario. Il dibattimento prosegue, tra mille contraddizioni, tutte puntualmente evidenziate dagli avvocati della parte civile, Fabio Anselmo, Alessandra Pisa e Alessandro Gamberini. Ma ciò che anche questa fase processuale evidenzia con maggiore nitidezza è che l’indagine parte, grottescamente, dalla fine. Su quelle lunghe ore trascorse da Giuseppe Uva in caserma,  sembra che nessuno voglia sollevare il pesante velo che per  tre anni vi si è depositato.


17 giugno 2011 l'Unità
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