Politicamente correttissimo
Revisionismo poetico
Luigi Manconi
Oh, ce ne fosse uno che si astenga, che si morda la punta della lingua e la mano, che si trattenga sull’orlo dell’abisso del luogocomunismo, invece di precipitarvi per attrazione fatale. Oh, ce ne fosse uno che durante l’ultima settimana -davanti al richiamo iconografico del carabiniere- Pecorella e del manifestante- Lupo- non abbia fatto ricorso alla poesia di Pier Paolo Pasolini, Il Pci ai giovani. È da quarant’anni che va avanti così,  attraverso la perpetuazione di uno stereotipo che suona pressappoco come segue: nella contrapposizione tra studenti e forze dell’ordine si manifesterebbe, secondo Pasolini, il conflitto tra la piccola e media borghesia privilegiata e consumista, che si riconosce nel movimento detto “del ‘68”, da una parte; e, dall’altra, il proletariato e il sottoproletariato identificati nell’immigrato meridionale, fattosi poliziotto per sopravvivere in qualche modo. E Pasolini prenderebbe, infallibilmente, le parti di quest’ultimo in odio ai contestatori “figli di papà”. E se la realtà fosse diversa? E se quello fosse davvero uno stereotipo? Su suggerimento di Davide Ferrario, ho provato a indagare e ho scoperto agevolmente che lo stesso autore di quella poesia ne volle dare una interpretazione tutt’affatto diversa. Il poeta, sul Tempo del 17 maggio del 1969, scrisse che “Nessuno (...) si è accorto” che i versi iniziali erano “solo una piccola furberia oratoria paradossale, per richiamare l’attenzione del lettore (...) su ciò che veniva dopo (...) dove i poliziotti erano visti come oggetti di un odio razziale a rovescio, in quanto il potere (...) ha la possibilità di fare di questi poveri degli strumenti  (...). Nessuno dei consumatori di quella poesia si è soffermato su questo e tutti si sono fermati al primo paradosso introduttivo”. Dunque, secondo Pasolini, il significato di quei versi sarebbe stato travisato da letture interessate. Ma tali letture hanno funzionato assai bene se, per quarant’anni e fino a pochi giorni fa ( e non mi illudo: anche nei prossimi mesi e anni), ha dominato una falsa rappresentazione. Ossia lo studente  che manifesta per noia o per futili motivi, e il rappresentante delle forze dell’ordine che, appunto, rappresenta le ragioni della legge e dello Stato. Ma è, come si è visto, lo stesso Pasolini a rovesciare una simile lettura e a dirci quale sia il senso vero –poetico e politico- di quella poesia. L’affermazione, cioè, che è il “potere” il primo responsabile di un conflitto dove “i poveri”(i poliziotti, in questo caso) sono ridotti a “strumenti”. Certo, si può maliziosamente ipotizzare che questa “lettura autentica” a opera dello stesso Pasolini fosse ispirata anche dalla preoccupazione per le reazioni, talvolta assai aspre, che la sua poesia aveva determinato. Ma, a questo punto, soccorre Lanfranco Bolis, che mi legge per telefono alcune frasi di Pasolini, contestuali alla prima pubblicazione della poesia sull’Espresso del 16 giugno 1968 (quasi un anno prima dell’articolo sul “Tempo”) e Francesco Gentiloni provvede tempestivamente a farmi arrivare quelle pagine del settimanale. L’anticipazione della poesia, destinata  a ”Nuovi Argomenti” è accompagnata da un dibattito, diretto da Nello Ajello, tra  lo stesso Pasolini, Vittorio Foa, allora segretario della Cgil, Claudio Petruccioli, allora segretario nazionale della Fgci, e “due delegati del movimento studentesco” che, precisa il giornale, “si sono limitati a leggere una dichiarazione” (dove si dice, tra l’altro, che “un discorso ed un’azione politica rivoluzionaria dovrebbero svolgersi non nella sede dell’ ’Espresso’ ma sulle barricate e nelle fabbriche occupate”). La discussione risulta, a quasi quarantacinque anni di distanza, molto interessante. E il ragionamento di Pasolini sulla “piccola borghesia” anticipa di anni quello che, poi, svilupperà Hans M. Enzensberger. Lo sguardo di Pasolini è acuminato e il suo discorso è complesso e talvolta contraddittorio, ma sempre assai profondo. Nel merito, le sue parole –ripeto: contestuali alla prima pubblicazione- sono eloquenti: “si tratta d’una poesia brutta, cioè non chiara. Questi brutti versi io li ho scritti su più registri contemporaneamente: e quindi sono tutti ‘sdoppiati’ cioè ironici e autoironici. Tutto è detto come tra virgolette”. E ancora: “il pezzo sui poliziotti è un pezzo di ‘ars retorica’ (…)  il vero bersaglio della mia collera non sono tanto i giovani, che ho voluto provocare per suscitare con essi un dibattito franco e fraterno; l’oggetto del mio disprezzo sono quegli adulti, quei miei coetanei, che si ricreano una specie di verginità  adulando i ragazzi”. Sia chiaro. Qui non si vuole dire, per carità, che Pasolini stesse invece dalla parte degli studenti contestatori: ma è certo che qualunque lettura che trascuri il dato fondamentale – Il Pci agli studenti è una poesia- risulta gravemente deformante. Pasolini ne era così consapevole che, in quello stesso dibattito, arrivò a dire:“che la mia poesia venga fraintesa non m’importa niente”. Non sapeva, Pasolini, che quel fraintendimento sarebbe andato avanti per quasi mezzo secolo.
Il Foglio 6 marzo 2012
Politicamente correttissimo
Revisionismo poetico
Luigi Manconi
Oh, ce ne fosse uno che si astenga, che si morda la punta della lingua e la mano, che si trattenga sull’orlo dell’abisso del luogocomunismo, invece di precipitarvi per attrazione fatale. Oh, ce ne fosse uno che durante l’ultima settimana -davanti al richiamo iconografico del carabiniere- Pecorella e del manifestante - Lupo - non abbia fatto ricorso alla poesia di Pier Paolo Pasolini, Il Pci ai giovani.
È da quarant’anni che va avanti così,  attraverso la perpetuazione di uno stereotipo che suona pressappoco come segue: nella contrapposizione tra studenti e forze dell’ordine si manifesterebbe, secondo Pasolini, il conflitto tra la piccola e media borghesia privilegiata e consumista, che si riconosce nel movimento detto “del ‘68”, da una parte; e, dall’altra, il proletariato e il sottoproletariato identificati nell’immigrato meridionale, fattosi poliziotto per sopravvivere in qualche modo. E Pasolini prenderebbe, infallibilmente, le parti di quest’ultimo in odio ai contestatori “figli di papà”. E se la realtà fosse diversa? E se quello fosse davvero uno stereotipo? Su suggerimento di Davide Ferrario, ho provato a indagare e ho scoperto agevolmente che lo stesso autore di quella poesia ne volle dare una interpretazione tutt’affatto diversa. Il poeta, sul Tempo del 17 maggio del 1969, scrisse che “Nessuno (...) si è accorto” che i versi iniziali erano “solo una piccola furberia oratoria paradossale, per richiamare l’attenzione del lettore (...) su ciò che veniva dopo (...) dove i poliziotti erano visti come oggetti di un odio razziale a rovescio, in quanto il potere (...) ha la possibilità di fare di questi poveri degli strumenti  (...). Nessuno dei consumatori di quella poesia si è soffermato su questo e tutti si sono fermati al primo paradosso introduttivo”. Dunque, secondo Pasolini, il significato di quei versi sarebbe stato travisato da letture interessate. Ma tali letture hanno funzionato assai bene se, per quarant’anni e fino a pochi giorni fa ( e non mi illudo: anche nei prossimi mesi e anni), ha dominato una falsa rappresentazione. Ossia lo studente  che manifesta per noia o per futili motivi, e il rappresentante delle forze dell’ordine che, appunto, rappresenta le ragioni della legge e dello Stato. Ma è, come si è visto, lo stesso Pasolini a rovesciare una simile lettura e a dirci quale sia il senso vero –poetico e politico- di quella poesia. L’affermazione, cioè, che è il “potere” il primo responsabile di un conflitto dove “i poveri”(i poliziotti, in questo caso) sono ridotti a “strumenti”. Certo, si può maliziosamente ipotizzare che questa “lettura autentica” a opera dello stesso Pasolini fosse ispirata anche dalla preoccupazione per le reazioni, talvolta assai aspre, che la sua poesia aveva determinato. Ma, a questo punto, soccorre Lanfranco Bolis, che mi legge per telefono alcune frasi di Pasolini, contestuali alla prima pubblicazione della poesia sull’Espresso del 16 giugno 1968 (quasi un anno prima dell’articolo sul “Tempo”) e Francesco Gentiloni provvede tempestivamente a farmi arrivare quelle pagine del settimanale. L’anticipazione della poesia, destinata  a ”Nuovi Argomenti” è accompagnata da un dibattito, diretto da Nello Ajello, tra  lo stesso Pasolini, Vittorio Foa, allora segretario della Cgil, Claudio Petruccioli, allora segretario nazionale della Fgci, e “due delegati del movimento studentesco” che, precisa il giornale, “si sono limitati a leggere una dichiarazione” (dove si dice, tra l’altro, che “un discorso ed un’azione politica rivoluzionaria dovrebbero svolgersi non nella sede dell’ ’Espresso’ ma sulle barricate e nelle fabbriche occupate”). La discussione risulta, a quasi quarantacinque anni di distanza, molto interessante. E il ragionamento di Pasolini sulla “piccola borghesia” anticipa di anni quello che, poi, svilupperà Hans M. Enzensberger. Lo sguardo di Pasolini è acuminato e il suo discorso è complesso e talvolta contraddittorio, ma sempre assai profondo. Nel merito, le sue parole –ripeto: contestuali alla prima pubblicazione- sono eloquenti: “si tratta d’una poesia brutta, cioè non chiara. Questi brutti versi io li ho scritti su più registri contemporaneamente: e quindi sono tutti ‘sdoppiati’ cioè ironici e autoironici. Tutto è detto come tra virgolette”. E ancora: “il pezzo sui poliziotti è un pezzo di ‘ars retorica’ (…)  il vero bersaglio della mia collera non sono tanto i giovani, che ho voluto provocare per suscitare con essi un dibattito franco e fraterno; l’oggetto del mio disprezzo sono quegli adulti, quei miei coetanei, che si ricreano una specie di verginità  adulando i ragazzi”. Sia chiaro. Qui non si vuole dire, per carità, che Pasolini stesse invece dalla parte degli studenti contestatori: ma è certo che qualunque lettura che trascuri il dato fondamentale – Il Pci agli studenti è una poesia- risulta gravemente deformante. Pasolini ne era così consapevole che, in quello stesso dibattito, arrivò a dire:“che la mia poesia venga fraintesa non m’importa niente”. Non sapeva, Pasolini, che quel fraintendimento sarebbe andato avanti per quasi mezzo secolo.
Il Foglio 6 marzo 2012
Share/Save/Bookmark
Commenti (0)
Commenta
I tuoi dettagli:
Commento:
Security
Inserisci il codice anti-spam che vedi nell'immagine.