Morale e contesto
La lotta cinica al puritanesimo che diventa estetica del trash, il riscatto del Vecchioni operaista
Luigi Manconi

Politicamente correttissimo
1.Giuliano Ferrara è, in forma iperbolica,ciò che qualcuno ebbe la bonomia di dire di me: o serioso o cazzaro. Modestamente. Mi capita,così,di concordare con lui,almeno in prima istanza,proprio su ciò che appare più deperibile e cialtronesco e,appunto, cazzaro nel suo articolo sul Foglio di ieri.
In sostanza Ferrara spiega la sua rinnovata dedizione a Silvio Berlusconi con due argomenti così riassumibili:A) Gli avversari di Berlusconi sono tristi e “cupi”;B)Berlusconi è l’arci -arci- arcitaliano , che impersona al meglio (ovvero al peggio) tutti i vizi, le ignominie e le bassezze del carattere nazionale. Pertanto,si può dire che  amare Berlusconi  è amare l’Italia.Non amarlo significa”non sapere com’è fatta l’Italia, come sono disposti sulla scacchiera della nostra altissima spiritualità politica i vari elisir d’amore , le danze allegre e ruffiane, i dialoghi da commedia dell’arte”. E’ ovvio che c’è qualcosa di suggestivo in questa interpretazione. Ma l’articolo rivela, tra sostantivi impetuosi e aggettivi enfatici,il suo limite fatale: emerge nitidamente, cioè, come si tratti di una esercitazione letteraria e nulla più.Divertente, ma viziata dal fatto di non rispecchiare più  alcuna relazione,la più esile, tra cose e parole. Ed è lì, nel mancato rapporto tra l’oggetto e il suo nome, che cresce il moralismo.Che non è esclusiva prerogativa degli avversari di Berlusconi in quanto “Tartufi”. C’è un moralismo perfino peggiore che è proprio del cinismo come postura,come piega dei pantaloni e pochette candida, come tic modaiolo.L’ingaglioffirsi può essere, sì, un atto morale, può corrispondere a una ricerca audace  dell’umano laddove sembra dileguarsi, può sprofondare negli abissi del male per conoscerlo e farsene una ragione. E può essere, all’opposto,la vanagloria del trucido e l’estetica del trash. O mero dèco in versione La Rinascente.Sia chiaro tutte cose buffe, ma terribilmente mondane e, soprattutto, infinitamente noiose. Il “brio” evocato da Ferrara diventa spiritosaggine da barzellettiere per edicola ferroviaria, dove non c’è, non dico Gino Bramieri, ma nemmeno Enrico Beruschi. L’ironia da caserma, priva della sguaiataggine selvatica e sottoproletaria dei militari di leva, si deve accontentare delle risatacce di un di Ignazio La Russa che imita Fiorello che imita Ignazio La Russa. La comicità parrocchiale, non più animata dalla ridanciana spavalderia della Gioventù Italiana di Azione Cattolica, deve sorridere delle soavità di Sandro Bondi. Tutto, insomma, si riduce a sottoletteratura: e dietro non c’è alcunché.Non c’è il dramma che merita rispetto e nemmeno la vita che sollecita attenzione. La disperata vitalità pasoliniana si fa malinconico vitalismo,simile a  quello delle mature signore con il personal trainer.Ferrara si è re –innamorato di Berlusconi, credendo di innamorarsi dell’Italia e della sua residua energia: coraggio e creatività,resistenza e fantasia. Ma di tutto ciò Berlusconi non è più(se mai lo è stato) espressione, e nemmeno maschera. E in quel “ perché non son io con Lele Mora” non c’è caro Ferrara, il gusto fassbinderiano dell’abbrutimento volontario, bensì  il brivido piccolo borghese dei mesti avventori di Cencio La Parolaccia.
2. Roberto Vecchioni non mi piace proprio, eppure quel “l’operaio che ha perso il suo lavoro” nella canzone e che vince il festival di Sanremo, non può non essere apprezzato da una rubrica che ha per titolo  “Politicamente correttissimo”. Ciò che conta è sempre, come direbbe Monsignor Rino Fisichella, “il contesto”: e quelle parole, nell’universo linguistico di Sanremo, hanno il suono prepotente della realtà. Ma, checché se ne dica, gli operai ci sono sempre stati, al festival. Nel 1970,per esempio, in una maniera che ancora suscita curiosità.Quell’anno Adriano Celentano e Claudia Mori cantano “chi non lavora non fa l’amore”  e la canzone viene letta , da allora, come espressione dell’incapacità degli autori di musica leggera di adeguarsi ai cambiamenti del senso comune nazionale,proprio nel pieno  di una intensa stagione  di lotte operaie. Probabilmente si trattava, invece, dell’esatto contrario. In”chi non lavora…” si avvertiva che appunto “la festa appena cominciata” era “già finita”( così Sergio Endrigo in “Canzone per te”, vincitrice del festival nel 1968);e che i grandi movimenti collettivi cedevano il passo all’incertezza e alla stanchezza, incontravano resistenze e ostilità, cominciavano a produrre contraddizioni intergenerazionali e interpersonali: la lotta “non pagava” più, o pagava meno. Il ciclo della conflittualità sociale, dopo aver raggiunto il suo picco, cominciava a declinare, a perdere consensi e, soprattutto, a veder esaurirsi la propria egemonia “morale” sulle relazioni collettive. La prima opposizione si manifestava  in ambito familiare e, comunque, era lì, nella sfera della vita privata, che Celentano poteva coglierla e riproporla. Egli avvertiva,istintivamente, che la lotta di classe si faceva lotta tra i sessi, conflitto genitale, scontro tra amplesso e rifiuto: e che il “te la do” o “non te la do” esprimeva, tra l’altro, una competizione economica. Marxisticamente.
il Foglio 22 febbraio 2011
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