Politicamente correttissimo
Bramieri o il Cav.
In fatto di barzellette e comicità bisogna essere seri, il premier ha compromesso la categoria
Luigi Manconi
La questione della barzelletta, come peraltro tutti i derivati e le articolazioni della categoria del comico, è roba serissima.
Tanto seria che, per dirne una, non mi capita mai di definire “barzelletta!” - come spesso molti fanno - un discorso o un atto che si rivelino poco credibili. La barzelletta è tutt’altra cosa. Silvio Berlusconi esprime una vera voracità nei confronti delle barzellette anche perché sembra affidare loro una funzione pedagogico-politica. La barzelletta, ha detto, “crea una situazione di serenità e aiuta a trovare la concordia nei summit internazionali” (13maggio2010); e contribuisce a “stringere amicizie e patti politici” (11 febbraio 2009). Con ciò, la barzelletta è bella che fritta. Per definizione, infatti, essa è libera. Priva di qualunque finalità e di qualunque mandato, totalmente gratuita e totalmente immotivata.  È  forse proprio questo – l’attribuzione di uno scopo – a spiegare quella certa stanchezza che rivela il recente repertorio berlusconiano. Eppure, il barzellettiere professionista è un raccoglitore, ma soprattutto un selezionatore, del flusso ininterrotto di storielle che gli viene riversato infaticabilmente nelle orecchie. E la barzelletta è – com’è noto - un genere letterario tra gli altri e risponde a un canone definito. Il suo dispositivo comico è fondato su un movimento a elastico, che porta all’estremo, talvolta fino al parossismo, l’enfasi su un tratto caratteriale o fisiognomico, culturale o regionale-etnico, per poi lasciarlo ricadere inerzialmente laddove sopraggiunge la risata. Senza mai una vera rottura o un radicale ribaltamento di senso. Si pensi alla traiettoria percorsa dalle barzellette sui carabinieri, coltivate per un secolo con un misto di circospetta prudenza e di volontà derisoria. A metà degli anni ’70, fu la casa editrice già trozkista, la Savelli, a inventare un marchio di comodo per pubblicare una serie infinita di volumetti dedicati alle imprese dell’Arma.  A distanza di alcuni decenni, è stata la stessa Arma a fare di quelle barzellette una strategia di appeasement verso l’opinione pubblica. Per lungo tempo il repertorio di Berlusconi è stato, come si dice, “radicato sul territorio”, ispirato dal sistema di valori e dalle tipologie umane lì prevalenti, fortemente debitore della grande tradizione comica settentrionale e, in particolare, di due attori diversissimi per estrazione culturale e per stile interpretativo: Gino Bramieri e Walter Chiari. Con loro la barzelletta diventa rapporto sociale. In un duplice senso: come forma narrativa della vita quotidiana e come scambio interpersonale. Ovvero come racconto sociale dei caratteri umani e delle dinamiche collettive e come linguaggio condiviso, capace di avvicinare i gusti e le preferenze, gli stili di vita e le motivazioni del disagio e del piacere. In altri termini, la barzelletta diventa una elementare chiave di interpretazione della società, che cerca soluzioni semplici a questioni complicate (i caratteri, gli handicap, le diseguaglianze, i costumi, le identità…). E lo fa a partire da un punto di vista bonariamente unilaterale e arbitrario. In Bramieri, ciò avviene all’interno di uno scenario di rispettabilità medio-borghese, vissuta come orizzonte ideale da parte di ceti che beneficiano del boom economico; in Chiari, attore geniale, quella stessa cultura risulta percorsa da una insoddisfazione latente e da una irrequietezza nevrotica. Ma anche negli interpreti più dotati, la barzelletta rivela un limite insuperabile, che è poi la sua vera forza. Il suo linguaggio non può aspirare a essere universale: è sempre segnato da un tratto peculiare che ne enfatizza la parzialità. Un tratto regionale  o culturale, sociale o addirittura politico. Non a caso, la sola classificazione pssibile è quella per grandi categorie (carabinieri, balbuzienti, omosessuali, ciechi, cornuti, preti, ebrei, genovesi, siciliani, sardi, quelli di Milano,  quelli di Roma, scozzesi, russi…) e, necessariamente, i bersagli variano a seconda del luogo dove viene raccontata e degli ascoltatori ai quali è destinata. E infatti la “barzelletta”, chiamiamola così di Umberto Bossi (e SONO PORCI QUESTI ROMANI), tanto sdegnosamente riprovata, ha avuto uno straordinario successo nel luogo – nonroma - dove è stata raccontata (Lazzate, Monza) e tra gli ascoltatori non romani. Ma quella “barzelletta” o è la più sesquipedale delle cretinate da prima elementare o è una invettiva anticentralista. Per i leghisti, evidentemente, va bene in ogni caso. Mentre le barzellette di Berlusconi sono parte della comunicazione del capo del Governo: la loro parzialità, contro gli ebrei, contro i cristiani, contro le donne, compromette l’autorevolezza morale del premier, come espressione dell’unità del paese. Ma soprattutto compromette la barzelletta come libera espressione della categoria del comico. La usura e la logora. La fa apparire come un espediente del discorso pubblico e un sottoprodotto del linguaggio politico. E tuttavia sbaglia Walter Veltroni quando dice che la barzelletta anti-semita di Berlusconi “non fa ridere nessuno”. Almeno uno si è scompisciato: Giuseppe Ciarrapico.    
Il Foglio 5 ottobre 2010
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