Politicamente correttissimo
Il maleFatto
Perché un quotidiano diretto da un non forcaiolo s'ispira a Grillo in materia di carceri e giustizia?
Luigi Manconi
Ma com’è possibile che un quotidiano importante e serio come il Fatto affronti la questione
cruciale, e terribilmente politica, del carcere quale precipitato dolente e oltraggioso della crisi del
sistema della giustizia, nella maniera in cui l’affronta?
Stupisce che un giornale, guidato da un direttore intelligente e non forcaiolo come Antonio Padellaro, al fine di criticare la norma che prevede un più ampio ricorso agli arresti e alla detenzione in regime domiciliare, ricorra al seguente argomento: “da che mondo è mondo i delinquenti sognano di scontare la pena ‘in luogo diverso dal carcere’. Possibilmente a casa propria” (mercoledì 25 gennaio). E perché allora non aggiungere anche: “da che mondo è mondo l’uomo è una bestia”? E magari: “da che mondo è mondo la femmina è un po’ mignotta”? Insomma, ci sarebbero argomenti di tempra migliore, più raffinati e soprattutto più robusti, per contestare i provvedimenti proposti dal ministro della Giustizia e dal Parlamento. Dunque, è mai possibile che una questione così significativa e dalle implicazioni etiche così profonde - l’idea stessa di pena e della sua esecuzione - venga sempre buttata in caciara? O, al più, trattata con argomenti di cortissimo respiro, quando non falsi, e tutti ispirati a una visione angusta e strumentale? Ma è possibile che per una qualche parte della sinistra le categorie giuridiche e i riferimenti ideali siano sempre quelli di giureconsulti della levatura di Beppe Grillo e Antonio Di Pietro? Ho parlato di implicazioni etiche non a caso: “ da che mondo è mondo” ci si interroga sul significato della pena, sulla sua fondazione giuridica e morale e
sulle sue finalità. Dunque una pena equa e certa è l’esito di molte esigenze e di altrettanti vincoli. Non sola retribuzione simbolica né esclusivamente prevenzione generale, la pena deve rispondere in ogni caso a una sua moralità interna, dove proporzionalità ed efficacia, moderazione e flessibilità costituiscano condizioni ineludibili. E non allo scopo di umanizzare la pena (che è l’obiettivo minimo da perseguire), bensì di renderla coerente con i suoi presupposti e i suoi requisiti, che sono quelli propri di una sanzione legale. La quale, del resto, se venisse indirizzata solo verso l’afflittività, anziché verso il principio del reinserimento sociale, rischierebbe “di strumentalizzare l'individuo per fini generali di politica criminale (prevenzione generale) o di privilegiare la soddisfazione di bisogni collettivi di stabilità e sicurezza (difesa sociale), sacrificando il singolo attraverso l'esemplarità della sanzione” ( Corte cost., sent. 313/90). D’altra parte già Hobbes affermava che "nel comminare le pene non bisogna preoccuparsi del male ormai passato, ma del bene futuro: cioè non è lecito punire se non con lo scopo di correggere il peccatore o di migliorare gli altri con l'ammonimento della pena inflitta”. Ne discendono conseguenze assai concrete. E ne discende, ad esempio, il fatto che la permanenza coatta in situazione domiciliare (in arresto prima del processo, in detenzione dopo) è, né più né meno, che una forma di reclusione. Ovvero di privazione della libertà. Di conseguenza, una delle misure massimamente afflittive previste dalla nostra Costituzione, dai nostri codici e dalla giurisprudenza. Tutto il resto è superfluo: e, nel diritto, ciò che è superfluo è di danno.

31 gennaio 2012
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Commenti (2)
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