A PROPOSITO DI GIUSTIZIALISMO
Luigi Manconi


1. Moralismo immorale
Anch’io, nel mio piccolo, ho trovato buoni argomenti (e antifascisti)per difendere Conso e Mancino
Luigi Manconi
Uno come me, nell’ascoltare la Grande Narrazione della Trattativa mafia-Stato, non può restare indifferente. L’effetto di suggestione che quel racconto trasmette è insinuante e seducente: difficile, dunque, resistergli. In Italia le teorie del complotto sono proiezioni paranoiche di una materia reale e fattuale più spessa e torbida di quanto lo sia in altri paesi. Insomma, dietro l’ideologia e la favolistica della macchinazione c’è la materialità di mille intrighi veri, effettivamente tentati, raramente riusciti, ma spesso comunque pericolosi. Discernere, pertanto, non è facile: e il procuratore Antonio Ingroia avrà pure molti difetti – una loquacità quasi logorroica e una sicumera quasi oltraggiosa – ma è, certamente, un ottimo investigatore. Per mettere in discussione le conclusioni alle quali è giunto e, tra esse, l’iscrizione nel registro degli indagati di Giovanni Conso e Nicola Mancino non è sufficiente, quindi, la simpatia umana che provo nei confronti di questi ultimi; e nemmeno la sensazione di elaborazione letteraria che l’intera ricostruzione sembra evocare. È forte la tentazione, di conseguenza, di affidarsi alla formula consueta, un po’ pigra e un po’ codarda: lasciamo che la giustizia faccia il suo corso. Ma ecco intervenire una riflessione, equilibrata e pacata, di Giovanni Fiandaca, che consente di approfondire le cose. Ordinario di diritto penale a Palermo, Fiandaca è stato membro del Csm (1994-1998) e presidente della Commissione ministeriale per la redazione di un testo unico in tema di contrasto alla criminalità organizzata. Fiandaca è notoriamente uomo di sinistra e la cosa,  per una scombicherata associazione mentale, mi ha fatto venire in mente un brano dei 99Posse (Rigurgito antifascista). Da tempo, mi sembra di notare che la più accaldata mobilitazione giustizialista e, per quanto riguarda la lotta alle mafie, la più sgangherata agitazione “contro le complicità e le connivenze”, provengono da destra. Da quella tradizionale (Storace e Di Pietro) e da quella recente (Travaglio e Grillo). E così, ecco che mi viene “un rigurgito di sinistra” e leggo d’un fiato, e con crescente consolazione, le parole - riportate da siciliainformazioni.com - di un uomo come Giovanni Fiandaca che, con la destra, mai ha avuto a che fare.  (Può  sembrare un ragionamento un po’ meschinello, ma ogni tanto bisogna pur levarsi qualche soddisfazione). Scrive Fiandaca, a proposito di quello che viene considerato un indizio particolarmente significativo di una attività negoziale tra esponenti politici e capi mafiosi: “la scelta di non rinnovare i decreti del 41 bis per un certo numero di mafiosi” rientra “nella discrezionalità del governo e del parlamento essendo un atto squisitamente politico, quindi di alcuna rilevanza penale”. D’altra parte, “non abbiamo la prova provata, ma abbiamo elementi che consentono di escludere nel complesso l’ipotesi di una scelta di ammorbidimento della strategia antimafia come  conseguenza di un patto fra Stato e mafia”. Ma soprattutto – è questo l’interrogativo di fondo posto da Fiandaca – “siamo sicuri che il processo penale sia la strada corretta per ricostruire la verità storica di venti anni fa? Il processo penale punta al reato e alla punizione del colpevole. E fra gli indagati, non ci sono grandi criminali. Il timore dell’indagine e delle sue conseguenze non incentiva a dire le cose come stanno nel processo, che resta uno strumento troppo ‘aggressivo’ ai fini del raggiungimento della verità storica”. E infatti, secondo il docente di diritto penale, “coloro che vissero quelle giornate  dovettero in perfetta buona fede affrontare il problema – la strategia da adottare – tenendo conto dei pericoli di una generale proposizione del 41 bis a tutti i mafiosi, a prescindere dalla loro pericolosità e caratura. Il bilanciamento delle due esigenze – la sicurezza dello Stato e la guerra alla mafia – era difficile da individuare una volta per tutte, sicché errori o omissioni, dettate da bisogni contrapposti suggeriscono di guardare alla scelta compiuta – in ogni caso politicamente legittima –  senza emettere condanne morali o penali”. Infine, se venisse confermato un qualche ruolo di Massimo Ciancimino in quella complicatissima trattativa (è lui stesso ad affermarlo), perché mai – si chiede Fiandaca – il figlio dell’ex sindaco di Palermo non è stato indagato per concorso esterno? Ma il cuore della questione sta palesemente altrove. E risiede, credo, in questo moralismo immorale, in questa furia giustizialista, sguaiata cinica, in questa foia epuratrice che sembra compiacersi oscenamente del fatto che la schiera dei sospettati, e dei futuri epurati, si allunghi indefinitivamente. Non è così singolare: fare di ogni erba un fascio, è tentazione fascistica, propria del carattere nazionale e di un certo spirito del tempo. E qui suonano provvidenziali le parole di Nello Rossi, procuratore aggiunto di Roma, tra i fondatori di Magistratura democratica, che ha voluto testimoniare della “esemplare rettitudine di Giovanni Conso”. Anch’io, nel mio piccolo.


2. Travaglio o Saviano
Il moralismo conventicolare del mozzorecchi produce cattiva scrittura, altro che “Gomorra”
Luigi Manconi
Credo di aver capito, infine, perché Roberto Saviano scriva così bene e perché Marco Travaglio scriva così male. Sia chiaro: la scrittura di quest’ultimo ha un enorme successo e, dunque, piace, piace tantissimo. Innanzitutto perché è sommamente corriva, blandisce i più consolidati stereotipi e titilla quel senso comune che (sintetizzo brutalmente Antonio Gramsci) è la negazione del buon senso. Insomma, rassicura e conforta.
In più, quella scrittura ricorre a un umorismo consolatorio, che mai sorprende e inquieta. Il paradigma comico cui si ispira è quello conservatore e “settentrionale”, di un Gino Bramieri, cui sia capitato di leggere il Candido degli anni ’70 diretto da Giorgio Pisanò, intrecciando la giocondità piccolo borghese all’invettiva strozzata. (Ma Pisanò aveva anche colpi di genio e, a proposito di un capo socialista, titolava: “Si scrive leader, si legge lader”). Nulla della sregolatezza anarcoide di un Walter Chiari: qui siamo nello spazio linguistico di un cinismo faceto, forse efficacissimo, eppure dannatamente conventicolare. Qui, soprattutto, non c’è mai il dramma, mai la durezza della contraddizione radicale e l’asprezza del dilemma etico. C’è al più l’esercizio petulante della criticuccia, l’elenco acido dei vizi altrui, il livore che si soddisfa nel cogliere qualcuno in fallo, tanto più se quel qualcuno sia (sia stato) affine e sodale. Non a caso lo sdegno si concentra pressoché interamente sulla corruzione, piccola media grande (significativo quel titolo del Fatto: “un Paese di ladri”) e non sull’ingiustizia; e si focalizza su intrighi, trame e macchinazioni e non sulle sofferenze reali e sulle diseguaglianze materiali e sociali: la precarietà e la privazione della libertà; e i cassintegrati e i detenuti, i profughi e gli internati, i tossicomani e i malati di mente. Nulla di tutto ciò nelle prosa giustizialista: prevale una polemica infraborghese e, si potrebbe dire, di regime. È come se fossimo in una brillante commedia inglese, prima che John Osborne irrompesse sulla scena. O, piuttosto, siamo nel rutilante musical degli Immoralisti, dove non c’è traccia dell’intensità tragica del personaggio di André Gide, ma solo la futilità spassosa del gossip che si vorrebbe controinformazione e che si traveste da intransigenza. Ma il tutto rimane all’altezza del buco della serratura, anche quando al di là della porta c’è uno scenario pubblico, la sfera politica, lo Stato. Ecco il punto: anche quando il discorso riguarda i beni collettivi, quello sguardo inquisitore sembra passare sempre attraverso uno spioncino. Sembra sempre furtivo e rubato, ringhioso e rapace: sempre espressione di rivalsa sociale e di frustrazione livorosa. Qualcosa che può comprendersi – eccome – e giustificarsi se, a manifestarlo sono gli espropriati di tutto, motivati a pretendere un risarcimento. Ma, se a esprimere quella forma piccina di revanscismo sono intellettuali che dispongono di tutte le risorse, beh, c’è da porsi qualche interrogativo. E c’è da chiedersi quale sia, appunto, la fondazione morale di quella indignazione. Una indignazione che si mostra priva di qualunque capacità di autoriflessione e che si rivela essere niente più che una mondana irritazione e una capricciosa insofferenza. Ecco, una scrittura che discende, come quella dei travaglisti–leninisti, da una cronica acidità di stomaco, risulta fatalmente brutta: e proprio perchè le manca quella forza (quell’anima) che dovrebbe derivare dalla coscienza morale e dalla consapevolezza di quanto sia tragico il conflitto tra bene e male. A leggere la prosa giustizialista, anche quando scintillante, e tanto più quando tetra (come spesso accade), si ha invece la sensazione che “il combattimento tra il Bene e il Male” sia né più né meno che quello tra Antonio Ingroia e Giovanni Conso. La ragione è semplice: in quella prosa, il bene è qualcosa di ontologicamente insediato, riconoscibile e attingibile. Basta sceglierlo, disporsi là, dire ciò che va detto, fare ciò che va fatto. Il bene è un assunto, un principio presupposto e assoluto, un “motore immobile”. Appartiene a un universo fisso e da lì discende come una “rivelazione”, fino a rappresentare la costellazione di uno schieramento e, di conseguenza, di quanti vi appartengono. Così il bene e la morale (quale orientamento allo stesso bene) perdono qualunque accezione conflittuale e qualunque dimensione drammatica per ridursi a una sorta di tessera di un club esclusivo o di password di accesso a uno status. Ed è proprio qui che bene e morale si rovesciano nel loro esatto contrario: nell’immoralità, appunto. Come volete che una simile concezione non produca una brutta scrittura? Sceglietevi l’autore preferito, ricordandovi che Nanni Moretti e Ludwig Wittgenstein hanno detto, con parole appena diverse, che chi pensa male parla (scrive) male. All’opposto di tutto ciò c’è la scrittura di Roberto Saviano. So di trovarmi, sul punto, in partibus infidelium, ma ho avuto occasione di rileggere Gomorra e alcuni articoli sull’Espresso. Che potenza morale, in quelle pagine, e quale cognizione del dolore umano. Non dico che sia quella energia etica a dettare la sua bella scrittura, ma sono convinto che senza quella energia la sua scrittura sarebbe meno bella.



3. Vita e dettaglio
Perchè la stigmatizzazione di D'Ambrosio è un colpo mortale per il diritto e la politica
Luigi Manconi
Non ho conosciuto abbastanza Loris D’Ambrosio per poterne parlare oggi in maniera adeguata.  Pochi contatti a proposito di alcune questioni complesse delle quali mi è capitato di dovermi occupare.  Ciò  che emergeva, anche nel corso di queste rare frequentazioni, era un tratto di assoluta discrezione e di massima riservatezza, tale da far apparire davvero incongrua l’immagine di un uomo che prevarica, deroga ai suoi compiti, invade competenze altrui (come qualcuno ha voluto far intendere). E tuttavia, se pure penso che D’ambrosio come Nicola Mancino e come Giovanni Conso, siano sottoposti a una campagna di sospetti per lo meno superficiale, ritengo che la morte del consigliere giuridico del Quirinale non vada collegata a tale campagna con un rapporto di causa-effetto. Ma questa prima considerazione, lungi dal risolvere il problema, solleva una questione ancora più importante: quella che chiamerei della “biografia ferita”. Ovvero: come si costruisca nel tempo l’identità di una persona e qual è il rapporto tra storia individuale e giudizio pubblico: e come tutto ciò possa subire una lesione, patire una sofferenza, entrare in crisi. Può sembrare un dilemma destinato esclusivamente alla speculazione filosofica, ma se pensiamo alle cronache di questi giorni se ne coglie tutta la drammatica attualità. L’ha detto bene Giuliano Amato in una lettera al Corriere della Sera: “vi sono persone la cui intera vita è testimonianza di dedizione e di integrità. Capita un fatto che in sé si presta a più interpretazioni e quella vita, anziché fungere da chiave interpretativa per capire quel fatto, viene dimenticata, cancellata e si ingigantiscono dubbi, si attribuiscono intenzioni che deformano insieme il fatto e la persona”. O meglio: l’intera vita di quella persona viene ridotta a quell’unico fatto controverso. È un’operazione micidiale: una esistenza, che può essere tranquilla e ordinaria così come può essere ricca di ruoli pubblici, viene “deformata” e, infine, mortificata e rimpicciolita fino alla misura di quel singolo episodio. È un meccanismo al quale non ci si può sottrarre, una volta che sia stato avviato. Per molte ragioni. Alcune dipendono dalla nuova organizzazione, anche tecnologica, del sistema della comunicazione e del suo rapporto con le vite degli individui. Quel sistema della comunicazione esige sintesi estrema fino alla grossolanità e rapidità del messaggio fino alla indecifrabilità; sintesi e rapidità tali da cancellare le dimensioni della “profondità” e della “lunghezza” dalle biografie personali, schiacciandole su immagini solo di superficie. Come decalcomanie su un vetro. Chiunque legga la propria scheda o quella di un amico, su Wikipedia, avrà la stessa sgradevolissima sensazione: che si parli di una persona totalmente diversa da quella conosciuta (se stesso o l’amico) e, soprattutto, che un’intera esistenza si concentri e si contragga, fino a raggrinzirsi in uno o due episodi arbitrariamente, e spesso bizzarramente, scelti da un selezionatore anonimo, in base a una valutazione i cui criteri restano inconoscibili. Fino a quando questo riguarda vicende secondarie che diventano qualificanti (immagino che a Umberto Eco non vada ancora giù il fatto di essere infinitamente più noto per la Fenomenologia di Mike Bongiorno che per Il problema estetico in San Tommaso) è un conto: ma può accadere che, a definire una vita e una personalità, siano episodi (considerati) negativi. E può conseguirne che l’intera esistenza risulti appiattita proprio su quell’episodio. Accade spesso, accade a interi gruppi sociali, accade a persone anonime e ad altre notissime. È il meccanismo feroce della stigmatizzazione. È il medesimo che porta a identificare un’intera etnia con un orribile delitto (romeni=stupratori), ma che può portare a rileggere a ritroso, partendo da una telefonata, l’intera vita di D’Ambrosio. È un’ulteriore variante di quello sguardo attraverso il buco della serratura, di quello scrutare dallo spioncino, che costituisce ispirazione e metodo della cultura giustizialista: e ne conferma, ancora una volta, la natura profondamente immorale. Perché proprio di questo si tratta: una interpretazione della vita sociale e delle azioni umane che mal sopporta la complessità delle motivazioni, la fatica dell’esperienza, la problematicità delle scelte, e che fa dell’immediatismo una ideologia. Tutto si gioca sul presente e sulla violenza dell’istante. Il web ne è la sede e, allo stesso tempo, la metafora più efficace: dietro l’homepage (di quel giornale o di quel sito) c’è un deposito immenso e un archivio pressoché infinito, ma rimangono occultati dal vertiginoso succedersi dell’ultim’ora e dell’ultimo messaggio. Tutto ciò che c’è dietro, c’è ma non viene cercato né tanto meno sottoposto a vaglio. Questo produce l’azzeramento della conoscenza e l’inaridirsi dell’esperienza, a tutto vantaggio dell’irrompere fulminante del presente. Gli effetti sono distruttivi. Se D’Ambrosio è quelle telefonate con Mancino di qualche mese fa, Giovanni Conso non è nemmeno quella sua decisione politica di quando era ministro della Giustizia: è diventato, piuttosto, la notizia criminis raccolta da Antonio Ingroia. Penso che si tratti di un colpo mortale per il diritto e per la politica.


(articoli pubblicati sul Foglio del
19 giugno, 17 luglio, 1 agosto 2012)
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