La stagione finale del partito personale
Luigi Manconi
C’è un legame tra personalizzazione della politica e aspirazione all’eternità? C’è. E si manifesta come un rapporto  stretto tra la volontà di dare al partito politico il proprio nome e la propria faccia, e il desiderio di perpetuare la vita fisica e quella pubblica oltre ogni ragionevole limite.
Non è un caso, insomma, che, in Italia, a fondare il primo partito carismatico – e il carisma è condizione essenziale della personalizzazione della politica – sia stato Silvio Berlusconi che, più di qualunque altro leader, sembra patire il trascorrere del tempo. Con ciò che comporta: decadenza del corpo, ridursi della vitalità, appannarsi della memoria. Il declino fisico e psicologico del Capo, che a quel processo naturale vorrebbe sottrarsi, ne incrina l’autorità, prima morale che politica, e compromette le fisiologiche dinamiche di competizione e successione nella leadership del partito.
È quanto sta accadendo – con tratti a volte grotteschi, a volte drammatici – nel Pdl, ma anche nell’Italia dei Valori e, in misura ancora attenuata, all’interno di 5 Stelle; ed è quanto è successo nella Lega. Se consideriamo questi quattro partiti, tutti rivelano un importante connotato: si tratta di formazioni prive di storia e tradizione e, dunque, di un consolidato retroterra di valori comuni (anche se per la Lega questo è vero solo in parte). È proprio l’assenza di una cultura politica e di un’ispirazione morale condivise che esige e, al contempo, esalta un’altra fonte di autorità. Quella, appunto, carismatico-personale. Se il linguaggio e la prospettiva, ma anche la mentalità e la coesione non discendono da una elaborazione condivisa del passato, che produce affinità culturale e senso di appartenenza, è fatalmente il Capo a dover fornire tutto ciò.
Questo spiega perché le origini dei partiti di cui parliamo (sempre con la parziale eccezione della Lega) risalgono a meno di due decenni fa, in quella seconda Repubblica che avrebbe visto l’esaurirsi o la grama sopravvivenza dei partiti della storia precedente: quelli dotati di una ideologia e di una memoria, strettamente intrecciate alle diverse fasi dell’Italia repubblicana e alle sue grandi famiglie politiche. Nella concezione carismatica, è il Capo a riassumerne la storia e la cultura e la stessa ragion d’essere del partito: si pensi a quale ruolo ha avuto per Forza Italia e per il Pdl, la retorica dell’imprenditore (ma anche quella del presidente del Milan); e per l’Italia dei Valori, l’epopea del Grande Accusatore che si fa tribuno; e, per la Lega, la leggenda del nemico di Roma che va a espugnare la Capitale. La storia di tali partiti inizia con la biografia del leader e, con quest’ultima, tende a concludersi. Per questo è stata così drammatica la procedura della successione nella Lega. In gioco non c’era un cambio di leadership: ovvero un avvicendamento attraverso l’aperta competizione (che non esclude l’intrigo sotterraneo) per il potere. C’era piuttosto, la salvaguardia dell’integrità politica del leader carismatico e la tutela della sua immagine, a suo modo, “sacra”. Non esagero: sacra perché capace di dar vita a una comunità, di offrirle senso di appartenenza e finalità condivise, di dotarla di una visione e di una missione. È questo l’effetto “magico” della politica carismatica, che – per una breve fase -  ha prodotto intensa fidelizzazione e ha galvanizzato energie  emotive.
Non poteva durare all’infinito. Nella Lega, la rottura è avvenuta a seguito dell’evento più naturale e meno previsto: la malattia. La potenza creativa e unificante del leader si sgretola a causa di un ictus. La debolezza fisica e psichica che ne deriva non si traduce in un fattore di maggiore dedizione al Capo, bensì nella rivelazione della sua vulnerabilità: e del fatto, pertanto, che può essere sconfitto. Fatale che il cambio di leadership avvenga non secondo gli schemi della scienza politica bensì secondo quelli dello psicodramma. E tuttavia, nel caso della Lega, la sua natura ambigua (nasce nella prima Repubblica e adotta un modello di partito di massa sostanzialmente classico) fa sì che oggi la successione appaia metabolizzata.
Potrà accadere altrettanto nel Pdl? Difficile. Quella di Berlusconi sembra, ancora una volta, una guerra contro il tempo: non a caso, a questa recentissima fase, arriva dopo una dieta alimentare della quale vengono resi noti tutti passaggi, i successi e gli insuccessi, fino al trionfo finale (l’on. Maria Rosaria Rossi: “è dimagritissimo”). Cosicché la conferenza stampa di sabato scorso mostra un Berlusconi il cui volto è ormai davvero eternizzato, al riparo non dico dall’oltraggio del tempo ma anche dai moti delle passioni e dei sentimenti. Un volto che è già icona o più modestamente immagine di manifesto elettorale. Ed è un manifesto elettorale che comunque non lascia scampo a quello – del quale non esiste ancora nemmeno una bozza -  di Angelino Alfano. Tutto ciò non riguarda solo l’avventura politica, pur significativa, di un uomo e del suo partito personale ma interessa un intero fenomeno storico-politico.
E la vicenda dell’Italia dei valori. Nato come partito dell’Assoluto (intransigenza totale contro la corruzione), l’Italia dei valori entra in crisi per essere inciampata nel Relativo: ma quanti sono davvero gli immobili di cui sono proprietari Antonio Di Pietro, la sua ex moglie e la sua prole? E quel miliardo che, come in una storia del signor Bonaventura, il magistrato di Mani Pulite ricevette in omaggio alla sua incorruttibilità, era destinato davvero al suo patrimonio personale? Dubbi dozzinali e curiosità mediocri che, tuttavia, contraddicono l’assolutezza della virtù. Tanto più che essa si è incarnata giocoforza in  “un uomo solo al comando”. Come nell’epica del ciclismo se quell’uomo cade è tutto il gruppo che rovina. Ed è questo un altro dei motivi che portano il partito personale, dopo un fase più o meno lunga, al declino.
È come se l’addensarsi sulla figura del leader, e sulla sua faccia (ad esempio, quella di Di Pietro imbarazzatissima per le domande di Report), di un peso così imponente quale è la rappresentanza di un partito, fosse davvero troppo. E conducesse fatalmente all’esaurisi della leadership, senza che alcuno possa surrogarla o supplire alle sue debolezze.
Con il partito 5 Stelle siamo appena agli inizi di un percorso,ma qualche segnale può già essere colto. I periodici conflitti tra Beppe Grillo e alcuni militanti, ci parlano di una forte tensione tra un partito iper-personalizzato, che al leader deve tutto, e l’esplosione di personalità che la lotta politica fa emergere. La prepotente personalità del Capo sembra voler rendere anonima (ovvero senza personalità e senza faccia) l’identità di chi ottiene consensi e cariche elettive. Chi gestisce il partito personale mal sopporta che – grazie anche alla visibilità offerta dai mass media – quello stesso partito possa diventare multi-personale e plurale. In altre parole, la personalizzazione pretende l’autocrazia. E quest’ultima è tanto più pericolosa quanto più i suoi correttivi e i suoi strumenti di controllo sono, a loro volta, anonimi: affidati, cioè non al rapporto faccia a faccia e alla vita di relazione, bensì alla vita di rete.
il Messaggero 2 novembre 2012
La stagione finale del partito personale
Luigi Manconi
C’è un legame tra personalizzazione della politica e aspirazione all’eternità? C’è. E si manifesta come un rapporto  stretto tra la volontà di dare al partito politico il proprio nome e la propria faccia, e il desiderio di perpetuare la vita fisica e quella pubblica oltre ogni ragionevole limite.
Non è un caso, insomma, che, in Italia, a fondare il primo partito carismatico – e il carisma è condizione essenziale della personalizzazione della politica – sia stato Silvio Berlusconi che, più di qualunque altro leader, sembra patire il trascorrere del tempo. Con ciò che comporta: decadenza del corpo, ridursi della vitalità, appannarsi della memoria. Il declino fisico e psicologico del Capo, che a quel processo naturale vorrebbe sottrarsi, ne incrina l’autorità, prima morale che politica, e compromette le fisiologiche dinamiche di competizione e successione nella leadership del partito.
È quanto sta accadendo – con tratti a volte grotteschi, a volte drammatici – nel Pdl, ma anche nell’Italia dei Valori e, in misura ancora attenuata, all’interno di 5 Stelle; ed è quanto è successo nella Lega. Se consideriamo questi quattro partiti, tutti rivelano un importante connotato: si tratta di formazioni prive di storia e tradizione e, dunque, di un consolidato retroterra di valori comuni (anche se per la Lega questo è vero solo in parte). È proprio l’assenza di una cultura politica e di un’ispirazione morale condivise che esige e, al contempo, esalta un’altra fonte di autorità. Quella, appunto, carismatico-personale. Se il linguaggio e la prospettiva, ma anche la mentalità e la coesione non discendono da una elaborazione condivisa del passato, che produce affinità culturale e senso di appartenenza, è fatalmente il Capo a dover fornire tutto ciò.
Questo spiega perché le origini dei partiti di cui parliamo (sempre con la parziale eccezione della Lega) risalgono a meno di due decenni fa, in quella seconda Repubblica che avrebbe visto l’esaurirsi o la grama sopravvivenza dei partiti della storia precedente: quelli dotati di una ideologia e di una memoria, strettamente intrecciate alle diverse fasi dell’Italia repubblicana e alle sue grandi famiglie politiche. Nella concezione carismatica, è il Capo a riassumerne la storia e la cultura e la stessa ragion d’essere del partito: si pensi a quale ruolo ha avuto per Forza Italia e per il Pdl, la retorica dell’imprenditore (ma anche quella del presidente del Milan); e per l’Italia dei Valori, l’epopea del Grande Accusatore che si fa tribuno; e, per la Lega, la leggenda del nemico di Roma che va a espugnare la Capitale. La storia di tali partiti inizia con la biografia del leader e, con quest’ultima, tende a concludersi. Per questo è stata così drammatica la procedura della successione nella Lega. In gioco non c’era un cambio di leadership: ovvero un avvicendamento attraverso l’aperta competizione (che non esclude l’intrigo sotterraneo) per il potere. C’era piuttosto, la salvaguardia dell’integrità politica del leader carismatico e la tutela della sua immagine, a suo modo, “sacra”. Non esagero: sacra perché capace di dar vita a una comunità, di offrirle senso di appartenenza e finalità condivise, di dotarla di una visione e di una missione. È questo l’effetto “magico” della politica carismatica, che – per una breve fase -  ha prodotto intensa fidelizzazione e ha galvanizzato energie  emotive.
Non poteva durare all’infinito. Nella Lega, la rottura è avvenuta a seguito dell’evento più naturale e meno previsto: la malattia. La potenza creativa e unificante del leader si sgretola a causa di un ictus. La debolezza fisica e psichica che ne deriva non si traduce in un fattore di maggiore dedizione al Capo, bensì nella rivelazione della sua vulnerabilità: e del fatto, pertanto, che può essere sconfitto. Fatale che il cambio di leadership avvenga non secondo gli schemi della scienza politica bensì secondo quelli dello psicodramma. E tuttavia, nel caso della Lega, la sua natura ambigua (nasce nella prima Repubblica e adotta un modello di partito di massa sostanzialmente classico) fa sì che oggi la successione appaia metabolizzata.
Potrà accadere altrettanto nel Pdl? Difficile. Quella di Berlusconi sembra, ancora una volta, una guerra contro il tempo: non a caso, a questa recentissima fase, arriva dopo una dieta alimentare della quale vengono resi noti tutti passaggi, i successi e gli insuccessi, fino al trionfo finale (l’on. Maria Rosaria Rossi: “è dimagritissimo”). Cosicché la conferenza stampa di sabato scorso mostra un Berlusconi il cui volto è ormai davvero eternizzato, al riparo non dico dall’oltraggio del tempo ma anche dai moti delle passioni e dei sentimenti. Un volto che è già icona o più modestamente immagine di manifesto elettorale. Ed è un manifesto elettorale che comunque non lascia scampo a quello – del quale non esiste ancora nemmeno una bozza -  di Angelino Alfano. Tutto ciò non riguarda solo l’avventura politica, pur significativa, di un uomo e del suo partito personale ma interessa un intero fenomeno storico-politico.
E la vicenda dell’Italia dei valori. Nato come partito dell’Assoluto (intransigenza totale contro la corruzione), l’Italia dei valori entra in crisi per essere inciampata nel Relativo: ma quanti sono davvero gli immobili di cui sono proprietari Antonio Di Pietro, la sua ex moglie e la sua prole? E quel miliardo che, come in una storia del signor Bonaventura, il magistrato di Mani Pulite ricevette in omaggio alla sua incorruttibilità, era destinato davvero al suo patrimonio personale? Dubbi dozzinali e curiosità mediocri che, tuttavia, contraddicono l’assolutezza della virtù. Tanto più che essa si è incarnata giocoforza in  “un uomo solo al comando”. Come nell’epica del ciclismo se quell’uomo cade è tutto il gruppo che rovina. Ed è questo un altro dei motivi che portano il partito personale, dopo un fase più o meno lunga, al declino.
È come se l’addensarsi sulla figura del leader, e sulla sua faccia (ad esempio, quella di Di Pietro imbarazzatissima per le domande di Report), di un peso così imponente quale è la rappresentanza di un partito, fosse davvero troppo. E conducesse fatalmente all’esaurisi della leadership, senza che alcuno possa surrogarla o supplire alle sue debolezze.
Con il partito 5 Stelle siamo appena agli inizi di un percorso,ma qualche segnale può già essere colto. I periodici conflitti tra Beppe Grillo e alcuni militanti, ci parlano di una forte tensione tra un partito iper-personalizzato, che al leader deve tutto, e l’esplosione di personalità che la lotta politica fa emergere. La prepotente personalità del Capo sembra voler rendere anonima (ovvero senza personalità e senza faccia) l’identità di chi ottiene consensi e cariche elettive. Chi gestisce il partito personale mal sopporta che – grazie anche alla visibilità offerta dai mass media – quello stesso partito possa diventare multi-personale e plurale. In altre parole, la personalizzazione pretende l’autocrazia. E quest’ultima è tanto più pericolosa quanto più i suoi correttivi e i suoi strumenti di controllo sono, a loro volta, anonimi: affidati, cioè non al rapporto faccia a faccia e alla vita di relazione, bensì alla vita di rete.
il Messaggero 2 novembre 2012
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