Il terrorismo non ha radici tra gli indignati
Luigi Manconi
La complicatissima (e feroce) questione del terrorismo italiano può essere affrontata anche in modo semplicissimo. L’Italia, come ogni paese democratico – e proprio perché democratico – non è in grado di prevenire e disinnescare in maniera totale qualunque forma di organizzazione criminale con fini politici. Di più: si può dire che i sistemi democratici – e proprio perché democratici – sono destinati a incubare e a riprodurre forme di violenza di strada militarizzate (come i black bloc), e azioni armate a opera di gruppi clandestini (come le Brigate Rosse e gli anarco-insurrezionalisti). Tutto ciò è certamente drammatico, ma in qualche misura fisiologico: una “società aperta” non è in grado di reprimere preventivamente queste sue cellule impazzite (che poi pazze non sono), pena la rinuncia alla propria natura di società aperta.
È una verità, per quanto amara, da riconoscere, sapendo che la posta in gioco è ancora un’altra: quale e quanto consenso quelle manifestazioni (la violenza di strada militarizzata e le azioni armate clandestine) ottengano all’interno della società. Qui la risposta può essere netta: oggi nessun consenso. Chi abbia un minimo di memoria storica non può dubitarne. Se confrontiamo le reazioni successive a quanto accaduto il 15 ottobre 2011 con le reazioni che seguirono la manifestazione del 12 marzo 1977 (altrettante, se non maggiori, violenze), la differenza balza agli occhi. All’epoca, la grande maggioranza degli aderenti al corteo (singoli e gruppi) si guardarono bene dal prendere le distanze dalle violenze, mentre - nel caso della manifestazione degli Indignati - la spaccatura tra i partecipanti e gli autori delle violenze è risultata incolmabile.
Discorso non diverso va fatto a proposito del terrorismo vero e proprio, quello che si esprime attraverso azioni clandestine (attentati incendiari, pacchi bomba, aggressioni armate alle persone): oggi il consenso sociale verso quelle azioni è pressoché inesistente, sia in termini di adesione diretta che di fiancheggiamento occasionale che di simpatia silenziosa. Come invece si registrava, negli anni ’70, presso segmenti di classe operaia, settori di sindacato e partito, spezzoni di movimento. D’altra parte l’ultimo tentativo di un’azione armata su modello brigatista fu quello progettato, nel 2006, contro Pietro Ichino dal Partito Comunista Politico-Militare. Da allora non si è verificata, secondo i servizi di intelligence, alcuna iniziativa di ricostituzione del brigatismo. In questo quadro il nome di Ichino è comunque significativo, e non perché, come si è detto in questi giorni, il terrorismo si indirizza sempre contro i “riformisti” e quanti vogliono modificare le regole del mercato del lavoro. Piuttosto, per una ragione più antica, che segnala una irriducibile continuità ideologica nella storia delle Br, la pretesa vocazione operaista.
Mi spiego. L’attuale senatore del Pd, Ichino, è un giurista che appartiene a un’area di ricerca – ma anche di elaborazione di conseguenti politiche pubbliche – concentrata su alcuni nodi cruciali: le relazioni tra i mutamenti nella composizione della forza lavoro e nel mercato del lavoro e le riforme del sistema politico-istituzionale; le relazioni tra tutto questo e il sistema dei diritti e delle garanzie del lavoro dipendente. In questa area di ricerca possiamo collocare tutta la tragica teoria di obiettivi (reali o potenziali, raggiunti o mancati) del terrorismo brigatista degli ultimi trent’anni; e anche coloro che sono stati a lungo controllati e «osservati» come possibili bersagli. Questi i nomi: Raffaele Delcogliano (1982), Gino Giugni (1983), Tiziano Treu (1984), Ezio Tarantelli (1985), Antonio Da Empoli (1986), Roberto Ruffilli (1988), Massimo D’Antona (1999), Giorgio Ghezzi (2001), Marco Biagi (2002), Michele Tiraboschi (2002), Pietro Ichino (2006); e ancor prima, nel 1978, Filippo Peschiera.
Cosa ci dice questo lugubre elenco, con tutto il suo carico di dolore? Ci dice che la storia delle Brigate Rosse, fin dalla loro nascita, segue un percorso di continuità assoluta, almeno nel suo nucleo portante. Ed è una continuità che si è realizzata intorno alla categoria di operaismo. Un operaismo armato. Questo fu il terrorismo delle Brigate Rosse delle origini: questo è il «nuovo» terrorismo della fine degli anni Novanta e oltre, che individua e colpisce i suoi “nemici” (quasi) sempre e (quasi) esclusivamente tra quanti hanno a che fare col lavoro salariato. Non a caso, l’intera cultura dei militanti brigatisti (riferimenti ideologici, memoria, immaginario, linguaggio…) si rifaceva alla prima e fondamentale radice e alla prima e fondamentale scelta «per il comunismo»: l’emancipazione della classe operaia. Pertanto, la classe operaia era e ha continuato a essere la principale fonte di legittimazione politica delle Br (non lo fu, invece, per altre formazioni, come i Nuclei Armati Proletari; e lo fu solo parzialmente per Prima Linea). Questo contribuisce a spiegare perché «il proletariato» (pur nella sua attuale composizione: polverizzata, precaria, interinale) resta il principale, e ineludibile, referente del terrorismo fino a che terrorismo c’è stato. Va da sé che si trattava e si tratta, in tutta evidenza, di una rappresentazione del “proletariato” in chiave mitico-ideologica, divaricata rispetto alle domande economiche, sociali e politiche della forza lavoro in carne e ossa.
1 novembre 2011 l'Unità
Il terrorismo non ha radici tra gli indignati
Luigi Manconi
La complicatissima (e feroce) questione del terrorismo italiano può essere affrontata anche in modo semplicissimo. L’Italia, come ogni paese democratico – e proprio perché democratico – non è in grado di prevenire e disinnescare in maniera totale qualunque forma di organizzazione criminale con fini politici.
Di più: si può dire che i sistemi democratici – e proprio perché democratici – sono destinati a incubare e a riprodurre forme di violenza di strada militarizzate (come i black bloc), e azioni armate a opera di gruppi clandestini (come le Brigate Rosse e gli anarco-insurrezionalisti). Tutto ciò è certamente drammatico, ma in qualche misura fisiologico: una “società aperta” non è in grado di reprimere preventivamente queste sue cellule impazzite (che poi pazze non sono), pena la rinuncia alla propria natura di società aperta.

È una verità, per quanto amara, da riconoscere, sapendo che la posta in gioco è ancora un’altra: quale e quanto consenso quelle manifestazioni (la violenza di strada militarizzata e le azioni armate clandestine) ottengano all’interno della società. Qui la risposta può essere netta: oggi nessun consenso. Chi abbia un minimo di memoria storica non può dubitarne. Se confrontiamo le reazioni successive a quanto accaduto il 15 ottobre 2011 con le reazioni che seguirono la manifestazione del 12 marzo 1977 (altrettante, se non maggiori, violenze), la differenza balza agli occhi. All’epoca, la grande maggioranza degli aderenti al corteo (singoli e gruppi) si guardarono bene dal prendere le distanze dalle violenze, mentre - nel caso della manifestazione degli Indignati - la spaccatura tra i partecipanti e gli autori delle violenze è risultata incolmabile.

Discorso non diverso va fatto a proposito del terrorismo vero e proprio, quello che si esprime attraverso azioni clandestine (attentati incendiari, pacchi bomba, aggressioni armate alle persone): oggi il consenso sociale verso quelle azioni è pressoché inesistente, sia in termini di adesione diretta che di fiancheggiamento occasionale che di simpatia silenziosa. Come invece si registrava, negli anni ’70, presso segmenti di classe operaia, settori di sindacato e partito, spezzoni di movimento. D’altra parte l’ultimo tentativo di un’azione armata su modello brigatista fu quello progettato, nel 2006, contro Pietro Ichino dal Partito Comunista Politico-Militare. Da allora non si è verificata, secondo i servizi di intelligence, alcuna iniziativa di ricostituzione del brigatismo. In questo quadro il nome di Ichino è comunque significativo, e non perché, come si è detto in questi giorni, il terrorismo si indirizza sempre contro i “riformisti” e quanti vogliono modificare le regole del mercato del lavoro. Piuttosto, per una ragione più antica, che segnala una irriducibile continuità ideologica nella storia delle Br, la pretesa vocazione operaista.
Mi spiego. L’attuale senatore del Pd, Ichino, è un giurista che appartiene a un’area di ricerca – ma anche di elaborazione di conseguenti politiche pubbliche – concentrata su alcuni nodi cruciali: le relazioni tra i mutamenti nella composizione della forza lavoro e nel mercato del lavoro e le riforme del sistema politico-istituzionale; le relazioni tra tutto questo e il sistema dei diritti e delle garanzie del lavoro dipendente. In questa area di ricerca possiamo collocare tutta la tragica teoria di obiettivi (reali o potenziali, raggiunti o mancati) del terrorismo brigatista degli ultimi trent’anni; e anche coloro che sono stati a lungo controllati e «osservati» come possibili bersagli. Questi i nomi: Raffaele Delcogliano (1982), Gino Giugni (1983), Tiziano Treu (1984), Ezio Tarantelli (1985), Antonio Da Empoli (1986), Roberto Ruffilli (1988), Massimo D’Antona (1999), Giorgio Ghezzi (2001), Marco Biagi (2002), Michele Tiraboschi (2002), Pietro Ichino (2006); e ancor prima, nel 1978, Filippo Peschiera.

Cosa ci dice questo lugubre elenco, con tutto il suo carico di dolore? Ci dice che la storia delle Brigate Rosse, fin dalla loro nascita, segue un percorso di continuità assoluta, almeno nel suo nucleo portante. Ed è una continuità che si è realizzata intorno alla categoria di operaismo. Un operaismo armato. Questo fu il terrorismo delle Brigate Rosse delle origini: questo è il «nuovo» terrorismo della fine degli anni Novanta e oltre, che individua e colpisce i suoi “nemici” (quasi) sempre e (quasi) esclusivamente tra quanti hanno a che fare col lavoro salariato. Non a caso, l’intera cultura dei militanti brigatisti (riferimenti ideologici, memoria, immaginario, linguaggio…) si rifaceva alla prima e fondamentale radice e alla prima e fondamentale scelta «per il comunismo»: l’emancipazione della classe operaia. Pertanto, la classe operaia era e ha continuato a essere la principale fonte di legittimazione politica delle Br (non lo fu, invece, per altre formazioni, come i Nuclei Armati Proletari; e lo fu solo parzialmente per Prima Linea). Questo contribuisce a spiegare perché «il proletariato» (pur nella sua attuale composizione: polverizzata, precaria, interinale) resta il principale, e ineludibile, referente del terrorismo fino a che terrorismo c’è stato. Va da sé che si trattava e si tratta, in tutta evidenza, di una rappresentazione del “proletariato” in chiave mitico-ideologica, divaricata rispetto alle domande economiche, sociali e politiche della forza lavoro in carne e ossa.
1 novembre 2011 l'Unità
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