Luigi Manconi
Lo dico subito e senza tentennamenti: considero il documento Per una nuova cultura politica dei Diritti un notevole passo avanti. Per argomentare questa affermazione, parto da una premessa fatalmente (e un po’ ignominiosamente) autoreferenziale. Un secolo fa, intorno al 1995, presentai al Senato due proposte di legge, rispettivamente sul Testamento biologico e sulle Unioni civili. L’iniziativa suscitò appena una certa curiosità: ma sul piano legislativo, va da sé, non se ne fece nulla.
E’ un dato imprescindibile, credo, perché dà la misura, per un verso, di quali e quante resistenze incontri la volontà di legiferare su quelle materie; e, per altro verso, di quanto sia maturato l’orientamento dell’opinione pubblica e persino quello di una parte della classe politica tradizionalmente arretrata, se non sorda, rispetto a quelle istanze.

Tuttavia, quell’esperienza di oltre tre lustri fa, ha anche un altro significato, che non riguarda solo la mia biografia. Militavo, all’epoca, in un partito che raccoglieva il 2-3% dei consensi così come mi era accaduto in fasi precedenti della mia vita (quando il consenso era persino più esiguo).
Nel frattempo, il mio estremismo culturale e la mia vocazione minoritaria non si sono attenuati – tant’è vero che mi trovo così spesso a mio agio con i radicali - ma ho ritenuto che quelle questioni, per potersi affermare richiedessero due essenziali condizioni. La prima: che diventassero patrimonio  condiviso di un soggetto politico di massa e tendenzialmente maggioritario; la seconda: che quei temi si traducessero in proposta di governo.
In altre parole, che problematiche considerate “intrattabili” finalmente potessero essere “trattate” e trascritte in norme, diventando legge. Per tante e antiche ragioni che richiamano la storia e la geografia,  le culture nazionali e le residuali ideologie – più resistenti di quanto si creda – questo in Italia richiede un percorso incredibilmente faticoso, per giunta soggetto a periodici  arretramenti. Ed è proprio questo che rende tuttora indispensabile che l’azione ispirata a principi rigorosi e a valori forti e intensi
si esprima e trovi spazio all’interno di un partito di massa influenzandone – se ne è capace - l’agenda politica e ancor prima gli orientamenti culturali e la mentalità condivisa.
Ecco, penso che ciò stia avvenendo, sia pure lentissimamente, all’interno del Pd;  ed è quanto è avvenuto, nel corso di un anno e mezzo, all’interno del Comitato che ha elaborato il documento in questione.
Ciò vuol dire forse che in quel documento (o addirittura nel partito) sia prevalso il radicalismo libertario? Non scherziamo. E’ successo, piuttosto, che un punto di vista, qual è quello nel quale mi riconosco e che si manifesta su vari temi (fine vita, unioni civili, autodeterminazione individuale, garantismo penale, immigrazione…) abbia avuto agio di esprimersi, di modificare posizioni preconcette, di ottenere importanti adesioni e, infine, un significativo riconoscimento nel testo finale. Così che, oggi, se quel documento diventasse davvero qualcosa di simile ad una “carta dei principi” del Pd, questo impegnerebbe il partito ad assumere posizioni e a battersi per normative ispirate a un impianto culturale profondamente  innovativo.
Meno statalista e più attento ai diritti individuali, meno autoritario e più sollecito verso le istanze della soggettività, meno collettivista e più consapevole della possibilità che tra garanzie sociali e garanzie della persona non esista una gerarchia rigidamente definita.
Non è un’acquisizione di poco conto ed è il risultato di una riflessione che ha attraversato in profondità tutte le componenti del Pd.
Ci si è arrivati non – come usa dire – “cedendo un po’” o “rinunciando ciascuno a qualcosa”. Ci si è arrivati, piuttosto, lo dico senza la minima enfasi, attraverso un laborioso percorso che ha conosciuto successive approssimazioni, per giungere, infine,  a un esito comune.
In questo quadro, va apprezzato come assai importante un documento, dove si trova affermata la piena dignità e autonomia delle opzioni personali nella sfera sessuale e la piena dignità e autonomia delle modalità di relazione che ne discendono; e dove si sostiene la necessità di “speciali forme di garanzia per i diritti e i doveri che sorgono dai legami differenti da quelli matrimoniali, ivi comprese le unioni omosessuali”.
Non può sfuggire che, qui, si prevede una tutela giuridica non solo per i diritti soggettivi, ma anche per quelli propri di una relazione di coppia.
Non si parla di “matrimonio omosessuale”? Certo, non se ne parla, ma una “carta dei principi” deve affermare questi – i principi, appunto - e non indicare le soluzioni normative. Di più: l’interesse di chi al riconoscimento del matrimonio omosessuale  tenda (e io tra questi) è proprio quello di disporre di un quadro culturale e morale in cui sia possibile iscrivere le forme legislative, che i rapporti di forza e la lotta politica e le maggioranze parlamentari consentiranno.
l'Unità 18 giugno 2012
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