Caso Shalabayeva, una storia di violazioni
Luigi Manconi
Per un crudele paradosso, la drammatica vicenda dell’espulsione dall’Italia di Alma Shalabayeva e di sua figlia potrebbe sortire un qualche effetto positivo. Esile, assai esile, in mezzo a tante conseguenze nefaste, ma non inutile. Quell’espulsione, con quel metodo e in quelle condizioni, ci dice molto.
Ce lo dice con chiarezza a proposito della politica italiana in materia di immigrazione. Ogni mese, dai Cie italiani, decine e decine di individui anonimi, spesso senza avvocati e senza alcuna risorsa, né tutela o relazione, vengono espulse e riportate in Paesi da cui sono fuggiti a seguito di guerre tribali o civili, discriminazioni religiose o etniche, perché oppositori dei regimi dominanti o perché appartenenti a gruppi sociali perseguitati.

Una storia che si ripete ormai da anni, divenuta consuetudine, e della quale non si discute quasi più perché non stupisce più, perché è ideologicamente coerente con un approccio quasi esclusivamente emergenziale all’immigrazione, che finisce quindi per essere l’oggetto di un delirio securitario. Al quale, dunque, si risponde con qualunque mezzo a disposizione, compresa la riduzione al minimo di tutele e garanzie durante la procedura di espulsione, in contrasto con numerosi principi di diritto internazionale e con tutte le convenzioni sottoscritte dal nostro Paese.
La vicenda di Alma Shalabayeva, dunque, può costituire una sorta di modello negativo: e un’occasione preziosa per scavare più a fondo nella concreta gestione delle politiche per l’immigrazione da parte dei governi italiani negli ultimi anni. Se ci si pensa un po’, la fretta immotivata, la grossolana sbrigatività, la sommarietà degli atti per come si sono manifestati nell’espulsione della Shalabayeva corrispondono, né più né meno, che a un pensiero profondo che segna l’atteggiamento di molti uomini e apparati delle nostre istituzioni. Ovvero gli immigrati e i richiedenti asilo sono, come minimo, un problema e più probabilmente una minaccia. Liberarsene al più presto è, allo stesso tempo, una misura di polizia e un programma politico, peraltro condivisi da una parte del senso comune e da segmenti delle classi dirigenti. Così accade che la politica dei respingimenti venga praticata con brutale efficienza nei confronti di migliaia di anonimi immigrati e richiedenti asilo e nei confronti di una bambina e di sua madre, tanto più se quest’ultima è la moglie di una figura indubbiamente controversa e gravata da molti sospetti, oltre che esponente dell’opposizione. E accade, ancora, che, dopo il trattenimento nel Cie di Ponte Galeria, Alma Shalabayeva sia stata trasferita a Ciampino e qui, insieme alla figlia, sia stata imbarcata su un jet privato e rimpatriata.
A distanza di circa un mese da quella notte, si è appreso con una pronuncia del Tribunale del riesame che il presupposto su cui si è basata l’espulsione della donna (ovvero la falsità del passaporto diplomatico da lei posseduto) era in realtà insussistente e che, anzi, la stessa era titolare di un permesso di soggiorno rilasciato dalla Lettonia (Paese dello spazio Schengen), valido fino a ottobre e dunque idoneo a escludere l’espulsione automatica della donna.
A prescindere dai chiarimenti forniti al Senato dal ministro dell’Interno, Angelino Alfano, e dalle conseguenze che tutto ciò ha avuto e avrà sul quadro politico, resta il dubbio che l’espulsione sia stata disposta in violazione del divieto di refoulement sancito, tra l’altro, dal testo unico sull’immigrazione. E in conformità, oltretutto, a una norma imperativa di diritto internazionale, strettamente complementare al divieto di tortura ed applicabile anche in relazione alla prassi delle «diplomatic assurances». Ovvero di quelle assicurazioni diplomatiche fornite dalle autorità del Paese di destinazione, che non valgono, di per sé, a escludere l’illegittimità di espulsioni adottate secondo l’art. 3 del «decreto Pisanu» e dunque senza neppure la convalida giurisdizionale che espongano la persona al rischio di tortura o trattamenti inumani o degradanti, come ha stabilito la Corte europea dei diritti umani anche rispetto alle espulsioni di soggetti sospettati di terrorismo.
Questa tragica vicenda, dunque, potrebbe rappresentare l’occasione per ripensare a fondo la materia e per interrogarsi, in particolare, sulla legittimità di queste forme di rimpatrio: quante espulsioni espongono lo straniero al rischio di trattamenti illegali e crudeli? È ammissibile un sistema fondato sull’esecuzione immediata di espulsioni impugnate, che rende le convalide giurisdizionali meramente formali, celebrate in assenza dell’interessato, reo soltanto di essere nato altrove?
l'Unità, 17-07-2013

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