martedì 9 aprile ore 17
 
Foyer Teatro Verdi , Sassari
 
Moni Ovadia e Luigi Manconi
Dialogo sulla libertà e sulla privazione

 

Senza interiorità i diritti umani sono gusci vuoti

Fabio Canessa

Nato in Bulgaria, cresciuto a Milano dove ancora vive, ma anche un po' sardo d'adozione. «Vengo spesso e da moltissimo tempo in Sardegna. E poi alcuni dei miei più grandi amici sono sardi. L'elenco sarebbe interminabile, ma ho un rapporto molto stretto, forte con l'isola prima di tutto attraverso le persone.
 Poi non c'è bisogno che lo dica io: la Sardegna è una terra di una bellezza sconvolgente e anche di una cultura tradizionale, di una civiltà dell'uomo fra le più emozionanti». Moni Ovadia racconta così il suo amore per l'isola che riabbraccerà presto, ancora una volta. Martedì presenterà a Sassari il suo spettacolo “Il registro dei peccati. Rapsodia lieve per racconti, melopee, narrazioni e storielle”, recital- reading sul mondo chassidico, in scena alle 21 al teatro Verdi di via Politeama. Uno spettacolo dedicato al racconto del mondo e della cultura yiddish. Inoltre, nella stessa giornata, alle 17 nel foyer del teatro, sarà protagonista con Luigi Manconi di un incontro dal titolo “Dialogo sulla libertà e sulla privazione”. «Siamo amici da una vita» racconta Moni Ovadia.
Di cosa parlerete?
«Luigi Manconi si occupa da tanti anni e con una grandissima statura etica e umana, caratteristica della sua persona, di diritti. In particolare di quelli che vengono violati nei confronti di cittadini che si trovano a custodia delle istituzioni, temporaneamente o per periodi prolungati.
I casi sono tanti, alcuni noti come quello del giovane Aldrovandi o di Giuseppe Uva. Luigi è un punto di riferimento di quest'opera di fondamentale civiltà, perché il cittadino che per qualsiasi motivo si trovi in condizioni di non poter esercitare la propria libertà, temporaneamente o per periodi più lunghi, dovrebbe essere proprio in quel momento più garantito».
Sul tema dei diritti, in cosa in particolare l'Italia deve migliorare?
«Dobbiamo migliorare su tutti i diritti! Secondo me c'è stata negli ultimi vent'anni una regressione paurosa, a cominciare dal diritto del lavoro. Nella nostra Costituzione, e in qualsiasi civiltà vera degna di questo nome, il lavoro è un diritto. Non è un'elemosina, non è concesso dall'alto. Appartiene ai grandi diritti dell'uomo, quello attraverso il quale acquista il diritto alla vita, il diritto alla felicità, al benessere. Inoltre bisogna ricordare che purtroppo l'Italia nel campo dei diritti viene ripresa continuamente dall'Europa. Per esempio per le condizioni di vita nelle carceri. E non dimentichiamoci i vergognosi respingimenti nel Canale di Sicilia. L'Italia è un paese dove è passata una legge che ha istituito il reato di clandestinità. Non dico che sia la stessa cosa, ma sul piano tecnico non è differente dalle leggi naziste. Perché si istituisce un reato non sulla base di un'azione compiuta, ma di uno stato esistenziale».
In qualche modo di diritti si parla anche nel suo spettacolo.
«Il punto di partenza dello spettacolo è una delle grandi perdite determinate dalla società globalizzata, ma soprattutto dalla cultura consumistica: la perdita della spiritualità e dell'interiorità. Non c'entra niente con la religione, non sono credente. E io attraverso il mondo spirituale che ho frequentato un po’, quello della spiritualità ebraica del centro ed est Europa, sollevo questo problema. Perché i diritti diventano delle scorze vuote se non sono alimentate dal carburante della nostra adesione interiore a quei valori. Se non li sentiamo come parte viva della nostra anima, della nostra carne. Altrimenti diventano delle dichiarazioni formali. Tutti si consolano con la semplice dichiarazione, ma abbiamo perso sempre di più il tempo della dimensione spirituale che è l'aspetto interiore, intimo della libertà e dei diritti. Se non li senti dentro come qualcosa che per te è imprescindibile come l'aria che respiri, e per arrivare a questo ci vuole un lungo cammino, allora si fa presto a dichiarare i diritti su un pezzo di carta e poi a negarli».
Sono queste le linee guida di "Il registro dei peccati"?
«È un cammino all'interno della spiritualità ebraica, il cui nome preciso è chassidismo: movimento che fonda la sua idea di redenzione, di liberazione dell'uomo sulla glorificazione dell'uomo fragile. Cioè questa cultura sosteneva che la fragilità dell'uomo, che è la sua condizione più vera, più intima, è il punto di partenza da cui dobbiamo muovere per accogliere l'altro. Le rivoluzioni sociali che affermano i diritti sono una parte del processo di edificazione di una società di giustizia. L'altra parte deve essere dentro di noi. Così da metterci tutta la nostra passione, il nostro impegno. Il cambiamento ha bisogno dell'interiorità di tutti noi.
Certo ci vogliono le riforme sociali, ma non bastano. Tornano indietro se non abbiamo dentro di noi valori profondi, non negoziabili».
La culura yiddish può insegnarci anche questo?
Coniugare la dimensione interiore con quella sociale? «La cultura yiddish è la glorificazione dell'esilio, della condizione dell'essere stranieri, quella che tiene viva la tua capacità di rimettere in discussione le certezze. E muovendo da questo vedi il volto dell'altro, che è fragile, che è in difficoltà. Fino a quando non sapremo accogliere l'uomo nel suo momento di difficoltà non andremo da nessun a parte. Il mondo in cui viviamo fa schifo. I ricchi diventano sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. Dobbiamo cominciare a ragionare sui valori dell'uomo e il mondo dell'ebraismo di cui parlo ragiona su questo».
E in che modo lo presenta nello spettacolo?
«Come un viaggio in tre dotazioni di cui questo mondo si serviva per distillare l'essenza profonda: la narrazione, l'umorismo, il canto. In queste tre tappe racconto, in modo molto libero, questo mondo». La prima è la narrazione.
«L'essere umano ha questa specificità. Si racconta dalla notte dei tempi. Sapersi raccontare significa avere un'identità».
L'umorismo invece?
«L'umorismo ebraico ha una caratteristica. Prima di tutto è autodelatorio, gli ebrei ridono tendenzialmente di loro stessi. Quindi un modo per smontare arroganze, protervi, idolatrie. E lo scopo principale non è quello di far ridere. La risata è un effetto secondario. È come se un bagliore di luce, di intelligenza, ci illuminasse e allora scoppiamo a ridere perché ci sentiamo liberati».
E poi c'è il canto.
«Bisogna tener conto che la rivelazione monoteista dell'ebraismo è una rivelazione acustica. Parte da una voce. Il canto è l'elemento emozionale, la fibra intima del suono della voce. È il suo aspetto mistico. La parte segreta e più universale.
Perché i Tenores di Bitti hanno avuto successo in tutto il mondo anche se sono un fenomeno tipicamente sardo? Perché la musica, la voce, il canto hanno un immenso potere. Anche quando sono stilisticamente specifici di una terra riescono a commuovere in tutto il pianeta perché il canto è il suono dell'animo, il mezzo attraverso il quale scopriamo che l'uomo è un essere universale».
Parlando di canto, e visto che anche lei è di Milano, viene in mente Enzo Jannacci da poco scomparso.
«Non l'ho conosciuto personalmente, però per me era il più grande. Di tutti i poeti della canzone il più originale, geniale, il più capace a leggere il mondo della povera gente. Aveva una visione umana e insieme etica, politica, sociale».
lanuovasardegna.it
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