Politicamente correttissimo
 
Coprografie e no
 
 
L'osceno abuso giornalistico dell'innocente verbo "inciuciare". Un bel riscatto del giornalismo tv
 
Luigi Manconi
1-    Quello che segue è un articolo pornografico o - più precisamente - coprografico. Nasce dall'aver constatato che – orrore! - nell'edizione del Foglio di sabato 23 marzo ricorreva in più articoli una terribile parola: inciucio. Tale termine, derivato dal dialetto napoletano, rimanda alla voce onomatopeica ‘nciucio, a sua volta originato da ciuciulliare, che significa “parlottare, chiacchierare inutilmente” (da Severina Parodi in “La Crusca per voi”, aprile 1996). La cosa interessante è che, mentre entrava nella lingua standardizzata, questo termine subiva uno slittamento semantico. Nel fuoco della polemica politica, la parola ha cambiato significato fino ad assumere l’accezione di “accordo innaturale, (…) finalizzato allo sfruttamento del potere”. Queste l’origine e la definizione attuale: e va notato che il suo primo uso, nel linguaggio politico - e non in senso denigratorio - viene attribuito a Massimo D'Alema (1995). 
In questi diciotto anni, il termine ha conosciuto prima un impeto dirompente, poi un progressivo logoramento, fino a che l’incontinenza del suo abuso lo ha depotenziato, riducendolo a uno stilema scolorito e sdrucito. Fino quasi a perdere ogni residua efficacia e ad assumere, nella prosa di un certo tremendismo giornalistico, il connotato compulsivo di una sorta di tic verbale. È qui che il termine acquista una tonalità, strascicata e, insieme, acuta, che irrompe all'interno di un ragionamento, accelerandolo, saltando ulteriori nessi logici, evidentemente ormai ritenuti superflui, fino a precipitare nel vibrato di quella parola in-ciu-cio. Ma provate a dirla e a ridirla, quella parola. A ripeterla con accenti e modalità e modulazioni diverse, e ne scoprirete il suono più profondo e autentico. E si tratta di un suono profondamente e autenticamente osceno. Il che rimanda, seguendo una radice etimologica non troppo frequentata, a quel ob-scenus che indica ciò che è collocato fuori dalla sfera pubblica. E infatti, se ascoltiamo come viene pronunciato e ripetuto e urlato, il suono di quel ciucciare e, ancor prima, di quel ciu, sembrano alludere a qualcosa di laido. Che richiama lo stato liquido sia di residui organici sia di umori, succhi, secrezioni. Si tratta di un suono, in altre parole, che evoca un'attività fisiologica, fatta di deiezioni ed eiaculazioni (si esagera, d'accordo, ma nemmeno troppo). E che contribuisce a fare di quel verbo e del sostantivo collegato qualcosa, oltre che di infamante, di meritevole comunque di censura. E di rimozione: affinché non si corra il rischio di rimanerne insozzati. Ma è davvero così? Ovviamente no. Inciucio è solo la definizione puerilmente triviale e intenzionalmente offensiva di un atto costitutivo della politica stessa, e suo fondamento. In altre parole, l'intera sequenza temporale e spaziale dell'azione politica si riassume nella coppia conflitto-negoziato. E il negoziato è quella relazione tra due soggetti diversi che, a partire dalle rispettive differenze, cercano le possibili affinità. Ovvero quanto può accomunarli in rapporto a una prospettiva di medio o addirittura lungo  periodo oppure in rapporto a un obiettivo circoscritto e a una meta delimitata. I favorevoli a questo metodo lo chiamano mediazione, i perplessi compromesso, gli ostili inciucio. È difficile, in ogni caso, trovare un solo soggetto politico - individuale o collettivo - che sia in grado di sottrarsi a qualunque forma di mediazione: il solo fatto di praticare la politica, anche dalla più antagonistica e refrattaria delle collocazioni impone una relazione con l’altro, fondata sulla mediazione e sul compromesso. Ovvero sulla rinuncia a una parte di sé (convinzioni e interessi, obiettivi e valori) per accogliere una parte dell’altro  (convinzioni e interessi, obiettivi e valori). Se questo esercizio di democrazia viene indecentemente qualificato come inciucio, è perché l’indecenza è nell’occhio e nella bocca di chi guarda e parla. E, invece, un inciucio vero – accogliendo per un attimo quella formulazione sporcacciona – si è realizzato mirabilmente nel confronto tra Silvio Berlusconi e Marco Travaglio, avvenuto all’inizio della scorsa campagna elettorale nel programma Servizio Pubblico. Lì, i due campioni dell’inciucio, mimando enfaticamente la gestualità di un atterramento con passaggio dietro o schiacciamento, attraverso lo schienamento – come è proprio della lotta grecoromana – hanno finito con l’abbracciarsi. E non poteva essere altrimenti: la stessa accidia morale (ilare in Berlusconi, tetra in Travaglio), il medesimo sospetto per la complessità del pensiero, l’analoga insofferenza verso le contraddizioni e le aporie dell’esistenza. Simbiosi perfetta, non mediazione o compromesso. Il trionfo dell’inciucio, insomma, come “parlottare, chiacchierare inutilmente”.
 
2-     Straordinaria puntata di Un giorno in Pretura (Rai Tre) di Roberta Petruzzelli, quella di sabato scorso, sull’omicidio del tassista milanese Luca Massari. Un crimine efferato, dopo che l’auto guidata dalla vittima aveva travolto un cucciolo. Un delitto abnorme e insensato, nato da una psicopatica esplosione di aggressività. Sullo sfondo, tre cani: un cocker, un pitbull e un altro non meglio indicato, e un quartiere incerto tra voglia di emancipazione e paura della ritorsione. E la madre della vittima che parla con la straziante dolcezza della più bella canzone di Enzo Jannacci, “Ti te sé no”, di quando il figlio la portava in taxi a vedere le luminarie natalizie nel centro di Milano. E una sequenza iniziale, montata in maniera geniale. Dunque, una sceneggiatura à la Truman Capote è possibile anche per il cupo orrore del delitto di via Ripamonti.
 
il Foglio 16 aprile 2013
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