Politicamente correttissimo
Nightmare
A forza di ripetere l'odiosa parola "zingaropoli", la destra ha animato incubi e fantasmi
Luigi Manconi
A me, questa roba di Zingaropoli non  va proprio giù. E non perché mi spaventi l’effetto che può produrre nell’ opinione pubblica: si è dimostrato inequivocabilmente che quell’ effetto non è poi così dirompente, come alcuni sgangherati strateghi del centrodestra avevano sperato.
E può rivelarsi controproducente, come qui di seguito si argomenterà. Ma, al di là dell’ incidenza sul senso comune,  non sopporto quella formula in primo luogo per  la sua oscena bruttezza estetico-lingiustica .  E’ irreparabilmente disgustosa, infatti, sia la sua  composizione grafica che la sua tonalità fonica: e  quel tratto di cupa sordidezza  che richiama. E che sembra ricadere, maleodorante, innanzitutto, su chi la evoca.  Come una pietra che precipita sui piedi dell’ incauto che la solleva, come uno sputo controvento, come un boomerang che, dopo una breve traiettoria,  ti afferra alla gola. Chi utilizza Zingaropoli per minacciare, nel caso di vittoria dell’ avversario, un futuro temibile e uno scenario inquietante, non riesce a suscitare quella tensione drammatica alla quale proporre un’ alternativa credibile (il proprio programma per la popolazione rom e sinti): si limita a dar corpo a una paranoia  torva e ansiogena che si rivela vischiosa  e che finisce con l’ inzaccherare chi la alimenta. È esattamente come chi urla: “è tutto una merda”. Difficile immaginare che chi strepita in tal modo possa conservare linda la propria camicia: quel letame, fatalmente, gli resta appiccicato sulla pelle, impregna i suoi indumenti, inquina mente e cuore. Sul piano politico, si tratta di un linguaggio da  ridotta militare, da arroccamento nell’ impotenza, da sindrome della sconfitta. È una politica ed è un linguaggio da ultima spiaggia, propri di chi -al di là dell’ arroganza  ostentata, dei  successi  conseguiti e della stessa forza residua-  sembra vittima di un irriducibile  inferiority complex. Tradotto in storia e geografia, tutto questo vuol dire che il centrodestra  –saldamente al potere dal 1993 a Milano e in Lombardia -  ammette di aver interpretato si -di una parte di quella popolazione-  umori e pulsioni, ma  non certo  sentimenti e  idee,  aspettative e domande di senso. Quasi che il centrodestra, a Milano e in Lombardia , abbia dominato e non governato. Abbia esercitato il potere e non amministrato la cosa pubblica. Abbia vinto e non convinto. E, così quel Zingaropoli è l’ ammissione isterica di una disfatta che passa attraverso la riduzione di una grande questione –i rom e i sinti, la devianza e l’ inclusione- a  rigido stereotipo, a identikit criminale, a patologia sociale. Zingaropoli è il nome di una cosa, che non riesce a dar conto di un fenomeno complesso; è il recinto stilizzato e acuminato  di una segregazione;  è una mappa della discriminazione e della reificazione. Non a caso, sullo sfondo, c’è lo spettacolare fallimento dell’ intera politica dell’ immigrazione, nel nome di colui che ne è stato uno degli artefici e se ne è proposto come l’ interprete: Roberto Maroni. Venticinque anni di leghismo hanno prodotto, prima con la legge Bossi- Fini, poi con i diversi “pacchetti sicurezza” voluti e gestiti dallo stesso Maroni, una politica per l’ immigrazione pienamente dispiegata e applicata, con risorse e mezzi adeguati. Il risultato è , per un verso, tragico e, per l’ altro, ridicolo, e contribuisce a spiegare la impietosa sconfitta della lega alle ultime amministrative.  Sul piano legislativo, una serie di norme messe in mora o annullate da sentenze di grado superiore;  sul piano dei diritti umani, una crescente riduzione degli standard di tutela delle  garanzie; sul piano della “sicurezza percepita” (come si dice), le immagini di migranti e profughi che oltrepassano presidi e  confini, che approdano a migliaia a Lampedusa , che si allontanano dai centro di accoglienza o di trattenimento, che inseguono libertà e opportunità di vita. E qui, probabilmente si realizza un cortocircuito. Zingaropoli o “Milano islamica”, potevano funzionare come minacce  prima di tutto questo: poi, alla prova dei fatti, sono risultati mere astrazioni, ologrammi proiettati  sullo schermo della psiche collettiva, Nightmare alla Wes Crave. E la prova dei fatti è stata rappresentata proprio dai volti e dai corpi di chi fuggiva dalla Libia e dalla Tunisia, da chi gettava il cuore oltre l’ ostacolo del filo spinato del centro di Manduria, ma anche dai bambini e dalle donne  del campo di Opera. Sono stati loro a far intendere che Zingaropoli e “Milano islamica” sono le espressioni di una dislessia politica: un’ afasia che tenta di recuperare  la voce attraverso  un blaterare catarroso e infetto. Colpi di tosse e suoni scomposti, ansimi e gorgoglii, per occultare l’ inaudita scoperta: gli abitanti di Zingaropoli sono esseri umani.
Roberto Formigoni, che  evidentemente lo sospettava, decide che è ora di “cambiare tutto”: pantaloni viola, camicia floreale, cintura bianca, si reca al seggio, abbigliato come un batterista maleinvecchiato  di una formazione rock progressive degli anni 70 ( che so Il Balletto di bronzo). O è innamorato (lo voglia il Cielo) o è alla ricerca di una nuova identità. Un messaggio al paese.
il Foglio 31 maggio 2011
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Commenti (1)
  • pierdisassari  - Innamorato!!!!!
    Condivido la tua analisi. Questa destra, nel corso degli anni, ci ha abituati a inveire su tutto e tutti. Dai richiedenti asilo alle Istituzioni ed alle più alte cariche dello stato. Credo, ed era ora, che le loro farneticazioni offensive stiano per finire.
    La prima volta che ho visto il Formigoni col nuovo look è stato, mi pare, ad una puntata di Annozero. Mi è scappato un commento a voce alta "ma come è vestito gaio, oggi" e mia figlia, che seguiva la trasmissione con me, ha ribattuto " a me sembra Gay". Fra innamorato e gay scelga lui, basta che non si metta in testa di fare il Premier
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