Un sistema malato su cui indagare
Luigi Manconi
Seguite,  passo dopo passo, oltraggio dopo oltraggio, il calvario di Stefano Cucchi;
e seguite la via crucis dei suoi genitori, respinti da una burocrazia a un’altra, da una ottusità a una ancora più feroce e, infine, sconfitti nel desiderio che più umano non si può: quello di partecipare agli ultimi istanti di vita di chi hanno messo al mondo. Seguite quella via dolorosa e vi troverete la mappa del sistema delle istituzioni totali del nostro paese: la geografia del potere massimo, quello che possiede la titolarità dell’uso della forza e della privazione della libertà. Seguite quell’itinerario e, credo, ne rimarrete spaventati quanto ne sono rimasto spaventato io, che pure di queste miserie ho una qualche conoscenza. Lungo quel percorso troverete una successione implacabile di luoghi statuali: due caserme dei carabinieri, due ospedali, un tribunale, un carcere, un reparto detentivo di ospedale; e una moltitudine di operatori delle diverse istituzioni (carabinieri, magistrati, avvocati, poliziotti, medici, personale sanitario) che si rivelano tutti, a vario titolo, inerti – quando non complici – davanti all’agonia di un giovane uomo. Voglio essere chiaro: l’Italia non  è una caserma e nemmeno un regime dispotico. Ma dobbiamo sapere che, all’interno dei sistemi democratici, resistono e si riproducono zone dove domina, appunto, un regime dispotico. Qui  la violenza non è la regola quotidiana dal momento che – si potrebbe dire – non ce n’è bisogno: il carcere (e la caserma e il tribunale l’ospedale psichiatrico giudiziario e il reparto detentivo degli ospedali) costituiscono un sistema di intimidazione e di disciplinamento, capace di garantire l’ordine quasi naturalmente. Da questa fisiologia della repressione ordinaria sfuggono, occasionalmente, gesti incontrollabili: la vessazione e la brutalità, ma anche  l’autolesionismo e il suicidio. Per il resto, domina una sorta di indifferenza capace di reificare e cosizzare tutto l’umano che attraversa quel sistema: dalla debolezza fisica allo spirito di ribellione, dalla sofferenza alla frustrazione.  Un esempio solo: alcuni di quei 61 suicidi rilevati tra i detenuti nel corso del 2009, vengono negati dall’amministrazione penitenziaria, perché realizzati inalando gas dalla bomboletta del fornelletto da campo. È overdose o suicidio? Indagare su quella dinamica di morte significherebbe, dunque conoscere quelle vite, e il loro dolore.
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