Idolatrie
Luigi Manconi
1-     E se il “caso Morgan” richiamasse un importante dilemma di filosofia politica? Per affrontare un simile quesito muovo da una sconsolata constatazione: ci  sono vicende – e questa è una - che rivelano un nocciolo duro di indecifrabilità e incomunicabilità assolute. C’è proprio da disperarsi a toccare con mano i limiti dell’intelligenza sociale, qui intesa non come capacità di penetrare un problema, quanto come possibilità di arrivare, su un determinato fenomeno, a una qualche forma di interpretazione condivisa.
C’è da disperarsi, ma davvero, quando si sente dire che, essendo Morgan un “idolo giovanile” il suo esempio può indurre “i giovani”  a drogarsi. Tutto è sgangherato in quell’assunto: Morgan non è un giovane (ha 38 anni) e non sono “i giovani” in quanto tali a drogarsi (le ricerche dicono che aumenta il numero dei tossicomani in età non più giovanile e di quelli cronici nelle fasce più anziane). E Morgan non è in alcun modo un idolo giovanile: vende pochi dischi, ha un suo pubblico fedele ma ristretto, non costituisce affatto un modello di vita. Insomma, nessun giovane, proprio nessuno, appreso che Morgan fuma crack, comincerà a fumare crack perché “lo fa Morgan”. Si tratta di un dato di fatto, tanto ovvio da risultare scontato, tanto inoppugnabile da non richiedere ulteriori conferme, tanto ragionevole da sembrarmi indiscutibile. E da esimermi dal documentarlo. Eppure, so bene che : A . Si tratta di una convinzione di minoranza;  B. Si tratta di una convinzione non comunicabile: destinata, cioè, a non potersi argomentare, dimostrare, trasmettere. Il caso Morgan, pertanto non richiama in primo luogo una discussione – l’ennesima - sulla droga, bensì una riflessione sui limiti dell’ intelligenza pratica e dell’esperienza del reale. E, infatti, è agevole constatare che la categoria  di emulazione è quella dominante in tutta l’ermeneutica sociale corrente: ovvero in tutte le interpretazioni, ovviamente “di destra” come “di sinistra”, dell’origine dei comportamenti. Tutti fatti risalire in via esclusiva – questo è il punto – all’idea così radicata nelle democrazie occidentali, della potenza irresistibile dell’esempio. Si può dire, addirittura, che la forza dell’ esempio è connotato costitutivo degli stessi sistemi democratici: perché esso rappresenta un fattore di mobilità sociale, e un elemento che incentiva o comunque agevola  la differenziazione e l’ascesa degli individui e dei gruppi. Una risorsa, dunque, dei regimi democratici e delle società dinamiche. Ecco perché  l’idea dell’ esempio che produce proselitismo e dell’emulazione come fattore di  movimento è così diffusa e si presta all’interpretazione di qualunque fatto sociale. Ma quel che vale per i fenomeni semplici, vale assai meno per i più complessi: e quello dell’assunzione di sostanze stupefacenti - motivata dal  tentativo di sfuggire a un dolore o dalla volontà di alterare gli stati di coscienza o, ancora, da chissà che - è complicato davvero. Morgan non è la causa e nemmeno  un “fattore di facilitazione”: fa parte del  fenomeno e quando dice: “ho raccontato la mia miseria”, si ascoltano le sole parole vere di un copione inautentico.

2-     Su il Giornale di sabato scorso, in risposta a un intelligente intervento di Melania Rizzoli (sullo stesso quotidiano del 1 Febbraio), il ministro della Salute, Ferruccio Fazio, a proposito di Salvatore Crisafulli usa questa definizione: “un paziente in stato vegetativo permanente”. Ah, ma allora esistono i pazienti “in stato vegetativo permanente” e addirittura esiste la condizione qualificabile come “vegetativa permanente”…  La questione è estremamente importante perché, per anni e anni, un imponente apparato ideologico che si voleva scientifico, ha  lavorato per respingere quella definizione, e per imporne un’altra meno categorica e definitiva: stato vegetativo persistente, (o,  semplicemente, stato vegetativo). Ciò al fine di affermare l’idea che non si possa “mai avere la certezza che in futuro questi pazienti non potranno uscire dallo stato di coma” (ancora Fazio). E se tale certezza non ci fosse, interrompere le terapie equivarrebbe a negare al paziente una opportunità di vita. Ma se quella condizione si può ipotizzare come “permanente” – tanto più in presenza di una dichiarata e pregressa volontà – perché mai non dovrebbe valere il principio,  moralmente fondato, del “lasciar morire”? E dell’astenersi da terapie, presidi, trattamenti che impediscono o ritardano quella che, fino a qualche tempo fa, sarebbe stata la “fine naturale di una vita”? Si tratta di un principio, per un verso, sapienziale e, per l’altro, giuridicamente assai robusto. E che rimanda al diritto fondamentale all’autodeterminazione, che non ha alcunché di nichilista perché – lungi dal presupporre uno stato di solitudine individuale – si afferma tanto più pienamente quanto più ricca e articolata è la rete di relazioni sociali in cui si colloca: o quanto più intenso è il legame primario, e autonomo,  genitore-figlio.
Un anno fa moriva Eluana Englaro.

Il Foglio 9 febbraio 2010
Share/Save/Bookmark
Commenti (0)
Commenta
I tuoi dettagli:
Commento:
Security
Inserisci il codice anti-spam che vedi nell'immagine.