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Privacy e conflitto di diritti
Luigi Manconi
Sempre ricordando che nel dettaglio si nasconde qualcosa di molto importante (non so più se Dio o il Diavolo), va notato che la gran parte dei mass media, a proposito del filmato per il quale sono stati condannati tre dirigenti di Google, parlano di un “ragazzo down”: e invece si tratta di persona autistica. La malattia e la disabilità fanno così tanta paura che, per tenerle a bada e a distanza, le si indica confusamente. Nel merito, la sentenza del Tribunale di Milano dice due cose, entrambe non facili da accettare. La prima: davanti a dilemmi etici particolarmente aggrovigliati è possibile rimanere senza parole. Ovvero incapaci di formulare una opinione netta e di parteggiare per una tesi contro l’altra. In altri termini, parallelamente allo sviluppo delle tecnologie, si moltiplicano le situazioni dubbie e le domande prive di una risposta univoca. La seconda considerazione è ancora più dura da mandar giù: il conflitto tra due diritti, ugualmente meritevoli di tutela, può non essere risolvibile, se non a prezzo di qualche danno. Insomma, tra due diritti che si trovino in aperta competizione, non è detto che sia possibile una mediazione soddisfacente per l’uno e per l’altro. Partiamo proprio da qui: il diritto del ragazzo autistico a non vedere esposta sul web la propria “condizione sanitaria” (in violazione della sua privacy) e i maltrattamenti subiti a causa di essa è stato infine tutelato, sì, ma solo parzialmente e proprio perché cioè è avvenuto con grave ritardo (per circa due mesi quel filmato è rimasto on line). Qui emerge immediatamente un primo problema: se pure ritenessimo ingiusto o impossibile qualunque meccanismo preventivo di controllo sui contenuti dei filmati – e siamo orientati a ritenerlo - l’intervento successivo deve essere così rapido ed efficace da ridurre al minimo l’entità del danno prodotto. Quei due mesi in cui il filmato è girato sul web rappresentano un periodo mostruosamente lungo di perpetuazione dell’oltraggio. Ma il problema non si riduce alla questione della rapidità con cui si può e si deve correre ai ripari. Come si è detto, c’è un conflitto tra due diritti che la sensibilità contemporanea e l’elaborazione giuridica sono arrivati a valutare come ugualmente degni di tutela. Ovvero il diritto al libero accesso e alla libera diffusione di dati immagini filmati opinioni, per un verso e il diritto alla protezione della dignità della persona umana e della sua privacy, per l’altro. Questi due diritti, qui e in altre circostanze, non sono agevolmente componibili. Pertanto, si dovrà accettare che – dopo aver tentato in tutti i modi di trovare una mediazione tra quelle due istanze – uno dei due diritti, o una porzione di esso, venga sacrificato. Insomma, la coperta (delle garanzie) è troppo corta per proteggere nella stessa misura diritto alla piena libertà di accesso e diritto alla piena tutela della privacy. Se ne può ricavare un temibile insegnamento: il nostro sistema giuridico, quello che manovriamo quotidianamente e quello che ci ingegniamo di elaborare, può solo inseguire affannosamente l’insorgere di inediti dilemmi etici, suscitati dallo sviluppo delle tecnologie. Ciò emerge nitidamente proprio dalla sentenza di Milano, che – nel momento in cui condanna Google – deve riconoscere la propria impotenza: non può imporre al motore di ricerca un controllo preventivo dei dati che vi transitano e può solo sanzionare gli effetti determinati dall’uso illecito dei dati stessi. Dunque, da un lato, quella sentenza ha escluso che la pubblicazione delle immagini lesive della dignità del ragazzo possa integrare gli estremi della diffamazione, dall’altro ha condannato Google per trattamento illecito di dati personali, verosimilmente  per non avere rimosso con tempestività quelle immagini, dopo averne ricevuto segnalazione. Dunque, ciò che gli si imputa è di avere contribuito a diffondere immagini lesive, di cui avrebbe avuto consapevolezza in seguito alla segnalazione, mentre non gli si imputa di avere omesso un controllo preventivo sul contenuto delle immagini immesse in rete (controllo che non solo non è imposto a un motore di ricerca ma che sarebbe illecito in quanto potrebbe violare, paradossalmente, la privacy). Resta da chiedersi se non sia il caso di estendere anche ad altri dati altrettanto lesivi della dignità personale - qualora fosse tecnicamente possibile - il sistema automatico di rimozione dalla rete di immagini pedopornografiche. Tale sistema infatti, pur non operando un controllo preventivo sui contenuti, consente di evitare che internet divenga uno spazio per ledere, anziché promuovere, i diritti umani.
26 febbraio 2010
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