A questo punto la domanda da porsi è la seguente: ma quali scheletri nell’armadio avrà Paolo Flores D’Arcais? E chi li tirerà fuori? È un interrogativo inevitabile dal momento che nella sequenza micidiale della spirale giustizialista - e nella materializzazione feroce del motto “c’è sempre un puro più puro che epura” – è accaduto che la rivista Micromega, diretta da Flores, abbia tirato fuori gli scheletri di Antonio Di Pietro e dell’Italia dei Valori. A riportare trionfalmente la cosa, in prima pagina, è stato ovviamente il quotidiano Libero. E a commentare la vicenda, è stato, altrettanto ovviamente, Elio Veltri, antico sodale e socio in grida antigarantiste dello stesso Di Pietro, poi suo arcinemico perché epurato dall’ex pm e, infine, epuratore di quest’ultimo. Penso, tuttavia, che la stessa sorte non capiterà al direttore di Micromega (ma è accaduto a Marco Travaglio, ripagato di uguale moneta da Giuseppe D’Avanzo) in quanto Flores, persona di rara maleducazione, è certamente onesto e incorruttibile e dunque, su quel piano, inattaccabile. Ma l’insidia resta, così come resta un meccanismo che sarebbe comico se non fosse tragico, in quanto questo succedersi di forche innalzate, l’una dopo l’altra, per appendervi i forcaioli di appena ieri, sembra assorbire una parte significativa delle risorse della lotta politica. E perché tutto questo viene presentato, e accolto da molti, come qualcosa di terribilmente “di sinistra”. Mentre è né più né meno che una roba di destra.
Tutto ciò ha un grande successo. Ne sono prova i milioni di spettatori di Annozero, le buone vendite del Fatto, i crescenti consensi per l’Italia dei Valori. Andrebbe pure ricordato che quegli spettatori, lettori ed elettori non si ritrovano esclusivamente all’interno delle tradizionali aree della sinistra: il che è un merito, ma anche una spia rivelatrice di un problema grande come una casa. Un esempio solo, ma preclaro: Antonio di Pietro che, in queste settimane, critica il reato di clandestinità, è lo stesso che – appena qualche tempo fa – affermava che, senza quella fattispecie penale, l’Italia sarebbe diventata “il vespasiano d’Europa” (tecnicamente, un linguaggio fascista). Altro problema: la “lotta per la legalità”, così come viene evocata, finisce per avere, oltre che alcuni esiti molto positivi, tre ulteriori effetti: 1. l’avvio di quella spirale inarrestabile che produce all’infinito giudicanti che diventano a loro volta giudicati, epuratori che si rivelano impuri, inseguitori trasformati in braccati; 2. l’assorbimento della questione politica dentro la questione giudiziaria. Questo porta fatalmente alla sottovalutazione di cruciali tematiche economico-sociali e di fondamentali conflitti per i diritti e le garanzie – l’immigrazione, il Testamento biologico - a tutto vantaggio della sottolineatura di una sola e abnorme “questione criminale”; 3. la riduzione della sfera pubblica e della dimensione politica ad una sorta di illimitato e compatto sistema della corruzione, dove, detta in breve, chi non è indagato per latrocinio lo deve al solo fatto che non è stato ancora preso con le mani nel sacco. E si consideri il grande successo editoriale di una sempre più vasta pubblicistica e saggistica giudiziaria e simil-giudiziaria. Le carte processuali, certo, non sono il solo genere letterario frequentato da giornali e libri “di denuncia”: ma è quello che sembra riassumere tutt’intera la vita pubblica nazionale. Ne deriva una sensazione tetra di irredimibilità: dove il grido primitivo “sono tutti uguali! sono tutti ladri!” segnala, per un verso, l’esito parossistico di una inesauribile voglia di rivalsa e, per l’altro, una dichiarazione di impotenza, che si ripiega su se stessa, nella contemplazione della propria solitaria (e spesso disperata) virtù. Sia chiaro: all’origine c’è un dato incontrovertibile. Il fatto, cioè, che il sistema della corruzione è effettivamente pervasivo e che a esso contribuiscono – o a esso non si oppongono adeguatamente – settori della sinistra e della società civile. Ma il punto vero è un altro. Quella visione del mondo, più che sbagliata, è totalmente inefficace: produce frustrazione individuale e collettiva e determina la riproduzione allargata di una ansiogena cultura del sospetto e della diffidenza. La frase andreottiana, (tanto apprezzata a sinistra): “a pensar male si fa peccato, ma spesso si indovina” costituisce il fondamento, per così dire, teologico di un’idea reazionaria della politica e della vita stessa. Come nel giudizio su Robespierre, che Georg Büchner attribuisce a Danton: “è così virtuoso che per lui la vita stessa è un vizio”.
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