L'importante passo del Pd sulle unioni civili
Luigi Manconi
Qualche buona notizia, nonostante tutto. Eppure, per quanto possa sembrare stravagante, c’è di che rallegrarsi. La discussione all’interno del Pd sulla questione delle Unioni civili ha sortito più di un risultato positivo. Il primo, completamente sottovalutato, corrisponde a un autentico ribaltamento nella concezione e nel metodo del programma politico, fino a costituire un fattore di provvidenziale discontinuità.
Occuparsi, infatti, di diritti individuali di libertà a meno di un anno dalla scadenza elettorale e nel pieno di un cataclisma economico finanziario, quale quello attuale, sarebbe sembrato – fino a pochi anni fa – una scelta irresponsabile. Praticamente tutte le culture politiche – con la sola eccezione di quella Radicale – e tutti i partiti e i movimenti hanno accettato per un secolo l’idea che vi sia una gerarchia fissa e immutabile di bisogni e di diritti; e che gli obiettivi di natura economico-sociale debbano sempre e comunque prevalere – tanto più in una congiuntura procellosa come la nostra – rispetto agli obiettivi correlati alla tutela dell’identità personale e della soggettività individuale. Per capirci, il verso di Bertold Brecht - “Quali tempi sono questi quando discorrere di alberi è quasi un delitto perché su troppe stragi comporta il silenzio” - ha rappresentato l’ispirazione di un ordine rigido e irreversibile delle priorità da perseguire. E questo ha finito col diffondere un senso comune che vedeva i diritti della persona, le garanzie individuali, le libertà civili (ma anche “gli alberi”: l’ambiente, cioè) come un bene, se non superfluo, indubbiamente “di lusso”. Ovvero, bisogni immateriali che è possibile tutelare in tempi di vacche grasse, ma che – in un'epoca di risorse scarse - vanno messi in secondo piano o decisamente accantonati. La discussione sulle Unioni civili ha avuto il merito di rovesciare questo luogo comune: e non perché abbia formulato una nuova graduatoria che collocherebbe al primo posto i diritti individuali, ma perché ha fatto ben intendere che questi ultimi non sono comprimibili e non sono altra cosa rispetto ai bisogni materiali e alle garanzie sociali. E, soprattutto, ha affermato nitidamente che i diritti della persona sono il fondamento essenziale e ineludibile di tutti gli altri diritti. Non solo. È giusto criticare aspramente le affermazioni di Pier Ferdinando Casini che non ha voluto rinunciare nemmeno a qualche grossolanità (“le unioni incivili” sono "una distorsione della natura");  ma va considerato che il leader dell'Udc – nel contestare le idee del Pd e nel riaffermare fieramente le proprie – non ha potuto esimersi da una importante dichiarazione di intenti: “garanzie giuridiche per le coppie conviventi”. Importante, questa affermazione, intanto perché mai in precedenza era stata formulata da parte di quell’area politica; e, poi, perché supera una posizione che sembrava immutabile. E che, finora, aveva bloccato sul nascere l’elaborazione di una legislazione capace di garantire diritti effettivi all’unione tra persone dello stesso sesso. Casini, infatti, con la massima prudenza e una malcelata ritrosia, parla di “coppie”. Qui sta il nodo, non sempre così evidente, dell’intera controversia: ovvero quei diritti e quelle garanzie vanno attribuiti in via esclusiva ai singoli individui, anche omosessuali, oppure se ne prevede il conferimento a una entità (“formazione sociale”) che è, appunto, la coppia? Se è quest’ultima la risposta (come indica anche la Consulta nella sentenza 138/2010), siamo sulla via giusta – anche se solo ai primi passi  - per un riconoscimento giuridico di piena dignità alle unioni civili anche tra persone dello stesso sesso. Il cosiddetto “documento Bindi” afferma tutto ciò con chiarezza. Si legga la seguente frase: “ il Pd, auspicando un più approfondito bilanciamento tra i principi degli articoli 2,3, e 29 della Costituzione, quanto in specie alle libere scelte compiute da ciascuna persona in relazione alla vita di coppia ed alla partecipazione alla stessa, opera dunque per l’adeguamento della disciplina giuridica all’effettiva sostanza dell’evoluzione sociale, anche introducendo, entro i vincoli della Costituzione e per il libero sviluppo della personalità di cui all’art. 2, speciali forme di garanzia per i diritti e i doveri che sorgono dai legami differenti da quelli matrimoniali, ivi comprese le unioni omosessuali”. È una formulazione assai prudente, ma poteva essere diversa? Ovvero, sarebbe stato possibile trovare una definizione differente, capace di ottenere il consenso dell’intero partito e, soprattutto, in grado di aggregare una maggioranza, all’interno di questo o del prossimo parlamento, per arrivare all’approvazione di una legge giusta in materia? Francamente penso di no (e quanto sta avvenendo in queste ore, all’interno del Pd milanese, sembra confermarlo). In quella formulazione, per quanto complessa, c’è tutto l’indispensabile: “speciali forme di garanzia” e quell’ “unioni omosessuali”che è la definizione, ancora più diretta ed esplicita, dell’espressione “unioni civili”. Certo, non compare la categoria di “matrimonio omosessuale”, la cui assenza ha suscitato le contestazioni dei critici, ma tale categoria, d’altra parte, non è stata fatta propria dal segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, e non poteva costituire, prevedibilmente, il punto finale di intesa tra le diverse componenti del partito. Il che era immaginabile: perché tanti sono quelli che non la condividono e perché il matrimonio omosessuale è una, e solo una, delle soluzioni normative possibili per affermare quel riconoscimento giuridico, che pure altre soluzioni garantiscono. In ogni caso, qui sta – a mio avviso – il cuore del problema. Ovvero, quali sono i requisiti essenziali e le condizioni irrinunciabili che possano assicurare piena dignità alle coppie omosessuali? Due, a mio parere: la parità di diritti, effettivi ed esigibili, rispetto a quelli delle coppie eterosessuali; la definizione di un vincolo, differente da quello matrimoniale e, tuttavia, riconosciuto dall’ordinamento. Questo, nel “documento Bindi”, indubbiamente c’è.
Premessa invereconda che, in quanto tale, colloco alla fine. Una delle leggi più imperiose della politica è: chi si loda s’imbroda. In altre parole, la politica si gioca – oggi più che mai – sul qui e ora: conta solo ed esclusivamente ciò che si dice e si fa in questo preciso momento. Non è una gran conquista perché, con ciò, si incrementa un processo di smemoratezza collettiva che azzera, non dico la storia, ma persino la cronaca che si riferisca all’altro ieri e, magari, a qualche periodo ancora precedente. In altre parole, è francamente insopportabile che, oggi, un’intera folla si dica incondizionatamente favorevole al “matrimonio omosessuale”; e si dichiari addirittura stupefatta che una tale posizione non sia condivisa all’unanimità. Viene voglia di dire: fuori i documenti. Ovvero, andiamo a verificare quando, in quali circostanze, con quali atti concreti, ma mi accontento anche di parole inequivocabili, ci si è espressi limpidamente a favore della piena dignità e parità del vincolo coniugale tra persone dello stesso sesso e del vincolo coniugale tra persone di sesso diverso. Come scriveva vent’anni fa, Piergiorgio Bellocchio (“io sono comunista”: “me lo dimostri”), sarebbe bello che ciascuno potesse esibire il suo curriculum, magari dopo averlo fatto autenticare da una società di certificazione. Qui non si tratta (solo) di vanagloria, ma di ben altro: avere una lunga militanza su questo tema (nel mio modesto caso dal 1988) e aver avuto la ventura di presentare il primo disegno di legge sulle unioni civili (1996), ha fatto sì che non veda proprio l’ora di ottenere qualche risultato concreto. È questo che mi rende così “ragionevole” e così disponibile ad apprezzare i passi avanti – anche piccoli ma concreti – e le mediazioni intelligenti. Le affermazioni di principio, anche le più vigorose e accaldate, quando non sono seguite da risultati positivi, rischiano di avere il suono stridulo delle trombette di latta.
l'Unità 27 luglio 2012
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