Politicamente correttissimo
La bioetica arcigna
Tra l'attuale posizione ecclesiale sul fine vita e la consapevolezza dolorosa di Pio XII, c'è differenza.
Luigi Manconi
Giuseppe Di Leo, curatore dell’indispensabile Rassegna Stampa Vaticana ( Radio radicale, domenica, ore 7.00)mi racconta che, nel discorso curiale, spesso si sente risuonare il seguente detto:  “un papa bolla, l’altro sbolla. Per fortuna”. Ciò contribuisce  a spiegare come sia possibile l’elaborazione e la comunicazione di differenti approcci dottrinari e  di indirizzi pastorali in aperto conflitto. E se questo vale per le diverse  interpretazioni offerte da successivi pontefici, figuriamoci quando a pronunciarsi sono teologi morali o bioeticisti. La confusione può essere massima.
Un esempio per tutti. Venerdì 11 u.s.,  Avvenire pubblica un’ ampia intervista al cardinale Elio Sgreccia, nella quale il presidente emerito della Pontificia Accademia per la Vita, afferma quanto segue: “ L’eutanasia è un’azione o un’ omissione di un intervento che mira di fatto o con le intenzioni a interrompere la vita o anticipare la morte, sia pure con l’intento di lenire o interrompere il dolore”.  Facciamo un salto indietro di oltre mezzo secolo. Nel 1957, nella sua  Allocutio ad partecipantes XI Congressum Societatis Italicae de anaesthesiologia, Pio XII così si pronunciava: “La soppressione del dolore e della coscienza per mezzo dei narcotici è permessa dalla religione e dalla morale al medico e al paziente, anche all’avvicinarsi della morte e se si prevede che l’uso dei narcotici abbrevierà la vita? Se non esistono altri mezzi e se, nelle date circostanze, ciò non impedisce l’adempimento di altri doveri religiosi e morali: Sì”. Si leggano con la massima attenzione le due affermazioni e si considerino i rispettivi contesti nella loro completezza (l’ intervista ad Avvenire e l’ Allocutio), ma poi si concentri l’attenzione sulle due frasi conclusive. La prima: “anticipare la morte sia pure con l’intento di lenire il dolore” è eutanasia (Sgreccia); la seconda: sopprimere il dolore e la coscienza è moralmente lecito “anche all’avvicinarsi della morte e se si prevede che l’uso dei narcotici abbrevierà la vita” (Pio XII). A me le due frasi paiono inconciliabili. E, in particolare, trovo nella seconda tutta la consapevolezza di una questione terribilmente ardua e dolorosa (non a caso posta in termini interrogativi) e il sapere la fatica drammatica che quel decidere comporta e, infine, la coscienza che le alternative da affrontare non sono rappresentabili come un bivio: qua il bene, di là il male. C’è, nell’intera Allocutio di Pio XII, una sorta di evidente (posso dirlo?) tremore di fronte a questioni che rimandano a  scelte tragiche (tutte ugualmente tragiche,che volgano verso una direzione o verso un’ altra).E’ esattamente questo che sembra mancare nell’attuale pastorale sulle problematiche di “fine vita” e che rende così arcigna e lontana e, soprattutto, freddamente astratta l’immagine offerta dalla  Chiesa nel trattare questi temi. Anche quello straordinario valore cristiano, per certi versi unico, rappresentato dall’affermazione che “ ogni vita è degna di essere vissuta” e , dunque, il rimando a quel fattore di unicità e irripetibilità dell’esistenza umana, risulta come intiepidito di fronte alla difficoltà di misurarsi con la sofferenza del corpo nella sua irreparabilità, nella materialità della carne e delle ossa, fino a farsene attraversare e condizionare, accettando la crisi che ciò può comportare per gli stessi  principi definiti “non negoziabili”.Questi ultimi rischiano di confondersi – fatte le debite differenze- con quella “gelida presunta imparzialità dell’ apparato sanitario” al quale rischia di essere consegnata “ la tragica e misteriosa umanità “ della morte, secondo Ernesto Galli della Loggia (Corriere della Sera 25 Febbraio). Con Galli della Loggia ha polemizzato un improbabile articolo di Maurizio Gasparri  (Corriere della sera  27 febbraio  ),  bizzarramente cofirmato da Gaetano Quagliariello e Raffaele Calabrò.  In quest’ ultimo componimento, nessuna percezione di quel conflitto tra carità e diritto, ovvero  la materia controversa e dolente che costituisce il cuore delle dichiarazioni anticipate di trattamento. Un approccio, invece, tutto politicistico, che rivela impietosamente la propria  povertà.

il Foglio 15 marzo 2011
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