Un odio ordinario
L'incendio del campo rom a Torino è un modello esemplare di uno sfacelo culturale, altroché
Il Foglio, 13-12-2011
Luigi Manconi
Non so a voi, ma a me questa storia torinese dello stupro finto e dell’incendio vero al campo rom, fa davvero impressione. L’anno prossimo saranno venticinque anni da quando ho iniziato a interessarmi al tema e dunque, di episodi simili, mi è capitato di osservarne parecchi. Eppure questo ha una sua perfetta esemplarità e una rappresentatività così plastica da costituire un vero e proprio paradigma.
Un modello, dunque, tanto più efficace e riproducibile quanto più lo si consideri principalmente come una tecnica dell’azione, a prescindere da ogni possibile contesto politico. Va detto: è la tecnica del linciaggio, proprio sotto il profilo del repertorio utilizzato, della strumentazione cui si è fatto ricorso, della tempistica e della logistica.
E anche, ma non è l’elemento fondamentale, dello scenario ideologico entro cui quella tecnica è stata applicata. E, quindi, perché non chiamare tutto ciò col suo vero nome? Tentativo di linciaggio, appunto. Credo che la ragione consista in una tendenza alla sottovalutazione da parte del sistema politico (in particolare quello orientato a destra); tendenza che ha, a sua volta, una radice definibile come ideologica. E, infatti, dal momento che il bersaglio dell’azione di pogrom è in genere un campo rom (è già successo numerose volte), denunciare la gravità del fatto e delle sue implicazioni, sembra concedere troppo a una rappresentazione sociale “politicamente corretta” e all’enfasi “buonista” sulla tutela degli ultimi. Questo rende la cultura di destra singolarmente reticente e la induce a concentrarsi più sulle “strumentalizzazioni politiche” che sui fatti nella loro cruda verità. E i fatti dicono una cosa ben precisa: dicono che a prescindere dall’identità del bersaglio – un campo rom o un campo scuola del Pdl – quello che viene messo in atto è comunque un modello di caccia all’uomo e di procedura di linciaggio. Che diavolo è mai accaduto, nell’opinione pubblica nazionale, perché tutto ciò diventasse accettabile? Un sistema di circostanze e situazioni dove l’azione minoritaria di un’avanguardia criminale incontra, quando non consenso, certamente omertà e protezione. Peserà sicuramente, nel favorire quell’atteggiamento che porta a farsi giustizia da sé, l’idea così diffusa che “qui ciascuno fa i suoi porci comodi” e che “in galera, non ci resta mai nessuno”. Ma, ancor prima, c’è una struttura del pensiero e dell’azione che si è ormai radicata in settori estesi di popolazione. Come ha detto il sindaco di Torino, Piero Fassino: perché mai una sedicenne, che vuole nascondere il primo atto sessuale, è portata irresistibilmente a “puntare l’indice contro due rom” precisando che “puzzavano”? C’è da pensare che nel senso comune e nell’immaginario sociale il meccanismo della stigmatizzazione del rom sia giunto alla sua più perfetta implementazione. In altre parole, uno degli atti più efferati e spregevoli sembra diventare, senza incontrare alcuna resistenza, un “reato d’autore”: una fattispecie penale discendente in maniera diretta da una appartenenza etnica (prima i rumeni, poi i rom e, ancor meglio, i rom di origine rumena), che diventa tratto psicologico inequivocabile, pulsione patologica e inclinazione criminale. Ci rendiamo conto di quale sfacelo culturale ciò determini? C’è, poi, la struttura delle reazioni. Qui il modello si fa ancora più rigido, nella sua reiterazione. L’assembramento solidale che si fa istanza di giustizia subito e a tutti i costi, l’individuazione del bersaglio attraverso i contorni di un identikit mai verificato, la spedizione punitiva, la guida assunta da chi ne ha competenza tecnica e volontà politica,  intesa come capacità di gestire una mobilitazione collettiva. E ancora tecnica: bombe carta, bottiglie molotov e fumogeni. La strumentazione è quella tante volte utilizzata nel corso di manifestazioni politiche e di azioni del tifo organizzato. Tutto ciò dimostra come la spontaneità della reazione, che pure c’è stata, trovi oggi canali prontamente attivabili dove confluire, bersagli contro cui indirizzarsi, leadership alle quali affidarsi. È questo che fa la differenza e che costituisce l’insidia più pericolosa. Se un quarto di secolo fa cominciammo a delineare i contorni di un ceto di “imprenditori politici dell’intolleranza”, intenzionati a trasferire sulla sfera pubblica il disagio prodotto dall’ impatto faticoso tra immigrati e residenti, oggi si assiste a un processo di polverizzazione e moltiplicazione di quello stesso ceto. Ogni quartiere delle grandi aree metropolitane ha un suo demagogo e un gruppo di agitatori, immediatamente mobilitabili, e bersagli già individuati. Ecco ciò che rende la situazione davvero preoccupante. Come è stato possibile che tutto ciò venisse bellamente ignorato finora? Forse una parte almeno della risposta è rintracciabile nel fatto che, fino a poche settimane fa, il ministro dell’Interno fosse un uomo come Roberto Maroni, apprezzato anche a sinistra per ragioni davvero imperscrutabili che, appena lasciato il Viminale, ha ripreso gli antichi (e comodissimi) panni del facinoroso. Gli imprenditori politici dell’intolleranza sanno fare bene il loro mestiere sia al governo che all’opposizione.
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