Garantisti o Servi
Luigi Manconi
politicamente correttissimo
Faceva una certa impressione, la scorsa settimana, vedere in tv tutti quei dirigentoni del Pdl che, col ditino alzato, affermavano gravemente: “siamo garantisti”.
La reazione che veniva spontanea era: fuori i documenti! Ovvero: me lo dimostri. Negli ultimi due decenni, infatti, mai c’è stata una volta – una volta sola – che Maurizio Gasparri e Franco Frattini, Ignazio La Russa e Fabrizio Cicchitto, abbiano detto una parola o fatto un gesto, che si ispirassero davvero ai principi del garantismo giuridico. Mai una volta (verificare per credere). E allora, uno legge l’articolo di Giuliano Ferrara (il Foglio 19 luglio) e si dice: beh, grosso modo lo condivido, fatta la tara di qualche incontinenza verbale e di qualche sproposito storico. Ma poi si chiede: e cosa c’entra tutto ciò con la destra? Ferrara, partendo da un’analisi in molti punti condivisibile, giunge a teorizzare la necessità di “difendere l’indifendibile” (evocando un formidabile testo di Walter Block). Il caso ha voluto che, appena qualche giorno fa, abbia scritto sull’Unità del garantismo come “esercizio estremo” che, dell’attività no-limits, condivide un fondamento essenziale. Quello di essere “fine a se stesso”, in quanto principio assoluto e incomprimibile, non negoziabile e non relativizzabile (chiedo scusa per la cafoneria dell’autocitazione, utile a richiamare un esempio particolarmente istruttivo, che più oltre segnalerò). Dunque, partiamo dalle considerazioni di Ferrara e assumiamole come irriducibile linea di resistenza garantista. Ma, per saggiarne la solidità e la coerenza, sottoponiamola ad alcuni test. 1- Se il garantismo è un assoluto, può essere limitato da confini di classe o di nazione? Ecco un bell’esempio. Secondo il ministro Elio Vito, le condizioni dei profughi eritrei nel carcere libico di Braq (centinaia di persone in due stanzoni sotterranei, violenze, nessuna cura medica) erano la conseguenza di un equivoco (avrebbero scambiato i formulari per l’accesso al lavoro con quelli per il rimpatrio forzato). E in una lettera al Foglio (7 luglio), i ministri Franco Frattini e Roberto Maroni, scrivevano che era in atto “una delicata mediazione sotto la nostra egida”, al fine di “offrire un’occupazione nella stessa Libia” a quei profughi. Nella risposta, Ferrara mostrava di apprezzare quelle parole, ma sottolineava: “il lavoro in Libia, bene, ma anche asilo politico in Italia, se necessario”.

A distanza di oltre dieci giorni, la situazione è la seguente: i profughi sono stati rilasciati a Sebha, nel deserto, a circa mille kilometri da Tripoli, senza documenti, cibo, acqua. Del “diritto d’asilo”, assolutamente nulla. Domanda: ma la tutela dei rifugiati non è parte integrante della concezione liberale e garantista del diritto? Eppure, dai garantisti del Pdl non un fiato. 2- Ammettiamo che si tratti, in questo caso, di un esempio troppo “terzomondialista”: e consideriamone uno dove non sono implicati né “tossici” né “negri”. Quello di Giorgia Ricci, in custodia cautelare dal febbraio scorso e affetta dal 1997 da sclerosi multipla recidivante remittente, assolutamente incompatibile con il carcere. Intorno alla Ricci il silenzio è totale forse a causa della sua patente “impresentabilità sociale”. Di lei si interessa Melania Rizzoli, deputata del Pdl, ma avete sentito anche solo una parola di  perplessità da parte di Gasparri e Frattini, La Russa e Cicchitto? Inevitabile, per quanto banale, il sospetto che il garantismo del centro destra si applichi solo ed esclusivamente a Silvio Berlusconi. E, pertanto, il richiamo ai diritti dell’indagato, quando c’è, sembra rispondere, più che a un principio giuridico, a una vocazione servile. E a un meccanismo di difesa che, serrandosi intorno al Capo, assicuri tutela a quanti, a quel Capo, affidano il proprio destino. Tutto ciò potrebbe non interessare direttamente Ferrara e il Foglio, ma – a ben vedere – in qualche modo li riguarda. Se il garantismo è un esercizio estremo, fine a se stesso e fondato sull’imperativo morale di difendere l’indifendibile, questa terribile responsabilità non può essere ridotta a questione di stile o a opzione politica o, ancora, a vocazione anticonformista. Deve fondarsi sul rigore: non quello moralistico, bensì quello della coerenza possibile tra mezzi e fini. Difendere l’indifendibile va bene (di più: è doveroso), ma non siamo scemi.  

Dunque, la linea di resistenza garantista non può ignorare il fatto che a Berlusconi sia capitato di trovarsi per le mani – oh, sorpresa!- il nastro della telefonata di Piero Fassino, il filmato su Piero Marrazzo, il dossier contro Stefano Caldoro: e non sappiamo cos’altro.

È questo a rendere così malferma l’architrave di tutte le ricostruzioni storiche che, da destra (e anche dal Foglio), vorrebbero far ruotare la questione garantismo/giustizialismo intorno alla costante “persecuzione giudiziaria” contro il Premier. È una lettura di comodo, che finisce con l’alterare i termini del problema: se Berlusconi è vittima del giustizialismo – e, per certi versi, lo è stato – è ancora più vero che, dello stesso giustizialismo, è primo attore  e cultore.     
il Foglio 20 luglio 2010
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