Compagni il linguaggio e il messaggio
Luigi Manconi
“Compagni e compagne” Fabrizio Gifuni, attore.
“È necessario trovare nuovi serbatoi simbolici” Debora Serracchiani, parlamentare europea del Pd.
***
Dai, è così, no? Non c’è dubbio che - tra le due frasi sopra riportate - quella più adeguata ai tempi, moderna e innovativa, anti-ideologica e fin “giovanile”, sia la prima. Ed è certamente la prima a esprimere un maggiore grado di semplicità e un più alto tasso di comunicabilità. È ovvio che non scherzo e, tuttavia, il discorso non può fermarsi qui. Quello della comunicazione è un problema gigantesco, ma che non va affrontato ricorrendo a luoghi comuni. Un esempio. Nella storia recente, Romano Prodi passa per essere il leader meno versato nella comunicazione di massa e meno seducente. Meno capace di un rapporto “erotico” con l’elettore. Forse è vero, ma non si può ignorare che quel suo linguaggio borbottante e, insieme, sottile fino all’insidia di qualcosa che somiglia a un fischio a rovescio (inspirato), lento fino a intorpidirsi e reificato fino alla domesticità, tuttavia a qualcuno (molti) “parlava”. Per esempio, a mia madre, ultra ottantenne donna di chiesa, inorridita dalla licenziosità berlusconiana e rassicurata dalla paciosità quasi abbandonica di Prodi. Se ne può dedurre che il messaggio prodiano risultasse efficace presso alcune aree della società nazionale che possiamo definire “periferiche” (sotto il profilo produttivo, sociale e generazionale). Mi si obbietterà: ecche te ne fai di quelle? Il problema è raggiungere gli strati economicamente e culturalmente “centrali”. Qui già emerge un equivoco pericoloso: l’idea che il messaggio e la fonte debbano essere unici e unitari. In altre parole, è Prodi, e solo lui, che avrebbe dovuto rivolgersi, univocamente, all’intera società. Il che può accadere solo in circostanze eccezionali e per figure extra-ordinarie. Come è Berlusconi. Quest’ultimo, in effetti, indirizza il proprio messaggio alla maggioranza della collettività, ne raggiunge una buona parte, e ne persuade una quota significativa. Se non c’hai culo (o carisma, che è pressappoco la stessa cosa, in termini epistemologici), devi adottare una strategia diversa. La debolezza non era “di Prodi”: consisteva piuttosto nell’incapacità di fare del peculiare stile prodiano una tessera della complessiva azione di comunicazione del governo, cui far concorrere Rosy Bindi, Francesco Rutelli, Massimo D’Alema. Ciascuno rivolto al proprio target, col proprio linguaggio e col proprio stile. Si trattava, evidentemente, di un’impresa ardua e dispersiva, ma l’unica consentita nelle circostanze date. Ed è un’indicazione che può valere anche oggi. Ovvero nel momento in cui il messaggio unico e unitario del centro destra, emesso da una sola ed esclusiva fonte – Berlusconi, appunto – si rivela meno efficace e tende a frammentarsi: da qui l’insofferenza dello stesso premier verso “le associazioni e le fondazioni” che pullulano nel Pdl; e da qui, ancora, il fatto che le molte voci (quelle di Umberto Bossi, Giulio Tremonti, Gianfranco Fini) tendano vieppiù a dissociarsi l’una dall’altra, mentre fino a qualche tempo fa si integravano pienamente, “coprendo” funzioni e interessi e culture differenti. Oggi, quella articolazione del Pdl tende a farsi dissociazione. E oggi la dissociazione, che ha afflitto patologicamente il centro sinistra, potrebbe farsi – se lo volesse – pluralità composita e integrata di accenti e di messaggi. Ovviamente è la cosa più difficile del mondo, ma non certo perché troppo diversificate sono le componenti politiche e le ascendenze culturali del Pd, bensì perché incontrollate sono le pulsioni narcisistiche, le vanità mondane, le petulanze sotto culturali. In un partito dove esista un minimo di solidarietà interna, il ricorso all’appellativo “compagne e compagni” verrebbe vissuto esclusivamente come una scelta di stile e di sentimento, così come l’età relativamente giovane (per la verità: assai relativamente) di alcuni potrebbe costituire una risorsa di energie e non un privilegio da vezzeggiare. Lo stesso vale per il linguaggio: ricevo una mail nella quale mi si chiede di “fare avere un feedback” alla richiesta inviatami. L’ho fatto, ma quel “fare avere un feedback” non è altrettanto legnoso e gergale di quanto lo sia un “si deve scadenzare la nostra iniziativa politica sui tempi della crisi”? È certamente vero che “i giovani parlano così”, e allora? Si rischia di non rispondere a due quesiti fondamentali: 1) come reagiscono coloro che “non parlano così” all’adozione di un simile linguaggio? 2) siamo proprio sicuri che i giovani che “parlano così” vogliano che “si parli così” anche quando si espone un programma contro il lavoro precario o per la riforma dell’università?
L’Unità 25 giugno 2010
Compagni il linguaggio e il messaggio
Luigi Manconi
“Compagni e compagne” Fabrizio Gifuni, attore.
“È necessario trovare nuovi serbatoi simbolici” Debora Serracchiani, parlamentare europea del Pd.
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Dai, è così, no? Non c’è dubbio che - tra le due frasi sopra riportate - quella più adeguata ai tempi, moderna e innovativa, anti-ideologica e fin “giovanile”, sia la prima. Ed è certamente la prima a esprimere un maggiore grado di semplicità e un più alto tasso di comunicabilità. È ovvio che non scherzo e, tuttavia, il discorso non può fermarsi qui. Quello della comunicazione è un problema gigantesco, ma che non va affrontato ricorrendo a luoghi comuni. Un esempio. Nella storia recente, Romano Prodi passa per essere il leader meno versato nella comunicazione di massa e meno seducente. Meno capace di un rapporto “erotico” con l’elettore. Forse è vero, ma non si può ignorare che quel suo linguaggio borbottante e, insieme, sottile fino all’insidia di qualcosa che somiglia a un fischio a rovescio (inspirato), lento fino a intorpidirsi e reificato fino alla domesticità, tuttavia a qualcuno (molti) “parlava”. Per esempio, a mia madre, ultra ottantenne donna di chiesa, inorridita dalla licenziosità berlusconiana e rassicurata dalla paciosità quasi abbandonica di Prodi. Se ne può dedurre che il messaggio prodiano risultasse efficace presso alcune aree della società nazionale che possiamo definire “periferiche” (sotto il profilo produttivo, sociale e generazionale). Mi si obbietterà: ecche te ne fai di quelle? Il problema è raggiungere gli strati economicamente e culturalmente “centrali”. Qui già emerge un equivoco pericoloso: l’idea che il messaggio e la fonte debbano essere unici e unitari. In altre parole, è Prodi, e solo lui, che avrebbe dovuto rivolgersi, univocamente, all’intera società. Il che può accadere solo in circostanze eccezionali e per figure extra-ordinarie. Come è Berlusconi. Quest’ultimo, in effetti, indirizza il proprio messaggio alla maggioranza della collettività, ne raggiunge una buona parte, e ne persuade una quota significativa. Se non c’hai culo (o carisma, che è pressappoco la stessa cosa, in termini epistemologici), devi adottare una strategia diversa. La debolezza non era “di Prodi”: consisteva piuttosto nell’incapacità di fare del peculiare stile prodiano una tessera della complessiva azione di comunicazione del governo, cui far concorrere Rosy Bindi, Francesco Rutelli, Massimo D’Alema. Ciascuno rivolto al proprio target, col proprio linguaggio e col proprio stile. Si trattava, evidentemente, di un’impresa ardua e dispersiva, ma l’unica consentita nelle circostanze date. Ed è un’indicazione che può valere anche oggi. Ovvero nel momento in cui il messaggio unico e unitario del centro destra, emesso da una sola ed esclusiva fonte – Berlusconi, appunto – si rivela meno efficace e tende a frammentarsi: da qui l’insofferenza dello stesso premier verso “le associazioni e le fondazioni” che pullulano nel Pdl; e da qui, ancora, il fatto che le molte voci (quelle di Umberto Bossi, Giulio Tremonti, Gianfranco Fini) tendano vieppiù a dissociarsi l’una dall’altra, mentre fino a qualche tempo fa si integravano pienamente, “coprendo” funzioni e interessi e culture differenti. Oggi, quella articolazione del Pdl tende a farsi dissociazione. E oggi la dissociazione, che ha afflitto patologicamente il centro sinistra, potrebbe farsi – se lo volesse – pluralità composita e integrata di accenti e di messaggi. Ovviamente è la cosa più difficile del mondo, ma non certo perché troppo diversificate sono le componenti politiche e le ascendenze culturali del Pd, bensì perché incontrollate sono le pulsioni narcisistiche, le vanità mondane, le petulanze sotto culturali. In un partito dove esista un minimo di solidarietà interna, il ricorso all’appellativo “compagne e compagni” verrebbe vissuto esclusivamente come una scelta di stile e di sentimento, così come l’età relativamente giovane (per la verità: assai relativamente) di alcuni potrebbe costituire una risorsa di energie e non un privilegio da vezzeggiare. Lo stesso vale per il linguaggio: ricevo una mail nella quale mi si chiede di “fare avere un feedback” alla richiesta inviatami. L’ho fatto, ma quel “fare avere un feedback” non è altrettanto legnoso e gergale di quanto lo sia un “si deve scadenzare la nostra iniziativa politica sui tempi della crisi”? È certamente vero che “i giovani parlano così”, e allora? Si rischia di non rispondere a due quesiti fondamentali: 1) come reagiscono coloro che “non parlano così” all’adozione di un simile linguaggio? 2) siamo proprio sicuri che i giovani che “parlano così” vogliano che “si parli così” anche quando si espone un programma contro il lavoro precario o per la riforma dell’università?

L’Unità 25 giugno 2010
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