Life in Rebibbia, o il romanticismo sottoproletario di Califano

Luigi Manconi

Da tempo il romanticismo non è più appannaggio esclusivo delle classi medio-alte: tanto più nella fase della massificazione dei consumi e dell'espansione della piccola borghesia come categoria culturale e sociologica universale (Hans Magnus Enzensberger), il romanticismo come postura dell'anima si è fatto senso comune, distribuendosi equamente lungo le articolazioni della stratificazione sociale. E così si è formato, non da ieri, un romanticismo proletario e sottoproletario del quale, per molti versi, Franco Califano è stato il più sincero cantore, ma anche una tra le più significative rappresentazioni pubbliche. Non stupisce. Da un secolo, la musica leggera costituisce una importante forma di comunicazione (forse la più diffusa) di questo stato d’animo collettivo, fatto di lirismo elementare e sentimentalismo, di puerile proiezione onirica e di pathos. Un simile romanticismo si articola per fasce di età, insediamento territoriale e, come si è detto, collocazione sociale, conservando tuttavia un’ispirazione comune rappresentata da un irresistibile e gradevolissimo fondamento kitsch.

Come ho anticipato, Califano ne è stato una eloquentissima espressione proletaria e sottoproletaria (anche in senso, si fa per dire, marxiano): e, sul piano etno-geografico, una perfetta interpretazione romana. E lo è stato nonostante non fosse nato a Roma. Tuttavia, dell’identità romana più tradizionale, aveva un tratto essenziale: “dentro a Regina Coeli c’è ’no scalino / chi nun salisce quello / nun è romano”.

Califano, quello scalino di Regina Coeli l’ha effettivamente «salito», a seguito di vicende giudiziarie assai note. E così il cantante risulta collegabile al carcere per ragioni, diciamo, genetiche: perché «romano», in quel senso tra il folklorico e l’ironico che fa parte della bozzettistica della città e che ormai appare come residuale. Ma, di quel residuo, una traccia è rappresentata da un segmento dell’ambiente malavitoso romano ritrovabile, appunto, nelle galere cittadine. Qui il romanticismo sottoproletario di Califano incontra i suoi migliori interpreti (come mi è capitato di scrivere un anno fa, in un libro che trattava di musica e di molte altre cose e che qui riprendo diffusamente). Di quel romanticismo sottoproletario, Califano rappresenta la più riuscita ed eccitante proiezione mondana e, insieme, la più lusinghiera idealizzazione. Ma, soprattutto, ne è il modello erotico e, ancor prima, sentimentale che più si avvicina alla perfezione. Califano è il «Califfo»: ovvero un’esaltante rappresentazione mitica di uno stato di incondizionata soddisfazione delle pulsioni di pressoché tutti i sensi e, innanzitutto, del desiderio sessuale.

A ben vedere, la condizione di Califfo – illimitata disponibilità di tutto ciò che si desidera: soldi, donne, droga – è la meta cui si tende attraverso l’attività criminale di piccolo e medio calibro (mi riferisco a una malavita di tipo tradizionale, non più bozzettistico, ma non ancora «industriale»). Chi ottiene quei beni, con mezzi legali (come Califano) o illegali, rappresenta un modello di vita. Ma un modello è sempre, per definizione, lontano e irraggiungibile. Califano no: egli è (appare) vicino, prossimo, raggiungibile. Di più: il periodo trascorso in carcere lo fa «uno di noi», alla portata del suo pubblico e delle sue aspettative. Califano risponde magnificamente a quelle attese: si concede interamente, con un atteggiamento di disponibilità che non rivela alcuna condiscendenza, bensì una naturale condivisione. Nel 2006, quand’ero sottosegretario alla Giustizia, promossi un suo concerto a Rebibbia Nuovo complesso. Il teatro del carcere era pieno zeppo di uomini trenta-cinquantenni, curiosi ed eccitati come bambini e pronti a commuoversi fino alle lacrime. La cosa che più colpiva era la straordinaria facilità di comunicazione del cantante: sembrava che ogni parola che diceva nel corso dello spettacolo fosse esattamente quella che il pubblico voleva sentire. Non solo, ogni parola (in senso stretto ogni verbo, ogni sostantivo, ogni aggettivo...) era tratta con naturalezza dal vocabolario della lingua parlata lì, dietro quelle mura e in quelle celle. Questo creava una potente identificazione. Il romanticismo sottoproletario esplodeva in quelle canzoni e si rispecchiava nelle emozioni di chi le ascoltava: era davvero vita vissuta e struggimento. Pathos. Maschi adulti, spesso di età avanzata, cantavano con tono sommesso o, a tratti, a squarciagola strofe di «La mia libertà», «Tutto il resto è noia», «E la chiamano estate» (una delle più belle canzoni italiane del secolo scorso) accompagnando e sostenendo la voce del cantante, che tendeva sempre più a una sorta di recitato (anche per fatali ragioni di logoramento vocale). Lui era visibilmente compiaciuto e riottosamente commosso, quasi intenerito. Scoprivo che, nello stereotipo che interpretava, non era prevista la fisionomia convenzionale del duro, impermeabile alle emozioni e ai sentimenti. Al contrario. E in questo, il «rispecchiamento» col pubblico di quel teatro così particolare era perfetto: anche i detenuti erano commossi fino alle lacrime. In quella situazione si inserì a un certo punto l’allora direttore del carcere, Carmelo Cantone, identico sputato a Giancarlo Giannini nella parte di Mimì metallurgico ferito nell’onore, ma – giuro – molto, molto più spiritoso. Cantone, siciliano e interista, rese omaggio a Califano, esaltandone «l’arte e la sensibilità» e anche il fatto di essere «il più grande tifoso romano dell’Inter». La platea composta in larga parte da romanisti, laziali e supporter di squadre meridionali, trasalì e vacillò. Poi, dalla fila davanti alla mia, tre o quattro uomini di mezza età, all’unisono, proruppero in un «ugualeee», e la pace fu fatta.

Alcuni mesi dopo, in un avaro praticello all’interno dello stesso istituto si svolse una singolare cerimonia alla quale partecipava ancora Califano, vestito di scuro, compunto e serioso, accanto al presidente del Football Club Internazionale, Massimo Moratti, al direttore e alle vicedirettrici, e a un gruppo di agenti di polizia penitenziaria e di detenuti uniti dalla comune militanza interista. L’occasione era la solenne costituzione dell’Interclub di Rebibbia Nuovo complesso. Io, juventino non pentito (e della “corrente Moggi”! dunque, praticamente un criminale, a mia volta), facevo buon viso a cattivo gioco. All’epoca non sapevo ancora che Califano avesse composto e interpretato «Er Tifoso», una sorta di poema eroicomico, dedicato alle gesta – e alle aspettative e frustrazioni – del supporter romanista. Un testo che Califano, più che cantare, recitava con tonalità connotate da quella vibrazione ferrigna che, talvolta, segna la vocalità romanesca. Solo gli sciocchi e i malevoli possono attribuire quella capacità di essere insieme «il più grande tifoso dell’Inter» e «il più grande tifoso della Roma» a un’inclinazione opportunistica. Si tratta, piuttosto, della sublime autonomia dell’Arte.

In occasione dei nostri pochi incontri, non ho avuto modo di chiedere a Califano se conoscesse la performance del suo collega Johnny Cash nel penitenziario di Folsom in California nel 1968. Se ripenso a quel concerto nel teatro di Rebibbia e rivedo su YouTube Cash in At Folsom Prison l’apparente incolmabile distanza tra i due sembra ridursi istantaneamente. Non è un paradosso, e l’affinità non nasce solo dal fatto che anche Johnny Cash è stato più volte in prigione per reati legati al consumo di stupefacenti. C’è qualcosa di più proprio sotto il profilo culturale. Entrambi oscillano tra aspirazioni popolari e tentazioni sottoproletarie, tra bisogno d’ordine e trasgressione, calati l’uno (Cash) nelle periferie rurali e l’altro (Califano) nell’aspra realtà metropolitana.

il Foglio 3 aprile 2013

Share/Save/Bookmark
Commenti (0)
Commenta
I tuoi dettagli:
Commento:
Security
Inserisci il codice anti-spam che vedi nell'immagine.