da Il Messaggero del 13 maggio 2012

Luigi Manconi

A proposito di tutti i fatti umani, nobili o efferati, grandiosi o minimi, decifrare la lingua che quei fatti comunica, è il primo strumento di interpretazione. Consideriamo, pertanto, il documento di rivendicazione dell’attentato contro Roberto Adinolfi firmato dal Nucleo Olga della Federazione Anarchica Informale; e partiamo da quello che può apparire un dettaglio, ma che risulta singolarmente rivelatore.
Ecco:  “con una certa gradevolezza abbiamo armato le nostre mani, con piacere abbiamo riempito il caricatore. Impugnare la pistola, scegliere e seguire l’obiettivo, coordinare mente e mano (…)” rappresentano “il rischio di una scelta e nello stesso momento un confluire di sensazioni piacevoli”. Nella prosa del terrorismo italiano mai si erano incontrate frasi simili. Un linguaggio infantilmente narcisistico e tronfio, decadente e auto gratificante, compiaciuto e reclinato su se stesso. Un vocabolario che si vorrebbe sovversivo e che risulta, invece, poveramente sub-letterario e rattrappito. Onanismo verbale prodotto dai cascami di molte  micro correnti culturali, che hanno accompagnato, come detriti, i movimenti rivoluzionari del Novecento. È un linguaggio che, sul piano sociologico, andrebbe  definito come infimo-borghese: esito, cioè, delle velleità ideologiche di ceti che inseguono rivalsa sociale e revanscismo politico. Vengono in mente, ma sarebbe un grave errore accreditarle, alcune manifestazioni  del ribellismo fascistico: dove trovare, infatti, altrettanto compiacimento per l’uso delle armi, la tecnica militare, il versamento del sangue nemico? E, invece, siamo di fronte a una componente dell’anarchismo contemporaneo, che recupera linguaggi di piccole sette degli anni ’60 e ’70: situazionisti, neo-luddisti, comontisti. E ancora viene in mente – ed è un riferimento forse più appropriato -  l’ultraviolenza nichilistico-aristocratica dei Drughi di Arancia Meccanica. Uno scenario, cioè, compiutamente post-moderno. Per il terrorismo brigatista, la violenza era (veniva presentata come) “una necessità della storia”: per gli “anarchici informali”, è un esercizio retorico e una pulsione da soddisfare. E  tuttavia, questi  anarchici hanno adottato, del brigatismo, una particolare tecnica, quale lo studio dell’obiettivo, l’appostamento, l’agguato, il ferimento, la fuga. Tale metodo, ricorrente nella pratica delle Br, venne adottato almeno una volta (attentato contro il giornalista dell’Unità Nino Ferrero) da quell’Azione Rivoluzionaria che, nella seconda metà degli anni ’70, costituì la variabile “anarchista” del terrorismo italiano. Una variabile sotterranea che, mutato profondamente il linguaggio, riemerge come  “eco-terrorismo” dieci anni dopo, indirizzato contro bersagli quali tralicci  dell’Enel e ripetitori di telefonia mobile. Venne arrestato, in quella circostanza, il cittadino svizzero Marco Camenisch e, in suo  nome, gli “ecoterroristi” compiranno numerosi attentati lungo tutti gli anni ’90  (una dozzina di azioni contro i cantieri dell’Alta velocità in Val di Susa nel corso di appena ventisette mesi).  Successivamente, la strategia assume ulteriori bersagli: luoghi e apparati della repressione e della detenzione in solidarietà con militanti reclusi in Grecia e in Spagna. Come metodo d’azione gli “anarchici informali” privilegeranno l’attentato con esplosivo quasi alla ricerca di una continuità  con quella che viene considerata la tradizione della violenza anarchica. Ma quest’ultima, tra l’Ottocento e il Novecento,  si indirizzò sempre contro obiettivi ad altissima intensità simbolica e sommamente rappresentativi della Grande Macchina del potere (il presidente francese Sadi Carnot, Umberto I, Benito Mussolini…). A distanza di oltre un secolo, gli attuali  bersagli sono modesti funzionari dello Stato, esponenti della burocrazia o, come nel caso più recente, dirigenti d’azienda (forse perché più facilmente raggiungibili?). L’attentato compiuto contro Adinolfi e quelli minacciati richiamano, come si è detto, un’affinità importante con la pratica delle Br: ma, allo stesso tempo, ne evidenziano l’enorme distanza e, infatti, gli “anarchici informali”, come scrivono nel documento, disprezzano quella “mal interpretata ricerca del consenso sociale che lega le mani di quanti sono consapevoli dell'urgenza di agire qui e ora”. È un passaggio molto significativo, questo. Per quanto esile e frammentario, il favore ottenuto dalle Br presso alcuni strati sociali (settori di classe operaia e di movimenti giovanili), rappresentava una risorsa non solo dichiarata e perseguita, ma considerata dirimente. Al punto che è possibile dire che fu proprio il mancato consenso, successivamente all’assassinio di Aldo Moro, ad avviare il processo di crisi che avrebbe portato alla fine delle prime Br. In altre parole, le Br ritenevano di poter essere l’avanguardia armata di un movimento sociale che, attraverso la lotta anche violenta di massa, avrebbe portato alla crisidi sistema. Come si vede, la distanza tra questa strategia e quella di chi non vuole farsi “legare le mani” dal giudizio popolare e vuole “agire qui e ora”, è estremamente ampia. Due prospettive che si vogliono entrambe  rivoluzionarie, e che ricorrono alla violenza (e allo spargimento di sangue), ma che restano estremamente diverse. Attenzione: è possibile persino che quella degli “anarchici informali” sia, per certi versi, la più pericolosa, slegata com’è da qualunque preoccupazione di confronto con quelli che dovrebbero essere i protagonisti della lotta per l’emancipazione (operai o sfruttati, o comunque li si definisca). Ulteriore elemento di preoccupazione  è rappresentato dal fatto che gli anarchici informali, proprio perché agli antipodi dei “comunisti delle Br”, sono per loro natura sfuggenti, mobili, inafferrabili. Privi di coordinamento stabile e di gerarchie verticali, essi risultano più difficilmente individuabili, permeabili, controllabili. Figli della crisi economico-finanziaria ne sono in qualche modo una estrema e feroce articolazione e rappresentazione.
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