Sulle coppie omosessuali
SENTENZA N. 138
ANNO 2010
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA


nei giudizi di legittimità costituzionale degli artt. 93, 96, 98, 107,
108, 143, 143-bis e 156-bis del codice civile, promossi dal Tribunale di
Venezia con ordinanza del 3 aprile 2009 e dalla Corte d’appello di Trento
con ordinanza del 29 luglio 2009, iscritte ai nn. 177 e 248 del registro
ordinanze 2009 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn.
26 e 41, prima serie speciale, dell’anno 2009.

Visti gli atti di costituzione di G. M. ed altro, di E. O. ed altri nonché
gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri,
dell’Associazione radicale Certi Diritti, e di C. M. ed altri (fuori
termine);

udito nell’udienza pubblica del 23 marzo 2010 il Giudice relatore
Alessandro Criscuolo;

uditi gli avvocati Alessandro Giadrossi per l’Associazione radicale Certi
Diritti e per M. G. ed altro, Ileana Alesso e Massimo Clara per
l’Associazione radicale Certi Diritti, per G. M. ed altro e per C. M. ed
altri, Vittorio Angiolini, Vincenzo Zeno-Zencovich e Marilisa D’Amico per
l’Associazione radicale Certi Diritti, per G. M. ed altro e per E. O. ed
altri e l’avvocato dello Stato Gabriella Palmieri per il Presidente del
Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1.- Il Tribunale di Venezia in composizione collegiale, con l’ordinanza
indicata in epigrafe, ha sollevato, in riferimento agli articoli 2, 3, 29
e 117, primo comma, della Costituzione, questione di legittimità
costituzionale degli articoli 93, 96, 98, 107, 108, 143, 143-bis, 156-bis
del codice civile, «nella parte in cui, sistematicamente interpretati, non
consentono che le persone di orientamento omosessuale possano contrarre
matrimonio con persone dello stesso sesso».

Il giudice a quo premette di essere chiamato a pronunciare in un giudizio
promosso dai signori G. M. ed S. G., entrambi di sesso maschile, in
opposizione, ai sensi dell’art. 98 di detto codice, avverso l’atto del 3
luglio 2008, col quale l’ufficiale di stato civile del Comune di Venezia
ha rifiutato di procedere alla pubblicazione di matrimonio dagli stessi
richiesta.

Il funzionario, infatti, ha ritenuto illegittima la pubblicazione, perché
in contrasto con la normativa vigente, costituzionale e ordinaria, in
quanto l’istituto del matrimonio nell’ordinamento giuridico italiano «è
inequivocabilmente incentrato sulla diversità di sesso dei coniugi», come
dovrebbe desumersi dall’insieme delle disposizioni che disciplinano
l’istituto medesimo, del quale tale diversità «costituisce presupposto
indispensabile, requisito fondamentale, a tal punto che l’ipotesi
contraria, relativa a persone dello stesso sesso, è giuridicamente
inesistente e certamente estranea alla definizione del matrimonio, almeno
secondo l’insieme delle normative tuttora vigenti», anche secondo
l’orientamento della giurisprudenza. L’atto oggetto dell’opposizione cita
anche un parere del Ministero dell’interno, in data 28 luglio 2004, nel
quale si legge che «in merito alla possibilità di trascrivere un atto di
matrimonio contratto all’estero tra persone dello stesso sesso, si precisa
che in Italia tale atto non è trascrivibile in quanto nel nostro
ordinamento non è previsto il matrimonio tra soggetti dello stesso sesso
in quanto contrario all’ordine pubblico»; affermazione ribadita con
circolare dello stesso Ministero in data 18 ottobre 2007.

Il Tribunale veneziano richiama gli argomenti svolti dai ricorrenti, i
quali hanno rilevato che nel nostro ordinamento non esisterebbe una
nozione di matrimonio, né un divieto espresso di matrimonio tra persone
dello stesso sesso. Inoltre, i citati atti del Ministero dell’interno si
riferirebbero all’ordine pubblico internazionale e non a quello pubblico
interno e, comunque, sarebbero contrari alla Costituzione e alla Carta di
Nizza, sicché andrebbero disapplicati. In ogni caso, l’interpretazione
letterale delle norme del codice civile, posta a fondamento del diniego
delle pubblicazioni, sarebbe in contrasto con la Costituzione italiana ed,
in particolare, con gli artt. 2, 3, 10, secondo comma, 13 e 29 di questa.

Il rimettente prosegue osservando che, sulla base di tali argomenti, gli
istanti hanno chiesto al Tribunale, in via principale, di ordinare
all’ufficiale di stato civile del Comune di Venezia di procedere alla
pubblicazione del matrimonio; in via subordinata, di sollevare questione
di legittimità costituzionale degli artt. 107, 108, 143, 143-bis e 156-bis
cod. civ., in riferimento agli artt. 2, 3, 10, secondo comma, 13 e 29
Cost.

Tanto premesso, il Tribunale di Venezia rileva che, nell’ordinamento
vigente, il matrimonio tra persone dello stesso sesso non è né previsto né
vietato espressamente. È certo, tuttavia, che sia il legislatore del 1942,
sia quello riformatore del 1975 non si sono posti la questione del
matrimonio omosessuale, all’epoca ancora non dibattuta, almeno in Italia.

Peraltro, «pur non esistendo una norma definitoria espressa, l’istituto
del matrimonio, così come previsto nell’attuale ordinamento italiano, si
riferisce indiscutibilmente solo al matrimonio tra persone di sesso
diverso. Se è vero che il codice civile non indica espressamente la
differenza di sesso tra i requisiti per contrarre matrimonio, diverse sue
norme, fra cui quelle menzionate nel ricorso e sospettate
d’incostituzionalità, si riferiscono al marito e alla moglie come “attori”
della celebrazione (artt. 107 e 108), protagonisti del rapporto coniugale
(artt. 143 e ss.) e autori della generazione (artt. 231 e ss.)».

Ad avviso del Tribunale, proprio per il chiaro tenore delle norme indicate
non è possibile, allo stato delle disposizioni vigenti, operare
un’estensione dell’istituto del matrimonio anche a persone dello stesso
sesso. Si tratterebbe di una forzatura non consentita ai giudici (diversi
da quello costituzionale), «a fronte di una consolidata e ultramillenaria
nozione di matrimonio come unione di un uomo e di una donna».

D’altra parte, prosegue il rimettente, «non si può ignorare il rapido
trasformarsi della società e dei costumi avvenuto negli ultimi decenni,
nel corso dei quali si è assistito al superamento del monopolio detenuto
dal modello di famiglia normale, tradizionale e al contestuale sorgere
spontaneo di forme diverse, seppur minoritarie, di convivenza, che
chiedono protezione, si ispirano al modello tradizionale e, come quello,
mirano ad essere considerate e disciplinate. Nuovi bisogni, legati anche
all’evoluzione della cultura e della civiltà, chiedono tutela, imponendo
un’attenta meditazione sulla persistente compatibilità
dell’interpretazione tradizionale con i principi costituzionali».

Secondo il Giudice di Venezia, il primo parametro è quello di cui all’art.
2 Cost., nella parte in cui riconosce i diritti inviolabili dell’uomo, non
soltanto nella sua sfera individuale ma anche, e forse soprattutto, nella
sua sfera sociale, cioè «nelle formazioni sociali ove si svolge la sua
personalità», delle quali la famiglia deve essere considerata la prima e
fondamentale espressione.

Infatti, la famiglia è la formazione sociale primaria nella quale si
esplica la personalità dell’individuo e vengono quindi tutelati i suoi
diritti inviolabili, conferendogli uno status (quello di persona
coniugata), che assurge a segno caratteristico all’interno della società e
che attribuisce un insieme di diritti e di doveri del tutto peculiari e
non sostituibili mediante l’esercizio dell’autonomia negoziale.

Il diritto di sposarsi configura un diritto fondamentale della persona,
riconosciuto a livello sopranazionale (artt. 12 e 16 della Dichiarazione
universale dei diritti dell’uomo del 1948, artt. 8 e 12 della Convenzione
per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali,
resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848 – Ratifica ed esecuzione
della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle
libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950 e del Protocollo
addizionale alla Convenzione stessa, firmato a Parigi il 20 marzo 1952 –
artt. 7 e 9 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea,
proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000), nonché in ambito nazionale (art. 2
Cost.). La libertà di sposarsi o di non sposarsi, e di scegliere il
coniuge autonomamente, riguarda la sfera dell’autonomia e
dell’individualità, sicché si risolve in una scelta sulla quale lo Stato
non può interferire, se non sussistono interessi prevalenti incompatibili,
nella fattispecie non ravvisabili.

L’unico importante diritto, in relazione al quale un contrasto si potrebbe
ipotizzare, sarebbe quello, spettante ai figli, di crescere in un ambiente
familiare idoneo, diritto corrispondente anche ad un interesse sociale.
Tale interesse, tuttavia, potrebbe incidere soltanto sul diritto delle
coppie omosessuali coniugate di avere figli adottivi. Si tratterebbe,
però, di un diritto distinto rispetto a quello di contrarre matrimonio,
tanto che alcuni ordinamenti, pur introducendo il matrimonio tra
omosessuali, hanno escluso il diritto di adozione. In ogni caso, la
disciplina di tale istituto nell’ordinamento italiano, ponendo l’accento
sulla necessità di valutare l’interesse del minore adottando, rimette al
giudice ogni decisione al riguardo.

Il rimettente, poi, prende in esame l’art. 3 Cost., rilevando che, poiché
il diritto di contrarre matrimonio è un momento essenziale di espressione
della dignità umana, esso deve essere garantito a tutti, senza
discriminazioni derivanti dal sesso o dalle condizioni personali, come
l’orientamento sessuale, con conseguente obbligo per lo Stato
d’intervenire in caso d’impedimenti al relativo esercizio.

Pertanto, se la finalità perseguita dall’art. 3 Cost. è quella di vietare
irragionevoli disparità di trattamento, la norma implicita che esclude gli
omosessuali dal diritto di contrarre matrimonio con persone dello stesso
sesso, così seguendo il proprio orientamento sessuale (non patologico né
illegale), non ha alcuna giustificazione razionale, soprattutto se posta a
confronto con l’analoga situazione delle persone transessuali che,
ottenuta la rettifica dell’attribuzione del sesso ai sensi della legge 14
aprile 1982, n. 164 (Norme in materia di rettificazione di attribuzione di
sesso), possono contrarre matrimonio con persone del proprio sesso di
nascita (il Tribunale ricorda che la conformità a Costituzione della
citata normativa è stata riconosciuta dalla Corte costituzionale con
sentenza n. 165 del 1985).

Secondo il rimettente, le affermazioni contenute in tale pronuncia ben
potrebbero ritenersi applicabili anche agli omosessuali. Comunque, la
legge n. 164 del 1982 avrebbe «profondamente mutato i connotati
dell’istituto del matrimonio civile, consentendone la celebrazione tra
soggetti dello stesso sesso biologico ed incapaci di procreare,
valorizzando così l’orientamento psicosessuale della persona». In questo
quadro, non sarebbe giustificabile la discriminazione tra omosessuali che
non vogliono effettuare alcun intervento chirurgico di adattamento, ai
quali il matrimonio è precluso, ed i transessuali che sono ammessi al
matrimonio pur appartenendo allo stesso sesso biologico ed essendo
incapaci di procreare.

Le opinioni contrarie al riconoscimento della libertà matrimoniale tra
persone dello stesso sesso sulla base di ragioni etiche, legate alla
tradizione o alla natura, non potrebbero essere condivise, sia per le
radicali trasformazioni intervenute nei costumi familiari, sia perché si
tratterebbe di tesi pericolose, in passato utilizzate per difendere gravi
discriminazioni poi riconosciute illegittime, come le disuguaglianze tra i
coniugi nel diritto matrimoniale italiano anteriore alla riforma o le
discriminazioni in danno delle donne.

Del resto, «per i diritti degli omosessuali, così come per quelli dei
transessuali, vi sono fortissime spinte, provenienti dal contesto europeo
e sopranazionale, a superare le discriminazioni di ogni tipo, compresa
quella che impedisce di formalizzare le unioni affettive».

Il Tribunale di Venezia, in relazione all’art. 29, primo comma, Cost.,
osserva che il significato della norma non è quello di riconoscere il
fondamento della famiglia in una sorta di “diritto naturale”, bensì quello
di affermare la preesistenza e l’autonomia della famiglia rispetto allo
Stato, così imponendo dei limiti al potere del legislatore statale, come
emerge dagli atti relativi al dibattito svolto in seno all’Assemblea
costituente, nel ricordo degli abusi in precedenza compiuti a difesa di
una certa tipologia di famiglia.

Peraltro, che la tutela della tradizione non rientri nelle finalità
dell’art. 29 Cost. e che famiglia e matrimonio siano istituti aperti alle
trasformazioni, sarebbe dimostrato dall’evoluzione che ne ha interessato
la disciplina dal 1948 ad oggi. Il rimettente procede ad una ricognizione
della normativa in materia, ricorda gli interventi di questa Corte a
tutela dell’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, nonché la riforma
attuata con la legge 19 maggio 1975, n. 151 (Riforma del diritto di
famiglia), e rileva che il significato costituzionale di famiglia, lungi
dall’essere ancorato ad una conformazione tipica ed inalterabile, si è al
contrario dimostrato permeabile ai mutamenti sociali, con le relative
ripercussioni sul regime giuridico familiare.

Sarebbero prive di fondamento, quindi, le tesi che giustificano
l’implicito divieto di matrimonio tra persone dello stesso sesso
ricorrendo ad argomenti correlati alla capacità procreativa della coppia
ed alla tutela della procreazione. Al riguardo, sarebbe sufficiente
sottolineare che la Costituzione e il diritto civile non prevedono la
capacità di avere figli come condizione per contrarre matrimonio, ovvero
l’assenza di tale capacità come condizione d’invalidità o causa di
scioglimento del matrimonio, sicché quest’ultimo e la filiazione sarebbero
istituti nettamente distinti.

Una volta escluso che il trattamento differenziato delle coppie
omosessuali rispetto a quelle eterosessuali possa trovare fondamento nel
dettato dell’art. 29 Cost., tale norma, nel momento in cui attribuisce
tutela costituzionale alla famiglia legittima, non costituirebbe un
ostacolo al riconoscimento giuridico del matrimonio tra persone dello
stesso sesso, ma anzi dovrebbe assurgere ad ulteriore parametro in base al
quale valutare la costituzionalità del divieto.

Infine, il rimettente richiama l’art. 117, primo comma, Cost., che impone
al legislatore il rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento
comunitario e dagli obblighi internazionali. Richiama al riguardo, quali
norme interposte, gli artt. 8, 12 e 14 della Convenzione per la
salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU). In
particolare, con riferimento all’art. 8, la Corte europea dei diritti
dell’uomo avrebbe accolto una nozione di “vita privata” e di tutela
dell’identità personale non limitata alla sfera individuale bensì estesa
alla vita di relazione, arrivando a configurare un dovere di positivo
intervento degli Stati per rimediare alle lacune suscettibili d’impedire
la piena realizzazione personale. È citata la sentenza Goodwin c. Regno
Unito in data 17 luglio 2002, con la quale la Corte di Strasburgo ha
dichiarato contrario alla Convenzione il divieto di matrimonio del
transessuale con persona del suo stesso sesso originario.

Il Tribunale di Venezia pone l’accento sul fatto che anche la Carta di
Nizza sancisce i diritti al rispetto della vita privata e familiare (art.
7), a sposarsi e a costituire una famiglia (art. 9), a non essere
discriminati (art. 21), collocandoli tra i diritti fondamentali
dell’Unione Europea. Non andrebbero trascurati, poi, gli atti delle
Istituzioni europee, che da tempo invitano gli Stati a rimuovere gli
ostacoli che si frappongono al matrimonio di coppie omosessuali, ovvero al
riconoscimento di istituti giuridici equivalenti, atti che rappresentano,
a prescindere dal loro valore giuridico, una presa di posizione a favore
del riconoscimento del diritto al matrimonio, o comunque alla unificazione
legislativa, nell’ambito degli Stati membri, della disciplina dettata per
la famiglia legittima, da estendere alle unioni omosessuali (tali atti
sono richiamati nell’ordinanza).

Da ultimo, il rimettente rileva che, negli ordinamenti di molte nazioni
con civiltà giuridica affine a quella italiana, si va delineando una
nozione di relazioni familiari tale da includere le coppie omosessuali.
Infatti, in alcuni Stati (Olanda, Belgio, Spagna) il divieto di sposare
persone dello stesso sesso è stato rimosso, mentre altri Paesi prevedono
istituti riservati alle unioni omosessuali con disciplina analoga a quella
del matrimonio, a volte con esclusione delle disposizioni relative alla
potestà sui figli e all’adozione. Fra i Paesi che ancora non hanno
introdotto il matrimonio o forme di tutela paramatrimoniale, molti
prevedono forme di registrazione pubblica delle famiglie di fatto,
comprese quelle omosessuali.

Sulla base delle considerazioni esposte, il Tribunale veneziano perviene
al convincimento sulla non manifesta infondatezza della questione di
legittimità costituzionale sollevata, che inoltre giudica rilevante perché
l’applicazione delle norme censurate non è superabile nel percorso
logico-giuridico da compiere per pervenire alla decisione della causa.

2. - I signori G. M. e S. G., si sono costituiti nel giudizio di
legittimità costituzionale, con ampia memoria depositata il 20 luglio
2009.

Dopo avere esposto i fatti da cui la vicenda prende le mosse ed aver
riportato il contenuto dell’ordinanza di rimessione, le parti private,
sottolineata la rilevanza della questione proposta, osservano che il
rimettente ha riconosciuto un dato incontrovertibile, cioè che nel vigente
ordinamento non sussiste alcun divieto espresso che impedisca a due
persone dello stesso sesso di contrarre matrimonio. La necessaria
eterosessualità dello stesso nascerebbe da una tradizione interpretativa,
sorta in un contesto sociale del tutto diverso dall’attuale e tramandata
in modo tralaticio, anche per i riflessi della disciplina canonistica
dell’istituto sul sistema civilistico.

La dimensione storica del fenomeno, tuttavia, non potrebbe essere di
ostacolo ad una rivisitazione della fattispecie, come hanno fatto altre
Corti costituzionali straniere. Né si potrebbe dedurre che
l’eterosessualità sia un carattere indefettibile dell’istituto
matrimoniale interpretando l’art. 29 Cost. a partire dalla lettera del
codice civile vigente, perché quell’articolo non costituzionalizza i
caratteri dell’istituto matrimoniale previsti dalla legge ordinaria o
emergenti dalla sua costante interpretazione. Il codice civile sarebbe
oggetto e non parametro del giudizio e, in ogni caso, «non potrebbe
divenire cifra per leggere il dato costituzionale. Sarebbe, infatti, una
petizione di principio affermare che il codice non viola il diritto a
contrarre matrimonio ex art. 29 poiché tale disposizione, alla luce del
codice stesso, prevede l’unione solo fra persone di sesso diverso. Con un
aprioristico rinvio per presupposizione, infatti, si attuerebbe una
sovversione della gerarchia delle fonti».

Pertanto, alla luce del principio personalistico che pervade l’intera
Carta costituzionale, bisognerebbe individuare il significato delle parole
“matrimonio” e “famiglia”, utilizzate nel citato art. 29. Detta norma
privilegia la famiglia fondata sul matrimonio. Ad avviso degli esponenti,
da ciò deriva che, se nella nostra società anche due persone dello stesso
sesso possono formare una famiglia, escluderle dal vincolo matrimoniale
non soltanto crea una discriminazione priva di qualsiasi razionalità, ma
fa sì che migliaia di cittadini si vedano negate dallo Stato quelle tutele
che altrimenti spetterebbero loro in virtù della norma costituzionale.

La fattispecie non sarebbe assimilabile alle unioni di fatto
eterosessuali, che trovano altrove copertura costituzionale (art. 2
Cost.), perché nelle unioni di fatto vi è una chiara scelta delle parti di
non rendere giuridico il progetto di vita che lega i conviventi, mentre
per le coppie formate da persone dello stesso sesso tale libertà non
sussiste nella misura in cui non possono scegliere se sposarsi oppure no.

Richiamata la nozione di famiglia come “società naturale”, contenuta
nell’ordinanza di rimessione, gli esponenti osservano che l’interesse
protetto dall’art. 29 Cost. è, in primo luogo, il diritto
all’autodeterminazione dell’individuo, al riparo da indebite ingerenze
dello Stato, tutte le volte in cui una persona decida di realizzare se
stessa in una relazione familiare. Per le persone omosessuali tale diritto
risulterebbe, attualmente, del tutto conculcato.

Non sarebbe possibile sostenere che i costituenti abbiano eletto
l’eterosessualità a caratteristica indefettibile della famiglia, i cui
diritti sono riconosciuti e garantiti dall’art. 29 Cost., tanto da
escludere dall’ambito applicativo di tale norma le coppie formate da
persone dello stesso sesso. Per le parti private sarebbe certo che il
fenomeno sussistesse anche ai tempi della Assemblea costituente, ma, in
quanto socialmente non rilevante, non poteva allora essere preso in alcuna
considerazione. Ciò vorrebbe dire che non si è optato per la famiglia
eterosessuale a scapito di quella omosessuale, riservando a questa una
minore dignità sociale e giuridica.

Tale stato di cose, però, non potrebbe impedire una rilettura del sistema,
in considerazione delle mutate condizioni sociali e giuridiche, stante la
rilevanza, sotto questo profilo, del diritto comunitario, ai sensi
dell’art. 117, primo comma, Cost., e soprattutto dei principi supremi
dell’ordinamento, quali l’eguaglianza (e quindi la non discriminazione) e
la tutela dei diritti fondamentali.

Le parti private proseguono osservando che il diritto vivente connota
l’istituto matrimoniale di una caratteristica (l’eterosessualità), che
l’art. 29 Cost. non suggerisce affatto, così impedendo alle persone
omosessuali di godere pienamente della loro cittadinanza e del diritto a
realizzare se stesse affettivamente e socialmente nell’ambito della
famiglia legittima.

Né sarebbe possibile che “società naturale” sia intesa come luogo della
procreazione, in quanto il matrimonio civile non sarebbe più
istituzionalmente orientato a tale finalità. Dal 1975 l’impotenza non
costituisce causa d’invalidità del matrimonio, se non quando sia materia
di errore in cui sia incorso l’altro coniuge (art. 122 cod. civ.).
Inoltre, possono contrarre matrimonio anche le persone che, avendo
cambiato sesso, sono inidonee alla generazione e quelle che, a causa
dell’età, tale attitudine più non hanno.

In definitiva, la procreazione sarebbe soltanto un elemento eventuale nel
rapporto coniugale e ciò dimostrerebbe quanto lontano sia il concetto di
famiglia da accogliere nell’ambito dell’art. 29 Cost. rispetto a quello
della tradizione giudaico-cristiana. Il matrimonio sarebbe, senza dubbio,
l’unione di due esistenze, i cui fini fondamentali coincidono con i
diritti e i doveri che i coniugi assumono al momento della celebrazione in
base all’art. 143 cod. civ., fini ai quali è estranea la prospettiva,
soltanto eventuale, della procreazione, altrimenti si dovrebbe considerare
impossibile la celebrazione di un matrimonio tutte le volte in cui sia
naturalisticamente impossibile per i nubendi procreare.

Gli esponenti passano, poi, a trattare del diritto al matrimonio come
diritto fondamentale della persona, richiamando (tra l’altro) la
giurisprudenza di questa Corte, che ha declinato il diritto stesso sia
sotto il profilo della libertà di contrarre il matrimonio con la persona
prescelta (sentenza n. 445 del 2002), sia sotto quello della libertà di
non sposarsi e di unirsi in altro modo (sentenza n. 166 del 1998), e
rilevando che i cittadini omosessuali non possono godere di queste due
libertà.

Dopo avere illustrato gli aspetti e le finalità di quel diritto, nonché le
prospettive correlate al suo esercizio anche nel quadro della tutela delle
minoranze discriminate, essi pongono l’accento sull’esigenza che il citato
diritto fondamentale sia garantito a tutti senza alcuna distinzione, anche
nel caso in cui un cittadino si trovi in quella particolare condizione
personale che è l’omosessualità. E ciò non in astratto, secondo la tesi di
quanti ritengono che sarebbe rimessa al legislatore ordinario la scelta
sull’ammissione o meno al matrimonio delle coppie formate da persone dello
stesso sesso. In presenza di un diritto fondamentale spetta alla Corte
costituzionale, o al giudice di merito in via interpretativa, rimuovere
gli ostacoli che ne impediscono il godimento a tutti, tanto più se si
considera che non si sta parlando di un divieto normativo bensì di una
mera prassi interpretativa.

Nel caso in esame, «realizzarsi pienamente come persona significa poter
vivere fino in fondo il proprio orientamento sessuale, scegliendo come
partner di vita, all’interno di una relazione giuridica qualificata qual è
il matrimonio, una persona del proprio sesso».

Pertanto l’interpretazione che esclude le coppie formate da persone dello
stesso sesso dal matrimonio, ad avviso degli esponenti, costituisce un
limite irragionevole all’esercizio della libertà personale, disconoscendo
la capacità della persona di scegliere ciò che è meglio per sé in una
dimensione relazionale.

Le parti private richiamano, poi, la tesi secondo cui l’art. 29 Cost.
escluderebbe la riconoscibilità giuridica delle coppie omosessuali, anche
soltanto attraverso un istituto alternativo al matrimonio, e ne sostengono
l’infondatezza, rilevando che il detto articolo non può essere
interpretato in modo da violare uno dei principii fondamentali
dell’ordinamento costituzionale, ossia il principio di eguaglianza. Dopo
avere argomentato diffusamente sul punto, anche in ordine ai profili
economici dell’estensione del matrimonio alle coppie omosessuali, gli
esponenti osservano che nella nostra società, non più caratterizzata da
un’omogeneità sul piano culturale, il principio di eguaglianza deve
assumere una dimensione nuova, volta a favorire il pluralismo e
l’inclusione sociale. Con tale concezione contrasta un uso del diritto che
abbia come effetto di escludere un soggetto dal godimento di un diritto o
libertà fondamentale in virtù di una sua condizione personale. E ciò senza
considerare la contemporanea violazione dell’art. 2 Cost., perché in tal
modo s’impedisce l’esercizio del diritto alla piena realizzazione di sé.

Inoltre, le parti private pongono l’accento sulla normativa comunitaria e
internazionale già richiamata nell’ordinanza di rimessione.

Esse, poi, criticano la tesi secondo cui un giudice, fosse anche la Corte
costituzionale, non potrebbe spingersi fino al punto di accogliere la
richiesta dei ricorrenti diretta ad ottenere le pubblicazioni matrimoniali
sul presupposto del riconoscimento del loro diritto a sposarsi.

Ribadito che si è in presenza di una prassi interpretativa, derivante da
elementi testuali della legislazione ordinaria, risalente a ben prima
dell’entrata in vigore della Costituzione, e che tale prassi contrasta
(per quanto detto in precedenza) con norme e principi supremi di rango
costituzionale, gli esponenti sostengono che, nel caso in esame, non si
tratta di creare un istituto nuovo, o di affermare l’esistenza di un nuovo
diritto (operazioni precluse al potere giudiziario), perché il diritto al
matrimonio sussiste già ed ha chiari connotati, ma, pur essendo un diritto
fondamentale, ne viene concesso il godimento soltanto alle persone
eterosessuali.

Infine, sono richiamati alcuni passaggi argomentativi di Corti straniere,
che si sono occupate della tenuta costituzionale, nei rispettivi sistemi,
del divieto di matrimonio tra persone dello stesso sesso.

In chiusura, si chiede a questa Corte di acquisire un’adeguata base
informativa sul numero di coppie formate da persone dello stesso sesso,
che vivono sul territorio italiano, e sull’impatto dell’attuale prassi
interpretativa, che esclude le persone dello stesso sesso dal matrimonio,
sul loro benessere psicosociale.

3. - Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso
dall’Avvocatura dello Stato, ha spiegato intervento nel presente giudizio
di legittimità costituzionale con atto depositato il 21 luglio 2009,
chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile e, comunque,
manifestamente infondata.

La difesa dello Stato prende le mosse dal rilievo che la normativa
riguardante l’istituto del matrimonio, sia quella prevista dal diritto
civile, sia quella di rango costituzionale, si riferisce senz’altro
all’unione fra persone di sesso diverso.

Il requisito della diversità del sesso, che si ricava direttamente
dall’art. 107 cod. civ., nonché da altre numerose disposizioni dello
stesso codice, è tradizionalmente e costantemente annoverato dalla
dottrina e dalla giurisprudenza tra i requisiti indispensabili per
l’esistenza del matrimonio. Infatti, ad avviso dell’Avvocatura generale,
l’istituto del matrimonio nel nostro ordinamento si configura come un
istituto pubblicistico diretto a disciplinare determinati effetti, che il
legislatore tutela come diretta conseguenza di un rapporto di convivenza
tra persone di sesso diverso (filiazione, diritti successori, legge in
tema di adozione).

Il richiamo all’art. 2 Cost., operato dal rimettente, non sarebbe decisivo
né conferente.

Tale disposto, per costante interpretazione di questa Corte, «deve essere
ricollegato alle norme costituzionali concernenti singoli diritti e
garanzie fondamentali, quando meno nel senso che non esistono altri
diritti fondamentali inviolabili che non siano necessariamente conseguenti
a quelli costituzionalmente previsti» (sentenza n. 98 del 1979), tra i
quali non sarebbe compresa la pretesa azionata dai ricorrenti nel giudizio
a quo.

La collocazione dell’art. 2 Cost. fra i “principi fondamentali” ed invece
la collocazione dell’art. 29 nel titolo II tra i “rapporti etico-sociali”
costituirebbero non soltanto l’argomentazione testuale, ma anche
l’argomentazione più significativa per escludere la fondatezza
dell’assunto contenuto nell’ordinanza di rimessione, non essendo
ovviamente vietata nel nostro ordinamento la convivenza tra persone dello
stesso sesso. Infatti, la dottrina più recente tende a ricondurre la
tutela delle coppie omosessuali nell’ambito della tutela delle coppie di
fatto.

Non sussisterebbe alcuna violazione del principio di eguaglianza, di cui
all’art. 3 Cost., perché questo impone un uguale trattamento per
situazioni uguali e trattamento differenziato per situazioni di fatto
difformi.

La difesa dello Stato osserva che la dottrina, nel commentare il citato
art. 3, ha ritenuto il divieto di discriminazione in base al sesso «in
qualche misura meno rigido rispetto ad altri», sia sul piano della
correlazione di alcune distinzioni ad obiettive differenze tra i sessi,
sia sul piano normativo, nella misura in cui in Costituzione si rinvengono
norme idonee a giustificare, entro certi limiti, distinzioni fondate sul
sesso, «in particolare, gli articoli 29, 37 e 51».

La dottrina avrebbe anche ritenuto il richiamo al principio di
ragionevolezza, espresso nel medesimo art. 3 Cost., non pertinente nel
caso in esame, perché un trattamento normativo differenziato potrebbe
ritenersi “ragionevole”, in quanto diretto a realizzare altri e prevalenti
valori costituzionali.

Neppure sarebbe pertinente il riferimento alla giurisprudenza in tema di
illegittime discriminazioni subite in precedenza dalle persone
transessuali, perché il problema della “identità di sesso biologico” in
quell’ipotesi avrebbe assunto una rilevanza diversa.

Quanto all’art. 29 Cost., detta norma, stabilendo che «La Repubblica
riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul
matrimonio», delinea una “relazione biunivoca” tra le nozioni in essa
richiamate e, altresì, «vincola il legislatore a tenere distinte la
disciplina dell’istituzione familiare da quelle eventualmente dedicate a
qualsiasi altro tipo di formazione sociale, ancorché avente caratteri
analoghi».

Ad avviso dell’Avvocatura, in esito al dibattito sviluppatosi
nell’Assemblea costituente in sede di elaborazione dell’art. 29, si
sarebbero delineate due ricostruzioni circa il significato di tale norma.

La prima sottolinea il carattere pregiuridico dell’istituto familiare,
identificando un solo modello univoco e stabile; la seconda attribuisce
all’art. 29 un contenuto mutevole con l’evoluzione dei costumi sociali.
Parte della dottrina, invece, ha superato tale dicotomia, ritenendo che la
norma faccia riferimento ad un modello di famiglia che, per quanto
suscettibile di sviluppi e cambiamenti, sia però caratterizzato “da un
nucleo duro”, che trova «il suo contenuto minimo e imprescindibile
nell’elemento della diversità di sesso fra i coniugi» e perciò mantiene il
significato originario fissato nella Carta, senza mutarlo in maniera
differente e distante dall’iniziale formulazione.

Infine, non sarebbe ravvisabile contrasto con l’art. 117, primo comma,
Cost., in relazione ai vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e
dagli obblighi internazionali.

La difesa dello Stato premette che l’ordinamento comunitario non ha
legiferato in materia matrimoniale, ma si è limitato in varie risoluzioni
ad indicare criteri e principi, lasciando ai singoli Paesi membri la
facoltà di adeguamento delle legislazioni nazionali.

La libertà lasciata ai legislatori europei ha dato luogo, perciò, a
molteplici forme di tutela delle coppie omosessuali.

Non vi sarebbe contrasto con gli artt. 7, 9 e 21 della Carta di Nizza,
parte integrante del Trattato di Lisbona, in quanto proprio l’art. 9, che
riconosce il diritto di sposarsi e di costituire una famiglia, rinvia alla
legge nazionale per la determinazione delle condizioni per l’esercizio di
tale diritto.

Per quel che riguarda gli obblighi internazionali e, in particolare, il
rispetto della CEDU, la citata normativa del codice civile italiano non
appare in contrasto con gli artt. 8 (diritto al rispetto della vita
familiare), 12 (diritto al matrimonio) e 14 (divieto di discriminazione)
della CEDU, dal momento che proprio l’art. 12 non solo riafferma che
l’istituto del matrimonio riguarda persone di sesso diverso, ma rinvia
alle leggi nazionali per la determinazione delle condizioni per
l’esercizio del relativo diritto.

In definitiva, al di là del carattere eterogeneo dei modelli di
riconoscimento adottati dagli Stati europei, l’elemento che li accomuna
sarebbe la “centralità del legislatore” nel processo d’inclusione delle
coppie omosessuali nell’ambito degli effetti legali delle discipline di
tutela.

Peraltro, un intervento della Corte costituzionale di tipo manipolativo
non sarebbe realizzabile attraverso un’operazione lessicale di mera
sostituzione delle parole “marito” e “moglie”, con la parola “coniugi”,
perché in realtà si tratterebbe di operare un nuovo disegno del tessuto
normativo codicistico, alla luce di una norma costituzionale che proprio
ad esso rimanda; e tale compito sarebbe necessariamente riservato al
legislatore.

4. - La Corte di appello di Trento, con l’altra ordinanza indicata in
epigrafe, ha sollevato, in riferimento agli artt. 2, 3 e 29 Cost.,
questione di legittimità costituzionale degli artt. 93, 96, 98, 107, 108,
143, 143-bis, 156-bis cod. civ., nella parte in cui, complessivamente
valutati, non consentono agli individui di contrarre matrimonio con
persone dello stesso sesso.

La Corte territoriale premette di essere stata adita in sede di reclamo,
ai sensi dell’art. 739 del codice di procedura civile, proposto da due
coppie (ciascuna formata da persone dello stesso sesso) avverso un decreto
del Tribunale di Trento, che aveva respinto l’opposizione formulata dai
reclamanti nei confronti di un provvedimento dell’ufficiale di stato
civile del Comune di Trento. Con tale provvedimento il detto funzionario
aveva rifiutato di procedere alle pubblicazioni di matrimonio richieste
dagli opponenti, non ritenendo ammissibile nell’ordinamento italiano il
matrimonio tra persone del medesimo sesso; e il rifiuto era stato
giudicato legittimo dal Tribunale.

La Corte rimettente, dopo aver ritenuto infondata la domanda principale
diretta ad ottenere l’ordine all’ufficiale di stato civile di procedere
alle pubblicazioni, esamina la questione di legittimità costituzionale, in
via subordinata proposta dai reclamanti.

Dopo aver ricordato l’ordinanza del Tribunale di Venezia, la rimettente
osserva che, rispetto all’epoca nella quale sono state emanate le norme
disciplinanti il matrimonio, «si è verificata un’inarrestabile
trasformazione della società e dei costumi che ha portato al superamento
del monopolio detenuto dal modello di famiglia tradizionale ed al
contestuale spontaneo sorgere di forme diverse di convivenza che chiedono
(talora a gran voce) di essere tutelate e disciplinate».

In questo quadro, ad avviso della Corte trentina è necessario chiedersi se
l’istituto del matrimonio, nell’attuale disciplina, sia o meno in
contrasto con i principii costituzionali.

L’interrogativo si porrebbe, in particolare, rispetto al principio di
eguaglianza di cui all’art. 3 Cost. In sostanza, poiché il diritto di
contrarre matrimonio costituisce «un momento essenziale di espressione
della dignità umana (garantito costituzionalmente dall’art. 2 Cost. e, a
livello sopranazionale, dagli artt. 12 e 16 della Dichiarazione Universale
dei diritti dell’uomo del 1948, dagli artt. 8 e 12 CEDU e dagli artt. 7 e
9 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea proclamata a
Nizza il 7 dicembre 2000), vi è da chiedersi se sia legittimo impedire
quello tra omosessuali ovvero se, invece, esso debba essere garantito a
tutti, senza discriminazioni derivanti dal sesso o dalle condizioni
personali (quali l’orientamento sessuale), con conseguente obbligo dello
Stato di intervenire in caso di impedimenti all’esercizio di esso».

Sarebbe innegabile che la questione sia rilevante ai fini della decisione,
perché la dichiarazione di illegittimità costituzionale delle norme
disciplinanti il matrimonio, nella parte in cui non consentono il
matrimonio tra omosessuali, influirebbe in modo determinante sull’esito
del giudizio a quo.

Inoltre, non si potrebbe sostenere che la questione sia manifestamente
infondata, perché «quanto sopra osservato non può essere superato da
un’interpretazione secondo cui il matrimonio deve e può essere consentito
solo a coppie eterosessuali a ragione della sua funzione sociale,
principio secondo taluni ricavabile dall’art. 29 Cost. (norma che
riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul
matrimonio). Detto principio, infatti, si limita a riconoscere alla
famiglia un suo ruolo naturale, nel senso che da un lato lo Stato non può
prescindere da tale realtà sociale a cui tende per natura la stragrande
maggioranza degli individui e, dall’altro, afferma che la famiglia è
fondata sul matrimonio; ma certo esso non giunge ad escludere la tutela
della famiglia di fatto (che prescinde dal matrimonio) o ad affermare la
funzione della famiglia come granaio dello Stato».

Ad avviso della rimettente, «l’evoluzione legislativa e giurisprudenziale,
molto ben ricordata dal Tribunale di Venezia nell’ordinanza sopra citata,
restituisce oggi un concetto di famiglia che porta ad escludere che in
forza dell’art. 29 Cost. possa darsi rilevanza solo alla famiglia
legittima funzionalmente finalizzata alla capacità procreativa dei coniugi
sicché, semmai, è anche in relazione a tale norma di rango costituzionale
che la questione sollevata deve essere giudicata meritevole di attenzione
da parte del Giudice delle leggi».

5. - Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso
dall’Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto nel giudizio di
legittimità costituzionale con atto depositato il 3 novembre 2009,
chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile e, comunque,
infondata. La difesa dello Stato svolge argomenti analoghi a quelli
esposti nel giudizio promosso con l’ordinanza del Tribunale di Venezia.

6. - Si sono altresì costituite, con atto depositato il 2 novembre 2009,
le parti private nel giudizio promosso con l’ordinanza della Corte di
appello di Trento, signori O. E. e L. L. e signore Z. E. e O. M.,
dichiarando di ritenere ammissibile e fondata la questione sollevata e
chiedendone l’accoglimento.

7. - In quest’ultimo giudizio ha spiegato intervento, con atto depositato
il 3 novembre 2009, l’Associazione radicale Certi Diritti, in persona del
segretario e legale rappresentante pro-tempore, che, richiamando gli
obiettivi statutari dell’Associazione medesima, ha dichiarato di ritenersi
legittimata ad intervenire e di ritenere ammissibili e fondate le
questioni di legittimità costituzionale sollevate dalla Corte d’appello di
Trento, riservandosi ogni ulteriore opportuna illustrazione delle proprie
difese e il deposito di ogni eventuale documentazione.

8.- Con atto depositato il 25 febbraio 2010 nel giudizio di legittimità
costituzionale promosso con la citata ordinanza della Corte di appello di
Trento, hanno spiegato intervento i signori C. M. e G. V., P. G. B. e C.
G. R., R. F. R. P. C. e R. Z.

Gli intervenienti, tutti di sesso maschile, premettono che, con tre atti
in pari data 5 novembre 2009, comunicati con lettere inviate l’11 novembre
2009, l’ufficiale di stato civile del Comune di Milano ha reso noto il
rifiuto di procedere alle pubblicazioni di matrimonio da loro richieste.

Essi osservano che l’interesse proprio e diretto ad intervenire è sorto in
data successiva alla scadenza degli ordinari termini del giudizio
costituzionale e per questo motivo l’atto di intervento è depositato nel
termine di venti giorni antecedenti la data dell’udienza fissata per la
discussione. Considerato che si tratta di circostanza temporale
indipendente dalla volontà dei ricorrenti e comprovata da documenti
formati dalla pubblica amministrazione, richiamato per quanto occorra in
via analogica il disposto dell’art. 153, secondo comma, cod. proc. civ.,
essi affermano che l’intervento deve essere ritenuto tempestivo e
chiedono, comunque, di essere rimessi in termini.

Inoltre, essi affermano che l’intervento deve essere ritenuto ammissibile,
alla luce delle innovazioni introdotte dalla Corte costituzionale, che ha
espresso negli ultimi anni un orientamento progressivamente favorevole
all’ammissibilità, caso per caso, «soprattutto laddove soggetti singoli o
associazioni vantassero un rapporto diretto con la questione di
legittimità costituzionale in un processo che ha ad oggetto un interesse
pubblico: quello alla decisione sulla legittimità costituzionale della
legge».

In questo quadro, l’interesse diretto, specifico e concreto degli
intervenienti alla pronuncia di questa Corte non potrebbe essere posto in
dubbio, perché la declaratoria di fondatezza della questione consentirebbe
di ottenere le pubblicazioni di matrimonio già richieste e rifiutate
dall’ufficiale di stato civile in base al rilievo dell’inammissibilità,
nel vigente ordinamento, di matrimoni tra persone dello stesso sesso.

Nel merito, gli intervenienti svolgono considerazioni analoghe a quelle
già in precedenza richiamate a sostegno della fondatezza della questione.

9. - In prossimità dell’udienza di discussione le parti private nei due
giudizi di legittimità costituzionale, la Presidenza del Consiglio dei
Ministri e l’Associazione radicale Certi Diritti hanno depositato memorie
a sostegno delle rispettive richieste.

Considerato in diritto

1. - Il Tribunale di Venezia, con l’ordinanza indicata in epigrafe, ha
sollevato, in riferimento agli articoli 2, 3, 29 e 117, primo comma, della
Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli articoli 93,
96, 98, 107, 108, 143, 143-bis, 156-bis del codice civile, «nella parte in
cui, sistematicamente interpretati, non consentono che le persone di
orientamento omosessuale possano contrarre matrimonio con persone dello
stesso sesso».

Il giudice a quo premette di essere chiamato a pronunciare in un giudizio
promosso da due persone di sesso maschile, in opposizione, ai sensi
dell’art. 98 di detto codice, avverso l’atto col quale l’ufficiale di
stato civile del Comune di Venezia ha rifiutato di procedere alla
pubblicazione di matrimonio dagli stessi richiesta, ritenendola in
contrasto con la normativa vigente, costituzionale e ordinaria, in quanto
l’istituto del matrimonio, nell’ordinamento giuridico italiano, sarebbe
incentrato sulla diversità di sesso tra i coniugi.

Il Tribunale veneziano riferisce gli argomenti svolti dai ricorrenti, i
quali hanno rilevato che, nel vigente ordinamento, non esisterebbe una
nozione di matrimonio, né un suo divieto espresso tra persone dello stesso
sesso. Essi si richiamano alla Costituzione e alla Carta di Nizza,
rimarcando che l’interpretazione letterale delle norme del codice civile,
posta a fondamento del diniego delle pubblicazioni, sarebbe
costituzionalmente illegittima con particolare riguardo agli artt. 2, 3,
10, secondo comma, e 29 Cost.

Tanto premesso, il rimettente rileva che, nell’ordinamento italiano, il
matrimonio tra persone dello stesso sesso non è previsto né vietato in
modo espresso. Peraltro, pure in assenza di una norma definitoria,
«l’istituto del matrimonio, così come previsto nell’attuale ordinamento
italiano, si riferisce indiscutibilmente solo al matrimonio tra persone di
sesso diverso». Ad avviso del Tribunale, il chiaro tenore delle
disposizioni del codice, regolatrici dell’istituto in questione, non
consentirebbe di estenderlo anche a persone dello stesso sesso. Si
tratterebbe di una forzatura non consentita ai giudici (diversi da quello
costituzionale), «a fronte di una consolidata e ultramillenaria nozione di
matrimonio come unione di un uomo e di una donna».

D’altra parte, secondo il Tribunale non si possono ignorare le rapide
trasformazioni della società e dei costumi, il superamento del monopolio
detenuto dal modello di famiglia tradizionale, la nascita spontanea di
forme diverse (seppur minoritarie) di convivenza, che chiedono protezione,
si ispirano al modello tradizionale e, come quello, mirano ad essere
considerate e disciplinate. Nuovi bisogni, legati anche all’evoluzione
della cultura e della civiltà, chiedono tutela, imponendo un’attenta
meditazione sulla persistente compatibilità dell’interpretazione
tradizionale con i princìpi costituzionali.

Ciò posto, il Tribunale di Venezia, prendendo le mosse dal rilievo che il
diritto di sposarsi costituisce un diritto fondamentale della persona,
riconosciuto a livello sopranazionale ed in ambito nazionale (art. 2
Cost.), illustra le censure riferite ai diversi parametri costituzionali
evocati, pervenendo al convincimento sulla non manifesta infondatezza
della questione promossa, che inoltre giudica rilevante perché
l’applicazione delle norme censurate non è superabile nel percorso
logico-giuridico da compiere al fine di pervenire alla decisione della
causa.

2. - La Corte di appello di Trento, con l’altra ordinanza indicata in
epigrafe, ha sollevato, in riferimento agli artt. 2, 3 e 29 Cost.,
questione di legittimità costituzionale degli artt. 93, 96, 98, 107, 108,
143, 143-bis, 156-bis cod. civ., nella parte in cui, complessivamente
valutati, non consentono agli individui di contrarre matrimonio con
persone dello stesso sesso.

La Corte territoriale premette di essere stata adita in sede di reclamo,
ai sensi dell’articolo 739 del codice di procedura civile, proposto da due
coppie (ciascuna formata da persone dello stesso sesso) avverso il decreto
del Tribunale di Trento, che aveva respinto l’opposizione formulata dai
reclamanti nei confronti di un provvedimento dell’ufficiale di stato
civile del Comune di Trento. Con tale provvedimento il detto funzionario
aveva rifiutato di procedere alle pubblicazioni di matrimonio richieste
dagli opponenti, non ritenendo ammissibile nell’ordinamento italiano il
matrimonio tra persone del medesimo sesso; ed il rifiuto era stato
giudicato legittimo dal Tribunale.

La Corte rimettente, dopo aver ritenuto infondata la domanda principale
diretta ad ottenere l’ordine all’ufficiale di stato civile di procedere
alle pubblicazioni, passa all’esame della questione di legittimità
costituzionale, in via subordinata proposta dai reclamanti, svolgendo, in
relazione alle censure prospettate, considerazioni analoghe a quelle
esposte dal Tribunale di Venezia.

3. - I due giudizi di legittimità costituzionale, avendo ad oggetto la
medesima questione, vanno riuniti per essere decisi con unica sentenza.

4. - In via preliminare, deve essere confermata l’ordinanza, adottata nel
corso dell’udienza pubblica ed allegata alla presente sentenza, con la
quale sono stati dichiarati inammissibili gli interventi dell’Associazione
radicale Certi Diritti e dei signori C. M. e G. V., P. G. B. e C. G. R.,
R. F. R. P. C. e R. Z. Ciò in applicazione del consolidato orientamento
della giurisprudenza costituzionale, richiamato nell’ordinanza, secondo
cui non sono ammissibili gli interventi, nel giudizio di legittimità
costituzionale in via incidentale, di soggetti che non siano parti nel
giudizio a quo, né siano titolari di un interesse qualificato, inerente in
modo diretto ed immediato al rapporto sostanziale dedotto in causa e non
semplicemente regolato, al pari di ogni altro, dalla norma o dalle norme
oggetto di censura, avuto altresì riguardo al rilievo che l’ammissibilità
dell’intervento ad opera di un terzo, titolare di un interesse soltanto
analogo a quello dedotto nel giudizio principale, contrasterebbe con il
carattere incidentale del detto giudizio di legittimità.

5. - La questione, sollevata dalle due ordinanze di rimessione, in
riferimento all’art. 2 Cost., deve essere dichiarata inammissibile, perché
diretta ad ottenere una pronunzia additiva non costituzionalmente
obbligata (ex plurimis: ordinanze n. 243 del 2009, n. 316 del 2008, n. 185
del 2007, n. 463 del 2002).

6. - Le dette ordinanze muovono entrambe dal presupposto che l’istituto
del matrimonio civile, come previsto nel vigente ordinamento italiano, si
riferisce soltanto all’unione stabile tra un uomo e una donna. Questo dato
emerge non soltanto dalle norme censurate, ma anche dalla disciplina della
filiazione legittima (artt. 231 e ss. cod. civ. e, con particolare
riguardo all’azione di disconoscimento, artt. 235, 244 e ss. dello stesso
codice), e da altre norme, tra le quali, a titolo di esempio, si può
menzionare l’art. 5, primo e secondo comma, della legge 1 dicembre 1970,
n. 898 (Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio), nonché dalla
normativa in materia di ordinamento dello stato civile.

In sostanza, l’intera disciplina dell’istituto, contenuta nel codice
civile e nella legislazione speciale, postula la diversità di sesso dei
coniugi, nel quadro di «una consolidata ed ultramillenaria nozione di
matrimonio», come rileva l’ordinanza del Tribunale veneziano.

Nello stesso senso è la dottrina, in maggioranza orientata a ritenere che
l’identità di sesso sia causa d’inesistenza del matrimonio, anche se una
parte parla di invalidità. La rara giurisprudenza di legittimità, che
(peraltro, come obiter dicta) si è occupata della questione, ha
considerato la diversità di sesso dei coniugi tra i requisiti minimi
indispensabili per ravvisare l’esistenza del matrimonio (Corte di
cassazione, sentenze n. 7877 del 2000, n. 1304 del 1990 e n. 1808 del
1976).

7. - Ferme le considerazioni che precedono, si deve dunque stabilire se il
parametro costituzionale evocato dai rimettenti imponga di pervenire ad
una declaratoria d’illegittimità della normativa censurata (con eventuale
applicazione dell’art. 27, ultima parte, della legge 11 marzo 1953, n. 87
– Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte
costituzionale), estendendo alle unioni omosessuali la disciplina del
matrimonio civile, in guisa da colmare il vuoto conseguente al fatto che
il legislatore non si è posto il problema del matrimonio omosessuale.

8. - L’art. 2 Cost. dispone che la Repubblica riconosce e garantisce i
diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni
sociali ove si svolge la sua personalità e richiede l’adempimento dei
doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.

Orbene, per formazione sociale deve intendersi ogni forma di comunità,
semplice o complessa, idonea a consentire e favorire il libero sviluppo
della persona nella vita di relazione, nel contesto di una valorizzazione
del modello pluralistico. In tale nozione è da annoverare anche l’unione
omosessuale, intesa come stabile convivenza tra due persone dello stesso
sesso, cui spetta il diritto fondamentale di vivere liberamente una
condizione di coppia, ottenendone – nei tempi, nei modi e nei limiti
stabiliti dalla legge – il riconoscimento giuridico con i connessi diritti
e doveri.

Si deve escludere, tuttavia, che l’aspirazione a tale riconoscimento – che
necessariamente postula una disciplina di carattere generale, finalizzata
a regolare diritti e doveri dei componenti della coppia – possa essere
realizzata soltanto attraverso una equiparazione delle unioni omosessuali
al matrimonio. È sufficiente l’esame, anche non esaustivo, delle
legislazioni dei Paesi che finora hanno riconosciuto le unioni suddette
per verificare la diversità delle scelte operate.

Ne deriva, dunque, che, nell’ambito applicativo dell’art. 2 Cost., spetta
al Parlamento, nell’esercizio della sua piena discrezionalità, individuare
le forme di garanzia e di riconoscimento per le unioni suddette, restando
riservata alla Corte costituzionale la possibilità d’intervenire a tutela
di specifiche situazioni (come è avvenuto per le convivenze more uxorio:
sentenze n. 559 del 1989 e n. 404 del 1988). Può accadere, infatti, che,
in relazione ad ipotesi particolari, sia riscontrabile la necessità di un
trattamento omogeneo tra la condizione della coppia coniugata e quella
della coppia omosessuale, trattamento che questa Corte può garantire con
il controllo di ragionevolezza.

9. - La questione sollevata con riferimento ai parametri individuati negli
artt. 3 e 29 Cost. non è fondata.

Occorre prendere le mosse, per ragioni di ordine logico, da quest’ultima
disposizione. Essa stabilisce, nel primo comma, che «La Repubblica
riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul
matrimonio», e nel secondo comma aggiunge che «Il matrimonio è ordinato
sulla eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti
dalla legge a garanzia dell’unità familiare».

La norma, che ha dato luogo ad un vivace confronto dottrinale tuttora
aperto, pone il matrimonio a fondamento della famiglia legittima, definita
“società naturale” (con tale espressione, come si desume dai lavori
preparatori dell’Assemblea costituente, si volle sottolineare che la
famiglia contemplata dalla norma aveva dei diritti originari e
preesistenti allo Stato, che questo doveva riconoscere).

Ciò posto, è vero che i concetti di famiglia e di matrimonio non si
possono ritenere “cristallizzati” con riferimento all’epoca in cui la
Costituzione entrò in vigore, perché sono dotati della duttilità propria
dei princìpi costituzionali e, quindi, vanno interpretati tenendo conto
non soltanto delle trasformazioni dell’ordinamento, ma anche
dell’evoluzione della società e dei costumi. Detta interpretazione, però,
non può spingersi fino al punto d’incidere sul nucleo della norma,
modificandola in modo tale da includere in essa fenomeni e problematiche
non considerati in alcun modo quando fu emanata.

Infatti, come risulta dai citati lavori preparatori, la questione delle
unioni omosessuali rimase del tutto estranea al dibattito svoltosi in sede
di Assemblea, benché la condizione omosessuale non fosse certo
sconosciuta. I costituenti, elaborando l’art. 29 Cost., discussero di un
istituto che aveva una precisa conformazione ed un’articolata disciplina
nell’ordinamento civile. Pertanto, in assenza di diversi riferimenti, è
inevitabile concludere che essi tennero presente la nozione di matrimonio
definita dal codice civile entrato in vigore nel 1942, che, come sopra si
è visto, stabiliva (e tuttora stabilisce) che i coniugi dovessero essere
persone di sesso diverso. In tal senso orienta anche il secondo comma
della disposizione che, affermando il principio dell’eguaglianza morale e
giuridica dei coniugi, ebbe riguardo proprio alla posizione della donna
cui intendeva attribuire pari dignità e diritti nel rapporto coniugale.

Questo significato del precetto costituzionale non può essere superato per
via ermeneutica, perché non si tratterebbe di una semplice rilettura del
sistema o di abbandonare una mera prassi interpretativa, bensì di
procedere ad un’interpretazione creativa.

Si deve ribadire, dunque, che la norma non prese in considerazione le
unioni omosessuali, bensì intese riferirsi al matrimonio nel significato
tradizionale di detto istituto.

Non è casuale, del resto, che la Carta costituzionale, dopo aver trattato
del matrimonio, abbia ritenuto necessario occuparsi della tutela dei figli
(art. 30), assicurando parità di trattamento anche a quelli nati fuori dal
matrimonio, sia pur compatibilmente con i membri della famiglia legittima.
La giusta e doverosa tutela, garantita ai figli naturali, nulla toglie al
rilievo costituzionale attribuito alla famiglia legittima ed alla
(potenziale) finalità procreativa del matrimonio che vale a differenziarlo
dall’unione omosessuale.

In questo quadro, con riferimento all’art. 3 Cost., la censurata normativa
del codice civile che, per quanto sopra detto, contempla esclusivamente il
matrimonio tra uomo e donna, non può considerarsi illegittima sul piano
costituzionale. Ciò sia perché essa trova fondamento nel citato art. 29
Cost., sia perché la normativa medesima non dà luogo ad una irragionevole
discriminazione, in quanto le unioni omosessuali non possono essere
ritenute omogenee al matrimonio.

Il richiamo, contenuto nell’ordinanza di rimessione del Tribunale di
Venezia, alla legge 14 aprile 1982, n. 164 (Norme in materia di
rettificazione di attribuzione di sesso), non è pertinente.

La normativa ora citata – sottoposta a scrutinio da questa Corte che, con
sentenza n. 161 del 1985, dichiarò inammissibili o non fondate le
questioni di legittimità costituzionale all’epoca promosse – prevede la
rettificazione dell’attribuzione di sesso in forza di sentenza del
tribunale, passata in giudicato, che attribuisca ad una persona un sesso
diverso da quello enunciato dall’atto di nascita, a seguito di intervenute
modificazioni dei suoi caratteri sessuali (art. 1).

Come si vede, si tratta di una condizione del tutto differente da quella
omosessuale e, perciò, inidonea a fungere da tertium comparationis. Nel
transessuale, infatti, l’esigenza fondamentale da soddisfare è quella di
far coincidere il soma con la psiche ed a questo effetto è indispensabile,
di regola, l’intervento chirurgico che, con la conseguente rettificazione
anagrafica, riesce in genere a realizzare tale coincidenza (sentenza n.
161 del 1985, punto tre del Considerato in diritto). La persona è ammessa
al matrimonio per l’avvenuto intervento di modificazione del sesso,
autorizzato dal tribunale. Il riconoscimento del diritto di sposarsi a
coloro che hanno cambiato sesso, quindi, costituisce semmai un argomento
per confermare il carattere eterosessuale del matrimonio, quale previsto
nel vigente ordinamento.

10. - Resta da esaminare il parametro riferito all’art. 117, primo comma,
Cost. (prospettato soltanto nell’ordinanza del Tribunale di Venezia).

Il rimettente in primo luogo evoca, quali norme interposte, gli artt. 8
(diritto al rispetto della vita privata e familiare), 12 (diritto al
matrimonio) e 14 (divieto di discriminazione) della Convenzione europea
per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali
(CEDU), ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848
(Ratifica ed esecuzione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti
dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950,
e del Protocollo addizionale alla Convenzione stessa, firmato a Parigi il
20 marzo 1952); pone l’accento su una sentenza della Corte europea dei
diritti dell’uomo (in causa C. Goodwin c. Regno Unito, 11 luglio 2002),
che dichiarò contrario alla Convenzione il divieto di matrimonio del
transessuale (dopo l’operazione) con persona del suo stesso sesso
originario, sostenendo l’analogia della fattispecie con quella del
matrimonio omosessuale; evoca altresì la Carta di Nizza (Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione Europea) e, in particolare, l’art. 7 (diritto al
rispetto della vita privata e familiare), l’art. 9 (diritto a sposarsi ed
a costituire una famiglia), l’art. 21 (diritto a non essere discriminati);
menziona varie risoluzioni delle Istituzioni europee, «che da tempo
invitano gli Stati a rimuovere gli ostacoli che si frappongono al
matrimonio di coppie omosessuali ovvero al riconoscimento di istituti
giuridici equivalenti»; infine, segnala che nell’ordinamento di molti
Stati, aventi civiltà giuridica affine a quella italiana, si sta
delineando una nozione di relazioni familiari tale da includere le coppie
omosessuali.

Ciò posto, si deve osservare che: a) il richiamo alla citata sentenza
della Corte europea non è pertinente, perché essa riguarda una
fattispecie, disciplinata dal diritto inglese, concernente il caso di un
transessuale che, dopo l’operazione, avendo acquisito caratteri femminili
(sentenza cit., punti 12-13) aveva avviato una relazione con un uomo, col
quale però non poteva sposarsi «perché la legge l’ha considerata come
uomo» (punto 95). Tale fattispecie, nel diritto italiano, avrebbe trovato
disciplina e soluzione nell’ambito della legge n. 164 del 1982. E,
comunque, già si è notato che le posizioni dei transessuali e degli
omosessuali non sono omogenee (v. precedente paragrafo 9); b) sia gli
artt. 8 e 14 della CEDU, sia gli artt. 7 e 21 della Carta di Nizza
contengono disposizioni a carattere generale in ordine al diritto al
rispetto della vita privata e familiare e al divieto di discriminazione,
peraltro in larga parte analoghe. Invece gli articoli 12 della CEDU e 9
della Carta di Nizza prevedono specificamente il diritto di sposarsi e di
costituire una famiglia. Per il principio di specialità, dunque, sono
queste ultime le norme cui occorre fare riferimento nel caso in esame.

Orbene, l’art. 12 dispone che «Uomini e donne in età maritale hanno
diritto di sposarsi e di formare una famiglia secondo le leggi nazionali
regolanti l’esercizio di tale diritto».

A sua volta l’art. 9 stabilisce che «Il diritto di sposarsi e il diritto
di costituire una famiglia sono garantiti secondo le leggi nazionali che
ne disciplinano l’esercizio».

In ordine a quest’ultima disposizione va premesso che la Carta di Nizza è
stata recepita dal Trattato di Lisbona, modificativo del Trattato
sull’Unione europea e del Trattato che istituisce la Comunità europea,
entrato in vigore il 1° dicembre 2009. Infatti, il nuovo testo dell’art.
6, comma 1, del Trattato sull’Unione europea, introdotto dal Trattato di
Lisbona, prevede che «1. L’Unione riconosce i diritti, le libertà e i
princìpi sanciti nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea
del 7 dicembre 2000, adattata il 12 dicembre 2007 a Strasburgo, che ha lo
stesso valore giuridico dei trattati».

Non occorre, ai fini del presente giudizio, affrontare i problemi che
l’entrata in vigore del Trattato pone nell’ambito dell’ordinamento
dell’Unione e degli ordinamenti nazionali, specialmente con riguardo
all’art. 51 della Carta, che ne disciplina l’ambito di applicazione. Ai
fini della presente pronuncia si deve rilevare che l’art. 9 della Carta
(come, del resto, l’art. 12 della CEDU), nell’affermare il diritto di
sposarsi rinvia alle leggi nazionali che ne disciplinano l’esercizio. Si
deve aggiungere che le spiegazioni relative alla Carta dei diritti
fondamentali, elaborate sotto l’autorità del praesidium della Convenzione
che l’aveva redatta (e che, pur non avendo status di legge, rappresentano
un indubbio strumento di interpretazione), con riferimento al detto art. 9
chiariscono (tra l’altro) che «L’articolo non vieta né impone la
concessione dello status matrimoniale a unioni tra persone dello stesso
sesso».

Pertanto, a parte il riferimento esplicito agli uomini ed alle donne, è
comunque decisivo il rilievo che anche la citata normativa non impone la
piena equiparazione alle unioni omosessuali delle regole previste per le
unioni matrimoniali tra uomo e donna.

Ancora una volta, con il rinvio alle leggi nazionali, si ha la conferma
che la materia è affidata alla discrezionalità del Parlamento.

Ulteriore riscontro di ciò si desume, come già si è accennato, dall’esame
delle scelte e delle soluzioni adottate da numerosi Paesi che hanno
introdotto, in alcuni casi, una vera e propria estensione alle unioni
omosessuali della disciplina prevista per il matrimonio civile oppure, più
frequentemente, forme di tutela molto differenziate e che vanno, dalla
tendenziale assimilabilità al matrimonio delle dette unioni, fino alla
chiara distinzione, sul piano degli effetti, rispetto allo stesso.

Sulla base delle suddette considerazioni si deve pervenire ad una
declaratoria d’inammissibilità della questione proposta dai rimettenti,
con riferimento all’art. 117, primo comma, Cost.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi:

a) dichiara inammissibile, in riferimento agli articoli 2 e 117, primo
comma, della Costituzione, la questione di legittimità costituzionale
degli articoli 93, 96, 98, 107, 108, 143, 143-bis, 156-bis del codice
civile, sollevata dal Tribunale di Venezia e dalla Corte di appello di
Trento con le ordinanze indicate in epigrafe;

b) dichiara non fondata, in riferimento agli articoli 3 e 29 della
Costituzione la questione di legittimità costituzionale degli articoli
sopra indicati del codice civile sollevata dal Tribunale di Venezia e
dalla Corte di appello di Trento con le medesime ordinanze.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della
Consulta, il 14 aprile 2010.

F.to:

Francesco AMIRANTE, Presidente

Alessandro CRISCUOLO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 15 aprile 2010.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA

Allegato:

ordinanza letta all’udienza del 23 marzo 2010

ORDINANZA

Visti gli atti relativi al giudizio di legittimità costituzionale
introdotto con ordinanza della Corte di appello di Trento depositata il 29
luglio 2009 (n. 248 R.O. del 2009);

rilevato che in tale giudizio è intervenuta l’Associazione Radicale Certi
Diritti, in persona del Segretario e legale rappresentante p.t., con atto
depositato il 3 novembre 2009;

che nel medesimo giudizio sono intervenuti, con atto depositato il 25
febbraio 2010, i signori C. M. e G. V., P. G. B. e C. G. R., R. F. R. P.
C. e R. Z., tutti di sesso maschile;

che né l’Associazione Radicale, né i signori di cui all’intervento in data
25 febbraio 2010 sono stati parti nel giudizio a quo;

che, per costante giurisprudenza di questa Corte, sono ammessi a
intervenire nel giudizio incidentale di legittimità costituzionale (oltre
al Presidente del Consiglio dei Ministri e, nel caso di legge regionale,
al Presidente della Giunta regionale), le sole parti del giudizio
principale, mentre l’intervento di soggetti estranei a questo è
ammissibile soltanto per i terzi titolari di un interesse qualificato,
inerente in modo diretto ed immediato al rapporto sostanziale dedotto in
giudizio e non semplicemente regolato, al pari di ogni altro, dalla norma
o dalle norme oggetto di censura (ex plurimis: ordinanza letta all’udienza
del 31 marzo 2009, confermata con sentenza n. 151 del 2009; sentenze n. 94
del 2009, n. 96 del 2008, n. 245 del 2007; ordinanza n. 414 del 2007);

che l’ammissibilità dell’intervento ad opera di un terzo, titolare di un
interesse soltanto analogo a quello dedotto nel giudizio principale
contrasterebbe con il carattere incidentale del giudizio di legittimità
costituzionale, in quanto l’accesso delle parti a detto giudizio
avverrebbe senza la previa verifica della rilevanza e della non manifesta
infondatezza della questione da parte del giudice a quo;

che, pertanto, sia l’intervento dell’Associazione Radicale Certi Diritti
sia quello spiegato con l’atto depositato il 25 febbraio 2010 devono
essere dichiarati inammissibili, indipendentemente dal carattere tardivo
di quest’ultimo (ordinanza n. 119 del 2008).

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara inammissibili gli interventi dell’Associazione Radicale Certi
Diritti e dei signori C. M. e G. V., P. G. B. e C. G. R., R. F. R. P. C. e
R. Z.

F.to:

Francesco AMIRANTE, Presidente
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