Schettino e i moralisti sospetti
Luigi Manconi
Anch’io, come Friedrich Nietzsche penso spesso che il moralista sia «una persona sospetta». Tanto più quando si esercita in un campo davvero minato quale quello della giustizia, dove più frequenti sono le menzogne ideologiche, più facile è la mobilitazione emotiva, più grossolani i processi di distribuzione delle colpe. Esempio. Da qualche giorno l’indignazione collettiva –dopo aver travolto il comandante Francesco Schettino- si indirizza verso il Gip che gli ha concesso gli arresti domiciliari.
In 24 ore il comandante della Concordia ha assunto il ruolo di capro espiatorio. Meritatamente, si può dire, o almeno inevitabilmente. Fatale che la sua figura disegnasse i contorni di un prototipo umano sul quale scaricare la Riprovazione Nazionale. L’inconscio collettivo teme, non senza ragione, che le miserie di Schettino riguardino almeno in parte tutti noi o che, comunque, non ci siano estranee. Dunque, troviamo confortante fare di lui il paradigma del colpevole, l’emblema di un’ Italia che ci sembra di riconoscere in molte nostre tentazioni, se non proprio in molte nostre azioni. Pertanto, la stigmatizzazione furiosa e appassionata di Schettino rassomiglia molto a un rito destinato a esorcizzare le nostre debolezze. Guai a sospendere quel rito, a ridimensionarlo, a banalizzarlo.
Il Gip che ha disposto gli arresti domiciliari ha fatto esattamente questo: ha reso ordinario -dunque giudicabile in base al codice e non all’enfasi emotiva- il reato, lo ha trattato come una normale fattispecie penale, lo ha sottratto alle passioni della folla per valutarlo secondo criteri giuridici. È qui che trova spazio il «moralista sospetto» e che le sue sentenze simil-morali incontrano maggiore consenso. Poco importa la verità dei fatti. Poco importa che Schettino non sia stato affatto «rimesso in libertà». È rimasto detenuto, assegnato -in base a una valutazione del giudice,come prevede la legge– agli arresti domiciliari. Quest’ultima condizione non è un anticipo di pena, inflitta in base ai delitti commessi, dal momento che nessuna sentenza è stata ancora emessa. Prima di allora, la custodia cautelare in carcere va utilizzata solo ed esclusivamente al fine di impedire che l’indagato possa: a) reiterare il reato, o commetterne di nuovi; b) inquinare le prove; c) darsi alla fuga. Se il giudice valuta che nessuna di queste circostanze sia immanente, l’indagato non va in carcere. Ma resta il fatto che anche gli arresti domiciliari costituiscono una vera e propria privazione della libertà. Questa è l’attuale condizione in cui si trova Schettino, per volere del Gip: e contro questa decisione, come prevede la legge, la procura presenterà appello.
Ritenere invece che la gravità morale del suo comportamento debba tradursi immediatamente nella massima mortificazione morale della sua persona è appunto il pensiero di un «moralista sospetto». Lo stesso vale per un caso appena precedente, che ha suscitato scandalo ancora maggiore. Ovvero la mancata autorizzazione all’arresto nei confronti del deputato Nicola Cosentino. Voglio essere chiaro: fossi stato parlamentare non so come mi sarei comportato; e in passato, di fronte a vicende simili, mi è capitato di assumere una posizione diversa da quella del mio schieramento politico. Questa volta, non so. Ma è irritante la disinvoltura con cui vengono alterati anche i fatti più semplici. In occasione del voto su Cosentino, si è sentito dire che, negando l’arresto richiesto dai giudici, «si fermavano i giudici». Ma è assolutamente falso, come ha spiegato il deputato radicale Maurizio Turco. Si può pensare tutto il male possibile di Cosentino (io lo penso), si può acconsentire al suo arresto oppure no, ma non si può negare che il procedimento nei confronti dell’esponente del Pdl è in corso e continuerà, arresto o non arresto. Ma qui si fa sentire il ruolo del «moralismo sospetto». Sembra che quest’ultimo, per mostrarsi vivo, e non mera declamazione, debba necessariamente richiamare un apparato simbolico imponente e gravoso. Fateci caso: mai una semplice condanna, ma sempre «una condanna esemplare»; mai una misura alternativa, ma sempre il carcere, la cella, le sbarre. E, dunque, in aula con le manette ai polsi, pur se anziano e malato (Calisto Tanzi); e una custodia cautelare capace di rendere tristemente ridicolo perfino il dramma della sofferenza patita, quale risarcimento della tragicomica vita precedente (Lele Mora). In altre parole, emerge nitidamente come l’inconsistenza dell’urlo del moralista, che si ritiene custode dell’etica pubblica, richieda, per essere udita, una sorta di bagaglio pesante e ingombrante, fatto di schiavettoni e porte blindate, di bardature ferrigne e di coercizione, di contenzione dei corpi e delle libertà.
21 gennaio 2012