Il Dolore e la Politica

La recensione di Paolo Soldini sul Riformista.

Prima domanda: chi deve leggere questo libro? Prima risposta: soprattutto i medici. “Il dolore e la politica” di Andrea Boraschi e Luigi Manconi (edizioni Bruno Mondatori, pagine 200, 13 euro) nasce dalle emozioni e dalle discussioni sollevate dalla morte di Piergiorgio Welby, solleva il “caso politico” (virgolette necessarissime) del confronto in atto nell’opinione pubblica sui temi dell’”accanimento terapeutico, del testamento biologico e della libertà di cura” (elencati nel sottotitolo) e sfiora, per esorcizzarlo, il Grande Tabù dell’eutanasia; è destinato, insomma, al pubblico “normale”. E però contiene la prima ricerca sistematica sull’atteggiamento dei medici in merito al testamento biologico. Anzi, per dirlo meglio, alle “dichiarazioni anticipate di volontà” dei pazienti, formula faticosa assai ma certo più chiara per definire ciò di cui si va parlando. E mostra, dalle risposte dei 266 medici ospedalieri interpellati, quanto sia necessario che l’argomento, in fondo già abbastanza dibattuto tra i non specialisti perché tutte le questioni di vita e di morte hanno un loro naturale e comprensibile impatto, venga invece approfondito assai di più proprio tra gli specialisti, tra gli operatori della sanità: tra quelli, insomma, che insieme con i pazienti e con i loro familiari si troveranno a gestire la nuova disciplina, se e quando la legge, che qualche tempo fa sembrava imminente ma ora forse non lo è più, si farà. Curioso rovesciamento, che dà da pensare: in genere sono gli specialisti, i mitici “addetti ai lavori”, che sensibilizzano il grande pubblico e gli offrono le chiavi necessarie ad orientarsi.
Stavolta, in qualche modo pare accadere il contrario. Sono i due autori che dispiegano i loro saperi – Luigi Manconi oltre che sottosegretario alla Giustizia nel governo Prodi è professore di Sociologia dei fenomeni politici, Andrea Boraschi è dottore di ricerca in Sociologia della comunicazione – insieme con Stefano Rodotà e Ignazio Marino per mettere a fuoco, nella prima parte del libro, la cornice concettuale dentro la quale va disegnata la ricerca di soluzioni, politiche, etiche, giuridiche, psicologiche, al “che fare” di fronte al concreto porsi di un diritto a rinunciare a terapie che trattengano la vita anche contro la volontà del paziente. La questione è molto complessa sotto tutti i profili, ma Manconi e Boraschi, e Rodotà e Marino hanno a disposizione un patrimonio di opinioni consolidate sulla base delle quali sottrarre la questione alle paludi dei preconcetti ideologici e pseudo-morali, che purtroppo hanno avuto largo corso, anche nell’atteggiamento della magistratura, durante la vicenda Welby, e collocarla sul solido terreno della concretezza e dei sani princìpi, il rispetto dei diritti individuali contro un’astratta e ideologicamente malintesa presunta “indisponibilità” della vita umana. Citiamo, in modo un po’ disordinato, alcuni dei punti sui quali il libro introduce preziosi elementi di chiarezza in un dibattito che è stato spesso, e spesso volutamente, assai confuso.
Per esempio la netta distinzione tra testamento biologico, o “direttive anticipate” come preferisce chiamarle Rodotà, e ogni qualsiasi forma di pratica eutanasica. Il distinguo è così chiaramente definibile che gli autori sono in grado di citare più volte formulazioni venute dalla stessa Chiesa cattolica già negli anni ’70. Pur se in tempi recenti da alcuni esponenti della gerarchia sono venute espressioni ambigue e limitative, il pensiero della Chiesa sul diritto di rifiuto dell’accanimento terapeutico e sulla distinzione tra l’”uccidere” e il “lasciar morire” è formulato in modo tanto chiaro da aver addirittura consentito a Giovanni Paolo II, com’è noto, di rifiutare un’ultima “proroga” delle cure cui era sottoposto. Altri due punti, forse quelli più delicati nella definizione della futura normativa, riguardano la reversibilità della decisione assunta con il testamento, la quale deve ovviamente essere sempre garantita, e il progresso delle tecniche terapeutiche. Questioni effettivamente non facili: si immagini che io dia disposizione per il rifiuto di certe pratiche mediche che ora sono da considerarsi comunque inadeguate a provocare una guarigione o un miglioramento sensibile delle condizioni di vita, ma che poi, quando si tratterà di applicare il mio “no” quelle tecniche siano migliorate al punto di farmi guarire o di consentirmi una vita che, per i miei criteri di adesso, è accettabile. O si pensi a quell’attitudine tutta umana che consiste nel “ripensarci”, considerando domani accettabile quello che oggi appare non esserlo…A questo parzialissimo elenco aggiungiamo soltanto un altro elemento: a chi dev’essere demandata la decisione sull’interruzione delle cure quando si configurino situazioni di incertezza, non tutte pre-definite nel testamento. Chi sarà il “fiduciario” che prenderà la decisione? Con quali criteri andrà scelto? Potrà essere il medico curante o no?
Su queste – e a tante altre – domande cui l’opinione pubblica e domani la legge cercheranno risposte, il libro offre suggerimenti e tracce preziose. Meno certezze invece, fa registrare, come accennavamo all’inizio, la ricerca compiuta sull’orientamento dei medici. Colpisce, per esempio, che ben il 42,1% degli operatori interpellati ammetta di avere una “scarsa conoscenza dell’argomento” e non conforta il fatto che, tra i motivi ritenuti decisivi per l’adozione di un comportamento piuttosto che di un altro, il rispetto del diritto dei pazienti all’autodeterminazione abbia un posto alquanto subordinato. Può darsi che la classe medica, per una sorta di deformazione professionale, abbia la tendenza a mettere in secondo piano le questioni etico-giuridiche dei diritti individuali rispetto a quelle etico-professionali della sua missione. Motivo in più, anche per i medici, per leggere e meditare su “Il dolore e la politica”.