Dichiarazioni anticipate di volontà
Una ricerca.

ABSTRACT.
Il campione della ricerca si compone di 266 medici, la maggioranza dei quali oncologi e anestesisti-rianimatori, operanti in 19 ospedali italiani distribuiti in ogni area geografica della penisola

Interrogati sul grado di familiarità con il tema delle dichiarazioni anticipate di trattamento, il 42,1% degli intervistati giudica “scarso” il proprio livello di conoscenza della materia; il 33,5% lo ritiene “sufficiente”, mentre il 20,3% afferma di avere buona preparazione sull’argomento. Solo in 8 casi (3%) si dichiara un grado di informazione “approfondito”.
La percentuale di informati cresce ordinatamente alla successione delle classi di anni di pratica medica, anche se lo scarto tra le due categorie estreme (i medici più ‘giovani’, con al massimo 7 anni di esperienza, e i medici più ‘anziani’, con 25 e più anni di esperienza medica) risulta inferiore al 20%.
L’argomento delle dichiarazioni anticipate di trattamento, da quanto affermano i medici intervistati, non appare particolarmente socializzato nell’ambito della comunità medica. Solo il 47,5% degli intervistati dichiara di aver affrontato il tema delle dichiarazioni anticipate di trattamento nel corso di discussioni con colleghi; mentre il 19,6% del campione ha avuto occasione di partecipare a riunioni o convegni scientifici in cui si è parlato di Testamento Biologico.
Ma è soprattutto con i pazienti che non si discute di direttive anticipate. Nell’economia del rapporto medico-malato l’argomento sembra trovare posto solo raramente (appena il 15,1% degli intervistati ne ha discusso con i pazienti).
Ma quali sono le ragioni per cui l’argomento delle dichiarazioni anticipate interessa la classe medica? Gli intervistati citano una grande quantità di “motivi di interesse”, che vanno da questioni di stampo etico-morale relative alla prassi clinica (il carico emotivo, etico e deontologico che il medico si trova a gestire in situazioni critiche), ad argomenti centrati sul paziente (la necessità di assicurare il rispetto della sua volontà, il suo grado di consapevolezza), fino a questioni (e queste sono le più frequenti) prettamente “tecniche”, relative cioè agli aspetti legali dell’attività professionale. Dalla ricerca emerge che i medici credono che l’adozione del testamento biologico in Italia genererebbe una piccola rivoluzione giuridica in ambito sanitario: alla quale non sarebbe semplice adeguarsi e per la gestione della quale sono necessarie dettagliate norme di applicazione. Particolarmente frequente è il riferimento alla necessità che le decisioni da assumere siano collegiali; dunque, che una eventuale certificazione dello stato clinico del paziente, necessaria per l’applicazione delle dichiarazioni anticipate, non gravi interamente sul singolo medico.

Qual è, nell’opinione dei medici, l’interesse da parte dei pazienti nei confronti dell’istituto del Testamento Biologico? Quasi la metà degli intervistati afferma che, con la dovuta pubblicizzazione, chiunque potrebbe essere interessato alla redazione del proprio testamento biologico. Il 29% degli intervistati sostiene, invece, che l’interesse possa esserci solo da parte di persone particolarmente sensibili al tema. Appena il 17,3%, infine, crede che sia il particolare stato patologico nel quale ci si trova a costituire l’elemento motivante alla presa in considerazione delle dichiarazioni anticipate di trattamento.

Emerge a più riprese, nel corso dell’indagine, la convinzione secondo cui il percorso di diagnosi, prognosi e terapia di una malattia sia un iter “difficile”, soggetto a revisioni e aggiustamenti continui. Troppe sono le decisioni delicate da prendere e troppo specialistico è il sapere che tali decisioni chiamano in causa. Il paziente è in grado di scegliere? Il medico deve realmente “farsi da parte”? E soprattutto: è utile che il paziente prenda decisioni vincolanti sull’operato del medico in un momento antecedente (e a volte temporalmente distante) al sopraggiungere di una malattia?
Quali sono i casi in cui il testamento biologico va applicato? Il 7,5% degli intervistati sostiene che non vada applicato “in nessun caso”; il 35,7% che vada applicato solo in caso di stato vegetativo permanente; il 28,6% lo prefigura in relazione all’eventuale perdita di coscienza in seguito a patologie inguaribili; il 10,9% in tutti i casi di incapacità del paziente; il 12,5% in tutti i casi di patologia che il paziente sia in grado di prefigurare.
Altra questione è quella dei trattamenti da considerare irrinunciabili. Molti dei medici intervistati non tendono a considerare irrinunciabili i singoli trattamenti. Sono invece le patologie a fare la differenza (22,9%). In particolare, quando la malattia è guaribile, quando l’eziogenesi è incerta, quando il trattamento è urgente, quando è utile al miglioramento dello stato del paziente, perché rinunciare alle terapia? Di contro, nel 24,6% delle risposte si afferma che non esistono trattamenti “irrinunciabili”: il paziente deve essere lasciato perfettamente libero di decidere quali trattamenti includere nel testamento biologico.
I medici sono stati interrogati sulla questione dell’alimentazione e idratazione artificiali: se, a loro parere, si tratti di “ trattamenti medici” – potenzialmente oggetto di dichiarazioni anticipate – oppure se siano da considerarsi “pratiche di tipo assistenziale e non terapeutico”, dunque irrinunciabili. Il campione è apparso letteralmente spaccato in due: circa il 50% opta per la prima risposta, una percentuale di poco inferiore per la seconda.

Nel dibattito corrente sul living will, una questione cruciale è rappresentata, come è noto, dal valore più o meno vincolante che le dichiarazioni anticipate possono assumere per il medico: ovvero dalla questione se esse rappresentino un documento cui doversi attenere rigidamente (poiché comprovanti volontà incoercibili del paziente) o, piuttosto, se abbiano una semplice funzione di orientamento, di indicazione non tassativa cui il medico, in scienza e coscienza, presta la dovuta attenzione. Il questionario di indagine ha previsto a riguardo un quesito specifico, rispetto al quale il campione si è diviso in due gruppi di consistenza pressoché paritaria. La quota di coloro che affermano il ruolo vincolante delle disposizioni è risultata più consistente tra i medici degli ospedali del centro-Italia, tra i medici più giovani, tra i medici che si dichiarano religiosi (quasi la totalità del campione era di confessione cattolica), tra gli oncologi e i rianimatori. Con riferimento al problema della “distanza” cronologica e psicologica che separa il momento della redazione del living will da quello della sua eventuale operatività, i sostenitori del valore orientativo delle disposizioni vedono in questo fattore un ostacolo decisivo all’opportunità e alla validità del Testamento Biologico nel suo complesso. Inoltre, un atteggiamento in favore del carattere puramente orientativo delle dichiarazioni anticipate di volontà sembra accompagnarsi ad una svalutazione del rilievo pubblico del tema; o, comunque, alla tendenza a circoscriverne il potenziale valore e interesse a pochi soggetti particolarmente motivati.
Risulta anche che al crescere della fiducia nell’autonomia del paziente aumenta, ordinatamente, la quota di coloro che reclamano il carattere vincolante delle disposizioni; e parallelamente decresce la quota di chi ritiene che esse debbano avere un carattere semplicemente orientativo.
Sui margini che devono essere riconosciuti al medico, quanto alla possibilità di disattendere le dichiarazioni anticipate, l’80% degli intervistati si mostra d’accordo con la formulazione secondo la quale tale possibilità debba essere assicurata solo quando le dichiarazioni anticipate non siano più corrispondenti, in virtù degli sviluppi delle conoscenze mediche e terapeutiche, a quanto l’interessato aveva espressamente previsto al momento della redazione.
Tre quarti dei medici intervistati ritiene che il medico che disattende quanto previsto dal living will dovrebbe avere l’obbligo di argomentare la sua scelta, indicandone le motivazioni della decisione nella cartella clinica; nel restante 25% sono in molti a credere che questa procedura aprirebbe, di fatto, una via legale alla possibilità di disattendere la volontà del paziente.
Un aspetto di rilievo nel dibattito sul Testamento Biologico riguarda l’eventuale istituzione del ruolo del fiduciario: un soggetto terzo che, in caso di sopravvenuta incapacità del paziente, ne rappresenti la volontà rispetto ai trattamenti medici da assumere. Le valutazioni positive sono prevalenti in termini assoluti: il 53% degli intervistati si dichiara favorevole alla figura del fiduciario, mentre i contrari non raggiungono il 30% (peraltro con una dispersione molto alta quanto a ragioni addotte). Tra quanti sono favorevoli, il rispetto della volontà del paziente e il processo di assunzione delle decisioni risulterebbero facilitati dalla presenza del fiduciario. Significativo è anche il riferimento al fatto che questa figura consentirebbe di porre rimedio al problema della “distanza temporale” fra il momento della redazione del living will e quello della sua applicazione.
Una domanda più ampia del questionario tendeva a registrare le opinioni dei medici relativamente all’accettabilità del living will in quanto tale: al di là, quindi, delle specifiche soluzioni normative. Oltre un quarto degli intervistati, non ha voluto o saputo pronunciarsi su questo punto cruciale. I favorevoli costituiscono la metà esatta degli intervistati, mentre i contrari si attestano intorno al 10%. I favorevoli sono più frequentemente uomini (piuttosto che donne), con un buon grado di informazione sull’argomento, di media anzianità professionale, rianimatori (piuttosto che oncologi o medici di altre specializzazioni), non religiosi. Inoltre, i favorevoli all’istituzione del Testamento Biologico appaiono frequentemente inclini a riconoscere il carattere vincolante delle dichiarazioni anticipate di trattamento.
Appare altresì interessante notare la relazione di questo atteggiamento con l’“indice di fiducia”. Si tratta di una misura della capacità, riconosciuta dal medico al paziente, di “gestire” in modo provveduto la propria situazione di malattia (cercando cioè di acquisire le informazioni necessarie, comprendendole in misura sufficiente e richiedendo la piena comunicazione da parte del medico circa il proprio stato). Così inteso, l’indice di fiducia tende a configurarsi come valutazione di un modo latamente “paternalistico” di concepire il rapporto medico-paziente. Nella misura in cui questo “paternalismo” induce a svalutare l’autonomia del paziente cresce la quota di contrari al living will; mentre quella stessa quota diminuisce tra coloro che attribuiscono al paziente capacità cognitive e culturali sufficienti ad una gestione autonoma e avveduta dell’esperienza della malattia.
Una domanda del questionario chiedeva agli intervistati di specificare se, a loro giudizio, “nella pratica clinica concreta si osservano situazioni in cui è giustificato parlare di accanimento terapeutico”. Il 57% dei medici ammette che nella pratica clinica concreta è frequente osservare situazioni di accanimento terapeutico. Per il 36% si tratta si una eventualità poco frequente e solo per il 2% queste situazioni non si verificano “mai o quasi mai”. Risulta – a sicuri livelli di accettabilità statistica – che sono i rianimatori piuttosto che gli oncologi, e i favorevoli al living will piuttosto che i contrari, a “vedere” più frequentemente casi di accanimento nella pratica medica corrente.
Il questionario di indagine ha affrontato la questione dello stato vegetativo permanente da tre punti di vista. Innanzitutto da quello strettamente clinico, inerente la diagnosi e la prognosi di irreversibilità dello Stato Vegetativo Permanente (SVP); successivamente dal punto di vista di una specifica valutazione etica. Alla domanda “A suo parere, i criteri scientificamente accreditati consentono – nella pratica clinica – di diagnosticare la condizione di SVP in modo NON EQUIVOCO?” oltre il 40% dei medici ha dichiarato di “non sapere” fornire una risposta al punto, e oltre la metà (55.1%) di coloro che in un modo o nell’altro si pronunciano, si limita a fornire il giudizio ma non le ragioni che lo sostengono. Relativamente al comportamento da tenere in caso di SVP, l’agire comunque nella speranza di una ripresa sembra caratterizzare tipicamente i medici del sud piuttosto che quelli del nord, i religiosi piuttosto che i non religiosi, chi nega che si possa a ragione parlare di accanimento terapeutico nonché i medici di più lunga esperienza clinica. Infine, relativamente alla presunta equivalenza tra SVP e morte cerebrale, il campione si divide ancora una volta in due, mostrando una polarizzazione in gruppi di consistenza percentuale simile, e una significativa componente di mancate risposte.
Infine, il 26% degli intervistati dichiara che , anche se variamente etichettata (sedazione terminale ecc.) l’accelerazione di un decesso – comunque inevitabile in tempi brevi – è praticata di routine. Tuttavia, oltre il il 70.8% di coloro che rispondono alla domanda afferma che il caso proposto, cioè l’accelerazione di un decesso con prognosi infausta a breve scadenza, non autorizza a parlare di eutanasia.